La contrattazione collettiva vigente come possibile limite all’applicazione del decreto dignità

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Il decreto legge contenente “Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese”, c.d. “decreto dignità”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 2 luglio e in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ha suscitato reazioni negative pressoché unanimi dell’imprenditoria e delle associazioni di rappresentanza della medesima. Hanno destato notevoli e diffuse perplessità soprattutto il ripristino delle causali per i contratti a termine di durata superiore a 12 mesi, la formulazione ambigua delle medesime causali tassative ivi previste, nonché l’avventata estensione delle nuove limitazioni previste per il contratto a tempo determinato anche per la somministrazione a termine.

 

Vero è che una tale disciplina va ad impattare su un sistema di relazioni industriali i cui contratti collettivi contengono discipline di diverso segno, per lo più adeguate ai canoni di libertà ammessi dal d. lgs. n. 81/2015, c.d. Jobs Act, e palesemente incompatibili con la disciplina di prossima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (cfr. V. Ferro, M. Menegotto, F. Seghezzi (a cura di), Il lavoro temporaneo tra contratti a termine e somministrazione. Prima analisi in vista del c.d. decreto dignità, Adapt Labour Studies, e-book series n.72, 2018). Ad una prima riflessione, si potrebbe pensare che gli operatori economici, a prescindere dal contratto collettivo applicato ed i suoi contenuti, siano tenuti ineluttabilmente ad applicare la disciplina penalizzante del Decreto Dignità, mancando clausole di rinvio alla contrattazione collettiva e dunque non potendo la medesima derogare se non in senso migliorativo alle disposizioni legali.

 

L’applicazione della tecnica dell’inderogabilità, tuttavia, ha un ambito applicativo meno esteso di quanto possa pensarsi, incontrando un limite nell’ipotesi di raccordo tra fonte contrattuale collettiva e fonte legale secondo il criterio cronologico. Nell’ipotesi in cui ad un contratto collettivo vigente sopravviene una successiva normativa statale modificativa di talune clausole contrattuali, prevale il principio di inscindibilità delle medesime, rientrante nella libertà sindacale protetta dall’art. 39 Cost. Questa è la conclusione cui è sopraggiunta accorta dottrina (P. Tomassetti, Riordino delle tipologie contrattuali e contrattazione collettiva, in M. Tiraboschi (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Giuffrè, 2016, pp. 342 ss.) che si è interrogata sui rapporti tra regolazione legale e regolazione contrattuale, già ai tempi del Jobs Act, e le cui riflessioni si intendono qui recepire ed applicare per l’ipotesi di vigenza del c.d. decreto dignità.

 

Il rapporto tra regolazione contrattuale e sopravvenuta regolazione legale può atteggiarsi in alcune casistiche, a seconda delle quali prevale la clausola legale ovvero quella contrattuale preesistente, casistiche riassumibili come di seguito illustrato:

Fonte: rielaborazione da P. Tomassetti, Riordino delle tipologie contrattuali e contrattazione collettiva, in M. Tiraboschi (a cura di), Le nuove regole del lavoro dopo il Jobs Act, Giuffrè, 2016, pp. 358 – 362.

 

Il concorso tra la regolazione contrattuale vigente in materia di contratto a tempo determinato e somministrazione a tempo determinato e la regolazione del decreto dignità ricade chiaramente nell’ipotesi in cui la contrattazione collettiva realizza una modifica del precetto legale. In taluni casi, però, è previsto un rinvio alla contrattazione collettiva: è il caso della durata massima del rapporto a termine ex art. 19 c. 2 d. lgs. n. 81/2015, oppure i casi e la durata delle proroghe del contratto a termine tra somministratore e lavoratore ex art. 34, c. 2 d. lgs. n. 81/2015. In tal modo, ad esempio, è sono fatte salve le sei possibili proroghe ammesse dal CCNL Agenzie di somministrazione.

Il problema si pone per la disposizione che reintroduce, seppure con drafting normativo differente, il contratto a termine acausale di durata massima esclusivamente annuale già ammesso in passato a seguito della l. n. 92/2013, c.d. Riforma Monti, prevedendo esclusivamente per assunzioni e proroghe successive al dodicesimo mese di rapporto a termine, nonché in occasione di rinnovi, la necessità di una causale tra quelle previste dal decreto dignità.

Si tratta di un’ipotesi in cui la clausola contrattuale collettiva deroga alla sopravvenuta disposizione di legge in assenza di un rinvio. Per le ragioni di equità e giustizia sociale, poste a fondamento dell’inscindibilità contrattuale garantita dal rilievo costituzionale della libertà sindacale, si può affermare che prevalga la clausola della contrattazione collettiva sulla disposizione di legge. Dunque, in tutti quei sistemi di relazioni industriali in cui il contratto collettivo non prevede la compresenza di causali per l’assunzione (ivi incluse rinnovo e proroga) a tempo determinato, allora i datori di lavoro potranno utilizzare il contratto a termine acausale con i limiti previsti dalla contrattazione collettiva (durata massima e/o clausola di contingentamento). Per le medesime ragioni, si applica – laddove prevista – la disposizione contrattuale collettiva che prevede un diverso regime sanzionatorio per le ipotesi del licenziamento ingiustificato, essendo così disapplicata la previsione del decreto dignità che incrementa gli importi minimi e massimi dell’indennità risarcitoria prevista dal d. lgs. n. 23/2015.

Trovano invece applicazione le disposizioni del decreto dignità che comportano un incremento del contributo addizionale a fini previdenziali di cui all’art. 2, c. 28 l. n. 92/2012 per ciascun rinnovo, così come l’aumento a centottanta giorni del termine per impugnare il contratto a tempo determinato, stante l’assenza di clausole contrattuali in materia, a quanto consta.

 

Ciò premesso, una tale ricostruzione “disinnesca” i contenuti più discutibili in materia giuslavoristica del decreto dignità, almeno fintantoché i contratti collettivi non giungeranno a scadenza, nel qual caso, spetta alle parti sociali recepire la nuova disciplina legale. In tal modo sono fatti salvi gli esiti negativi prefigurabili in attuazione della disciplina come recentemente innovata: incremento del precariato a causa dell’aumento del turn over nella gestione dei lavoratori assunti a termine, incremento del contenzioso in ragione della genericità e ambiguità delle causali, difficoltà applicative nell’utilizzo della somministrazione a tempo determinato. Vero è che restano due incognite non di poco conto rispetto ad un tale approccio, pur sempre ipotizzando il suo accoglimento da parte di tutte le associazioni datoriali e sindacali: la magistratura e l’ispettorato del lavoro.

 

Questi ultimi, che potrebbero essere chiamati a pronunciarsi sulla questione, potrebbero comunque fare leva sul concetto di inderogabilità in peius, proprio delle norme di legge lavoristiche, e sul carattere “di diritto comune” del contratto collettivo, rigettando la tesi della prevalenza della contrattazione collettiva in favore di quella delle disposizioni legali, con sostituzione automatica delle clausole contrattuali collettive, da ritenersi nulle, per violazione di norme imperative di legge ex art. 1419 c.c.

 

Alessandro Alcaro

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@AlexAlcaro

 

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La contrattazione collettiva vigente come possibile limite all’applicazione del decreto dignità