Il Reporting Gender Pay Gaps come strumento per realizzare la trasparenza retributiva

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Bollettino ADAPT 10 luglio 2023, n. 26

 
Recentemente l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha pubblicato Reporting Gender Pay Gaps in OECD Countries. Guidance for pay transparency implementation, monitoring and reform. in cui vengono analizzati i requisiti di rendicontazione del divario retributivo di genere e di verifica della parità retributiva per le aziende del settore privato dei paesi dell’OCSE. Come è ormai noto, le lavoratrici continuano ad essere meno attrattive, fanno più difficoltà a ricoprire posizioni di leadership e guadagnano in media 88 centesimi per ogni dollaro o euro guadagnato da un uomo impegnato a tempo pieno. Come già affrontato in questo articolo, la trasparenza retributiva può davvero essere uno strumento idoneo a colmare il gender pay gap. Ed è in questo senso che diventa rilevante parlare dei report sulle disparità di genere: questi (redatti da più del 55% dei paesi dell’OCSE) hanno l’obiettivo di promuovere la pari retribuzione, informando sull’esistenza – ed eventualmente sulla misura – del gender pay gap nelle aziende.
 
Anche se in molti considerano i report sulla disparità di genere privi di contenuto se non addirittura inutili, è importante ricordare che la cittadinanza dev’essere, innanzitutto, messa al corrente delle informazioni che riguardano le retribuzioni (una maggior conoscenza dà anche più potere contrattuale), in secondo luogo, quando si parla di tematiche di genere, è fondamentale mettere in evidenza le iniziative, le policy e i risultati di tali politiche perché ciò può portare effetti nella lotta alle disuguaglianze di genere. A tal proposito, nel report dell’OCSE si riporta l’esempio di quanto avvenuto in Gran Bretagna attraverso l’approccio c.d. name and shame1, il quale ha stimolato il dibattito pubblico sul divario retributivo di genere. Nell’articolo di Duchini, Simion e Turrel Pay Transparency and Cracks in the Glass Ceiling si dimostra che le assunzioni in Gran Bretagna sono ormai fortemente influenzate dalle regole sulla trasparenza salariale: i datori di lavoro forniscono informazioni sui salari negli annunci di lavoro ed offrono posti di lavoro più flessibili, cercando, in questo modo, di essere più attrattivi per il mercato femminile. Addirittura, è stato dimostrato (vedi J. Blundell, Wage responses to gender pay gap reporting requirements, CEP Discussion Paper No. 1750/2021) che le donne sono fortemente influenzate dai report sui divari di genere nel mondo del lavoro: la maggior parte delle donne accetterebbe un salario inferiore del 2,5% pur di non lavorare per un’azienda in cui esiste una forte gender pay gap. Risulta quindi molto importante la condivisione delle statistiche retributive disaggregate per genere con il pubblico, anche se solo la metà dei paesi presi in considerazione lo fa. In Australia, Canada, Norvegia, Spagna e Regno Unito tutte le informazioni raccolte devono essere rese note attraverso un rapporto o sotto forma di piano d’azione, negli altri paesi, invece, solo una parte di queste viene messo a conoscenza della cittadinanza.

 
In base allo Stato, cambia anche il modo in cui i vari portatori di interesse vengono coinvolti nella stesura e nei risultati dei rapporti. In paesi come la Svezia, la Norvegia e la Finlandia, la raccolta dei dati e lo studio degli stessi devono essere fatti in stretta collaborazione con le lavoratrici, i lavoratori e con i loro rappresentati, i quali devono essere direttamente informati sui risultati e coinvolti nella loro produzione. Nella maggior parte degli altri paesi, è solo richiesto che i datori di lavoro condividano i risultati, senza che gli stakeholder siano parte integrante del processo. Ciò che può cambiare è anche il tipo di comunicazione che viene fatta ai dipendenti: in molti dei paesi presi in considerazione, le/gli impiegati devono essere informati direttamente dalle aziende attraverso comunicazioni ufficiali. Questo in Italia non è previsto. La Francia si contraddistingue per avere il sistema di condivisione delle informazioni più completo: le aziende devono rendere noti i risultati dei singoli indicatori, così come i dettagli sulle metodologie che sono state utilizzate alle autorità e, inoltre, devono inserire tutte le informazioni all’interno di un database (il Base de données économiques, sociales et environnementales BDESE).
È di fondamentale importanza che i risultati delle analisi sulle disparità di retribuzione siano rese note alle lavoratrici, ai lavoratori e a tutti gli altri portatori di interesse, perché i datori di lavoro devono essere responsabili nei confronti dei propri dipendenti e/o dei loro rappresentanti.
 

Anche se nei diversi paesi la normativa prevede che tali report vengano pubblicati con cadenza annuale o biennale – e quindi con una certa regolarità-, stiamo comunque parlando di policies che nella maggior parte dei casi non hanno nemmeno 10 anni e che, quindi, presentano ancora molti difetti. Molte delle aziende che hanno l’obbligo di produrre un report sulle disparità di genere sono individuate da regole che definiscono i destinatari in base alle dimensioni, al numero di ore lavorate dai dipendenti e dal tipo di contratto che viene ap. Innanzitutto, soltanto la legge spagnola prevede che tutte le aziende – indipendentemente dalla misura, etc. – debbano raccogliere i dati sul gender pay gap; in Portogallo, invece, tutte le aziende che hanno almeno un dipendente devono inoltrare al Ministero del Lavoro un report che, tra le altre cose, analizza anche la questione di genere. Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Lituania e Svezia prevedono che siano incluse tra i requisiti di rendicontazione le piccolissime e le piccole aziende con meno di 50 dipendenti; in quasi tutti i paesi c’è l’obbligo di dichiarazione delle retribuzioni per le aziende che presentano un numero di dipendenti compreso tra 50 e 249. In Irlanda, Israele, Giappone, Core e Regno Unito, invece, esiste l’obbligo solo per le grandi aziende che contano, rispettivamente, almeno 250, 518, 301, 500 e 250 lavoratrici e lavoratori. Si capisce, quindi, che in paesi – come l’Italia – in cui la maggior parte delle aziende sono piccole medie imprese, il bacino di riferimento è molto ristretto.
 
La popolazione di studio rischia ancora di restringersi, vanificando ulteriormente lo strumento del reporting gender data, se si considera che molte regole nazionali prendono in considerazione per le analisi solo quei dipendenti con contratto tipico e/o a tempo indeterminato. In numerosi casi le lavoratrici e i lavoratori più precari, gli esternalizzati, gli autonomi e anche quelli a tempo determinato sono esclusi. I paesi in cui l’obbligo di report vale per tutti i salariati sono Austria, Danimarca, Finlandia, Islanda, Lituania e Svezia, mentre in Belgio, Norvegia, Spagna, Svizzera e Gran Bretagna sono inclusi solo i lavoratori subordinati tipici. La normativa italiana e coreana non prevede che nella raccolta dati vengano inclusi le lavoratrici e i lavoratori interinali e in Islanda, Spagna, Norvegia e Portogallo nemmeno gli appaltatori e i consulenti. In Austria, inoltre, vengono escluse le persone a cui si applica un contratto a tempo determinato, mentre in Canada e in Giappone non vengono contati le lavoratrici e i lavoratori che rimangono in azienda per meno di un anno.
 

Il report sul gender pay gap perde ulteriormente valore e credibilità se si considera che le sanzioni sono poco severe. Nella maggior parte dei casi si tratta di sanzioni di tipo economico, in altri di tipo reputazionale (name and shame approach). In Italia, per esempio, se la non conformità persiste per più di 12 mesi, i datori di lavoro inadempienti rischiano la sospensione per un anno di tutti i benefici contributivi di cui gode l’azienda.

 
Come sempre, il dialogo sociale può rivelarsi un ottimo strumento per sensibilizzare sul tema e per reclamare pratiche più incisive di trasparenza retributiva. Tuttavia, sono pochissimi i paesi che sfruttano le relazioni industriali per promuovere ambienti di lavoro e salari privi di discriminazioni. Nel 2021 solo in nove paesi OCSE il gender pay gap veniva affrontato a livello di contrattazione collettiva.
 
Francesca Valente

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Siena

@valentefranc
 

1 L’approccio name and shame ha l’obiettivo di rendere pubblico quanto di sbagliato fatto da una persona, un gruppo o un’azienda.

Il Reporting Gender Pay Gaps come strumento per realizzare la trasparenza retributiva
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