Il mio canto libero – Tasso di occupazione, scandalo italiano

Bollettino ADAPT 19 aprile 2022, n. 15
 
Ritorniamo sullo scandalo italiano che segnala il fallimento delle politiche del lavoro. Il Libro Bianco del 2001 sul futuro del mercato del lavoro in Italia fu impostato da Marco Biagi sul tasso di occupazione quale misura sia del grado di competitività economica, sia di quello di inclusione sociale. Prima di allora, tutto il dibattito pubblico sul lavoro considerava solo il tasso di disoccupazione prescindendo dalle molte persone inattive. Eppure l’anomalia italiana che Biagi segnalava – e che tuttora è evidente – consiste proprio nella bassissima attività della nostra società nel confronto con gli andamenti della produzione di ricchezza. Penultimi in Europa per tasso di occupazione, ci supera in negativo solo la Grecia con ben altro Pil. Vi è una mappa molto indicativa della nostra eccezione. Quella prodotta periodicamente da Eurostat mettendo a confronto non solo gli Stati dell’Unione ma anche le loro grandi aree amministrative interne.
 
L’Italia si distingue per tassi di occupazione deboli e inferiori a quelli di molta parte della Germania e della Francia persino delle regioni ricche del nord mentre il divario con l’intero mezzogiorno e le isole non ha eguali nel continente. Si dirà che dovremmo calcolare nella attività della nostra società anche il lavoro volontario di cura in quanto più diffuso che altrove. Ma anche considerandolo secondo i numeri che conosciamo, il divario rimane. Lo stesso lavoro sommerso, probabilmente in ripresa per non penalizzare le pensioni o i sussidi, è in teoria intercettato dalla rilevazione statistica che nulla chiede circa la regolarità del lavoro. Insomma, non siamo più la comunità brulicante degli anni ‘60 e proprio a partire dal decennio successivo si è avviato un progressivo declino della offerta di lavoro, accentuato dalla crisi demografica e interrotto solo da qualche fiammata legata a politiche intraprese ma presto interrotte. Se la domanda di lavoro è stata condizionata dal peso della ideologia, qui più influente che altrove, e dalla conseguente “paura” di assumere delle imprese meno strutturate, il rattrappimento della offerta è stato più recentemente accentuato dal reddito di cittadinanza, dal disastro educativo e formativo, dal diffondersi del nichilismo e della perdita del senso del lavoro.
 
Ora, secondo molti indicatori e le previsioni per il futuro postpandemico e postbellico, i mercati del lavoro dei Paesi ricchi già soffrono e ancor più soffriranno tensioni proprio dal lato della offerta. Ovvero molte produzioni di beni e di servizi (specie stagionali) saranno rallentate dalla carenza di materie prime e di persone. Tutto ciò deve indurre a rileggere il futuro del lavoro con gli occhiali di Biagi che si poneva il primario obiettivo di una società attiva, ovvero caratterizzata da elevati tassi di occupazione e di attività. L’Italia è probabilmente il Paese che, in proporzione al suo prodotto interno, più sottoutilizza la propria ricchezza umana con inevitabili conseguenze in termini di sviluppo economico e sociale. Le politiche di sostegno al reddito, educative, di tutela transizionale, di regolazione normativa da leggi e contratti, di carico degli oneri contributivi e, più in generale, di rigenerazione di una cultura vitalista dovrebbero concorrere a liberare domanda e offerta di lavoro.
 
Ogni azione pubblica dovrà misurarsi con i numeri delle persone incluse.
 
Maurizio Sacconi
Chairman ADAPT Steering Committee
@MaurizioSacconi

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