Il licenziamento disciplinare tra astrazione e concretezza: il contributo della Corte di Cassazione

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Bollettino ADAPT 14 febbraio 2022, n. 6
 

Nell’ultimo decennio, il legislatore ha più volte modificato il quadro normativo che presidia ipotesi e limiti delle conseguenze sanzionatorie del licenziamento. Pertanto, spesso risulta complesso per le imprese comprendere se la scelta di interrompere un rapporto di lavoro sia conforme ai precetti giuridici in materia. Eppure, la recente giurisprudenza di legittimità ha tentato di sistematizzare alcuni principi che possono rivelarsi come utili indicatori per gestire in modo adeguato una procedura di licenziamento. In particolare, con l’ordinanza n. 35581 emessa il 19 novembre 2021, la Corte di Cassazione ha osservato che in materia di licenziamento disciplinare, ai fini della valutazione circa la legittimità del recesso, non occorre valutare l’addebito disciplinare in astratto ma guardare ad alcuni aspetti concreti quali: a) le condotte rilevanti sul piano disciplinare tipizzate dalla contrattazione collettiva; b) l’intensità dell’elemento intenzionale; c) il grado di affidamento richiesto dalle mansioni; d) le precedenti modalità di attuazione del rapporto; e) la durata del contratto; f) l’assenza di sanzioni pregresse; g) la natura e la tipologia del rapporto medesimo.

Nel caso in quesitone, un’azienda aveva licenziato un dipendente poiché questo aveva prelevato alcune bottiglie di birra, del cous cous e un prodotto da forno consumandoli sul luogo di lavoro. Il datore aveva ritenuto dette condotte antigiuridiche e quindi passibili di sanzione disciplinare alla luce di una specifica disposizione contenuta nel codice disciplinare, affisso in bacheca, che prescriveva il divieto di “consumare generi alimentari o bevande alcoliche.

Ebbene, la Corte di Appello di Bologna, in sede di reclamo, in parziale riforma della decisione resa dal Tribunale locale, aveva dichiarato la illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore ai sensi dell’art. 18, comma 5 St. Lav. poiché aveva ritenuto sproporzionata la sanzione disciplinare espulsiva rispetto ai fatti commessi dal lavoratore. E pertanto aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro condannando l’azienda al pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva, in misura pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione ritenendo irragionevole la decisione assunta dal giudice di merito. La Suprema Corte, nel valutare il ricorso presentato, ricorda preliminarmente quale sarebbe la misura entro cui è sindacabile l’attività di integrazione del precetto normativo compiuta dal giudice di merito. Nel nostro ordinamento sono presenti norme a struttura aperta ascrivibili alla tipologia delle c.d. clausole generali, che richiedono di essere meglio specificate in via interpretativa al fine di ampliarne il contenuto e adeguarlo alla realtà mutevole del tempo. Tale specificazione, ricorda la Corte, può avvenire, mediante la valorizzazione di principi richiamati dalla disposizione stessa o anche di criteri desumibili dall’ordinamento generale, quali ad esempio, i principi costituzionali o, come nel caso in esame, la disciplina dettata dal contratto collettivo.

A tale riguardo, la Cassazione in diverse pronunce recenti, è giunta ad affermare che “la giusta causa è una nozione di contenuto generico che deve essere specificata in sede interpretativa ed adeguata alla realtà, articolata e mutevole nel tempo” (Cass. n. 12414/2002), e che “l’art. 2119 c.c., nel rinviare ad una nozione etico-sociale di giusta causa, costituisce una norma elastica, alla pari di quelle norme che fanno riferimento alla nozione di buona fede o di buon costume; in tutti questi casi l’interprete, ed in particolare il giudice del merito, nell’esprimere il giudizio di valore necessario per integrare una norma elastica (che, per la sua stessa struttura, si limita ad esprimere un parametro generale) compie un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa, dando concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa, introdotta per consentire alla norma stessa di adeguarsi ai mutamenti del contesto storico-sociale” (Cass. n. 19294/2008). Questa operazione esegetica è compiuta dal giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità (cioè la Corte di Cassazione), a patto che ci sia una specifica denuncia di non coerenza del giudizio rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale. Ciò significa che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non deve limitarsi ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma deve contenere, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.

Nel caso di specie si evince tuttavia che le parti, nelle difese prodotte in sede di legittimità, si siano limitate a criticare la valutazione compiuta dalla Corte territoriale, contestando aspetti di mero fatto e portando così all’attenzione del Supremo Collegio una valutazione di merito, relativa al contenuto dell’accertamento compiuto circa il fatto commesso (es. carattere isolato dell’infrazione, la modicità del valore di beni sottratti, i diversi anni di servizio presso l’azienda, la proporzionalità del licenziamento con i fatti di causa). Tutti aspetti non sindacabili nell’ambito di un giudizio di legittimità.

Gli Ermellini hanno infatti sottolineato che le parti, nel caso in esame, non hanno identificato i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sono stati violati dal giudice di merito, omettendo, nella ricostruzione, l’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards conformi ai valori dell’ordinamento e presenti nella realtà sociale, ma si sono limitati, invece, ad una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito.

Per questi motivi, la Suprema Corte, sottolineando che spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva tenendo conto non tanto della valutazione in astratto degli addebiti, quanto degli aspetti concreti del fatto, ribadisce un orientamento, già espresso in diverse occasioni, secondo cui l’attività di sussunzione del fatto concreto nella norma generale che definisce la giusta causa di licenziamento – l’art. 2119 c.c. – spetta al giudice di merito e tale attività può essere censurata in sede di legittimità soltanto laddove risulti viziata sotto il profilo della ragionevolezza e della logicità.

Orbene, se è vero che il Supremo Collegio può solo valutare la logicità della motivazione rispetto ai parametri normativi e contrattuali e il giudizio della Corte di Appello può essere criticato solo nella misura in cui questo appaia privo di ragionevolezza e logicità, si fa strada a questo punto un importante interrogativo: quale valore è stato attribuito alla mansione ricoperta dal lavoratore in relazione alla commissione dell’illecito disciplinare? Ragionevolmente, dobbiamo (e bisognava) tenere conto che nel caso di specie si trattava di un dipendente del supermercato, il quale, oltre a sistemare la merce, aveva anche l’onere di vigilare sulla stessa presente negli scaffali, e non di appropriarsene indebitamente.

A tale riguardo, per ovviare a possibili giudizi controversi, una soluzione che l’azienda potrebbe adottare per tutelarsi dinanzi anche a fatti che possono essere valutati dal giudice di merito come futili e non passibili di licenziamento, è quella di inserire nel codice disciplinare che anche i furti di lieve entità o la merce prelevata senza autorizzazione, a prescindere dalla quantità, può dar luogo ad un licenziamento disciplinare.

Graziana Ligorio

ADAPT Junior Fellow
@LigorioGraziana

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