Formazione o lavoro? Una riflessione a partire dalle recenti riforme spagnole

Interventi ADAPT

| di Michele Corti

Bollettino ADAPT 9 dicembre 2025, n. 43

Negli ultimi anni il governo spagnolo si è impegnato in una serie di importanti interventi normativi che stanno progressivamente modificando la regolazione del mercato del lavoro. Tra questi, il Real Decreto-ley 32/2021, che ha reso più flessibile il contratto a tempo indeterminato restringendo le possibilità di utilizzo di forme contrattuali di lavoro temporaneo e che si pone l’obiettivo di rafforzare la contrattazione collettiva settoriale quale strumento di gestione della politica salariale (si veda Lavinia Serrani, Spagna: una riforma complessiva del lavoro per recuperare i diritti e combattere la precarietà in Bollettino ADAPT 10 gennaio 2022, n. 1), e il Real Decreto-ley 99/2023, che ha avuto per oggetto l’aumento del salario minimo o, infine, la riforma che ha interessato i sussidi di disoccupazione. Questi interventi sono da intendersi come parte del Plan Nacional de Recuperación Transformación y Resiliencia (l’equivalente spagnolo del PNRR) all’interno del quale la Spagna ha inserito per l’appunto una componente specifica (la numero 23) dedicata alle “Nuove politiche pubbliche per un mercato del lavoro dinamico, resiliente e inclusivo”. Dentro questa componente c’è una riforma particolare, la numero 4, che riguarda proprio la “Revisione del catalogo contrattuale e il suo adattamento alle esigenze del mercato del lavoro del XXI secolo”.

Questo fermento non sembra essersi esaurito, poiché è di pochi giorni fa (27 novembre, Real Decreto 1065/2025) la notizia di un ulteriore intervento normativo, dedicato questa volta alla formazione ed all’ingresso nel mercato del lavoro. Si tratta di un intervento atteso da diverso tempo, in quanto fa seguito alla modifica dell’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori (Estatuto de los Trabajadores) avvenuta con il già citato Real Decreto-ley 32/2021, che regola i contratti formativi, ma che la legge rimandava a un successivo “sviluppo regolamentare” per definire nel dettaglio come questi contratti avrebbero dovuto funzionare nella pratica. Questa modifica aveva, nelle intenzioni, un duplice obiettivo: facilitare e regolare l’alternanza tra formazione e lavoro attraverso un vero contratto di lavoro, e garantire l’acquisizione di una pratica professionale appropriata.

Il contratto di formazione in alternanza ed il contratto per l’ottenimento della pratica professionale

Il decreto del 27 novembre 2025 ha posto fine ad un periodo di transizione durato quasi quattro anni, durante i quali imprese, giovani lavoratori e operatori vari hanno continuato, nelle loro attività, a fare riferimento alla normativa precedente, in particolare al Real Decreto 1529/2012, che era stato emanato per sviluppare l’articolo 11 dello Statuto dei Lavoratori e che prevedeva la disciplina di due tipologie di contratti formativi: il “contratto per la formazione e l’apprendistato” (contrato para la formación y el aprendizaje) ed il “contratto in pratiche” (contrato en práctica).

L’ultimo decreto pone fine a questo limbo normativo caratterizzato da scarsa chiarezza e stabilisce definitivamente che esistono due tipologie distinte di contratti formativi, ognuna con caratteristiche e finalità specifiche: Il contratto di formazione in alternanza (contrato para la formación en alternancia) e il contratto per ottenere una pratica professionale appropriata al livello di studi (contrato para la obtención de la práctica profesional). L’obiettivo dichiarato del primo strumento è quello di “rendere compatibile il lavoro retribuito con i corrispondenti processi formativi“. Si tratta di un sistema duale, sul modello tedesco, che permette a chi sta ancora studiando di lavorare contemporaneamente, alternando periodi in azienda e periodi sui banchi di scuola o all’università. Possono essere assunte con questo contratto esclusivamente persone che stanno seguendo percorsi di formazione professionale, studi universitari o corsi del catalogo delle specialità formative del Sistema Nazionale dell’Impiego. La durata va da un minimo di 3 mesi a un massimo di 2 anni. Un elemento fondamentale tutela, inoltre, la dimensione formativa: il tempo di lavoro effettivo non può superare il 65% dell’orario massimo previsto dal contratto collettivo nel primo anno, e l’85% nel secondo anno. Il resto del tempo deve essere dedicato alla formazione. Inoltre, sono vietati gli straordinari, il lavoro notturno e il lavoro a turni, proprio per garantire che lo studente-lavoratore non venga considerato come un dipendente normale. Il secondo tipo di contrato formativo è il contratto per ottenere una pratica professionale appropriata al livello di studi (contrato para la obtención de la práctica profesional). Questo contratto funziona in modo diverso: non è di tipo duale e non è pertanto prevista alcuna alternanza, ma consecutività. È pensato per chi ha già completato gli studi (laurea, diploma o certificato di grado C, D o E del sistema di formazione professionale) e ha bisogno di acquisire esperienza pratica nel campo in cui ha studiato. La durata, infine, nel caso del contratto per la pratica professionale è compresa tra sei mesi ed un anno.

Le due tipologie descritte condividono gran parte delle indicazioni normative: ad esempio, in entrambi i casi sono vietati gli straordinari, il lavoro notturno e il lavoro a turni, proprio per garantire che lo studente-lavoratore o il praticante non venga equiparato ad un dipendente normale. Il salario non può essere, in alcun caso, inferiore al salario minimo legale ed il programma formativo individuale è riconosciuto, in base al contenuto del decreto, come un diritto del lavoratore e deve essere sviluppato di comune accordo tra l’impresa, i servizi pubblici per l’impiego competenti e le autorità educative responsabili nel caso dei programmi duali.

L’impianto è fortemente orientato verso la promozione di percorsi strutturati, realmente in grado sia di garantire la componente formativa, sia di tutelare coloro che intraprendono questo tipo di percorso. Nonostante ciò, le statistiche fotografano una realtà che, non diversamente dal caso italiano, vede queste forme contrattuali faticare nell’affermarsi in contesti fortemente competitivi dove la concorrenza è rappresentata da forme di inserimento lavorativo più flessibili, meno costose, meno efficaci sia dal punto di vista formativo sia per quanto riguarda la capacità di garantire stabilità occupazionale e professionale. Tra queste, le practicas no laborales, uno strumento similare ai tirocini extracurricolari italiani che prevede il riconoscimento di un’indennità minima pari all’80% dell’IPREM (Indicador Público de Renta de Efectos Múltiples, ora pari a 600€), una durata massima di nove mesi e scarsi vincoli formativi, rappresentano infatti una concorrenza al ribasso che relega le due forme di contratto formativo a percentuali irrisorie, di poco superiori all’1% nel 2025 se confrontate alla totalità delle attivazioni contrattuali.

Il rischio di un’inutile sovrapposizione e le lezioni del caso spagnolo

L’intervento si inserisce in una cornice di grande fermento. L’abuso che è stato fatto, e che prosegue, rispetto all’impiego di strumenti diversi come le practicas no laborales o i tirocini extracurricolari per quanto invece riguarda il contesto italiano (si veda a proposito Matteo Colombo et. al., Abolire i tirocini extra-curriculari? Le ragioni di una giusta battaglia in Bollettino ADAPT 22 settembre 2025, n. 32) ha certamente contribuito a rinvigorire un dibattito che fatica però a trovare un punto di equilibrio. L’iniziativa della Commissione europea che, il 20 marzo 2024, ha presentato una proposta di direttiva dedicata alle condizioni di lavoro dei tirocinanti, a cui hanno fatto seguito le proposte di modifica da parte del Parlamento e del Consiglio dell’Unione Europea ne è in questo senso un chiaro esempio. La via che vede un eccessivo irrigidimento dello strumento del tirocinio rischia infatti, innanzitutto, di snaturare una convenzione che in quanto tale di fatto non prevede l’esistenza di un vero e proprio contratto di lavoro. Inoltre. Vi è il rischio concreto di sovrapporre il tirocinio, ad altre tipologie di rapporto formativo, questa volta sì contrattuali come, nel caso italiano, l’apprendistato professionalizzante creando un complesso, inutile se non dannoso dualismo. Apprendistato professionalizzante in Italia che, per inciso, di per sé non si distingue per efficacia formativa ma che rappresenta la pressoché totalità dei contratti di apprendistato attivati (oltre il 97%).

Bilanciare le esigenze formative e quelle occupazionali, garantendo un ingresso ragionevolmente rapido e stabile nel mondo del lavoro si dimostra, non da oggi, una sfida certamente complessa da affrontare, non solo per il legislatore ma anche per la moltitudine di soggetti (scuole, centri per l’impiego, imprese, pubbliche amministrazioni) che con questi strumenti devono confrontarsi quotidianamente. Si tratta, nondimeno, di un’esigenza sempre più urgente, e il caso spagnolo offre in questo senso insegnamenti che vanno ben oltre la specificità del contesto iberico.

Innanzitutto, i tempi dell’implementazione: quasi quattro anni tra la riforma del 2021 e il decreto attuativo del 2025 dimostrano che le riforme, per quanto ambiziose sulla carta, rischiano di rimanere inefficaci senza tempi certi di attuazione. In secondo luogo, la necessità di un intervento complessivo: i dati spagnoli mostrano come i contratti formativi rappresentino ancora una percentuale assolutamente residuale delle assunzioni giovanili perché le prácticas no laborales offrono alle imprese un’alternativa più conveniente. In presenza di alternative di questo tipo, le tutele e gli incentivi previsti per gli strumenti “virtuosi” rischiano inevitabilmente di rimanere lettera morta. Infine, l’importanza di parametri operativi verificabili: il decreto del 27 novembre non si limita a enunciazioni generiche ma specifica percentuali precise di tempo lavorativo, soglie retributive minime, programmi formativi come diritti esigibili. Dettagli operativi chiari e assolutamente necessari per favorire la corretta applicazione ed il rispetto delle norme.

Una responsabilità, quella di costruire percorsi di transizione scuola-lavoro davvero equi ed efficaci, che non può ricadere solo sul legislatore, ma che chiama in causa l’intera comunità: imprese che devono vedere nei giovani un investimento strategico e non una risorsa a basso costo; istituzioni formative che devono garantire la serietà dei programmi; parti sociali che devono vigilare sull’applicazione concreta delle norme; amministrazioni pubbliche che devono assicurare controlli rigorosi. Senza questo concorso di responsabilità, anche le migliori leggi rischiano di produrre solo carta stampata, mentre le giovani generazioni continuano a pagare il prezzo di un sistema che promette formazione ma spesso offre solo precarietà mascherata.

Michele Corti

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

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