Appalti privati e rischio di impresa: lusinghe e debolezze del modello c.d. open book

Interventi ADAPT

| di Giada Benincasa, Michele Tiraboschi

Bollettino ADAPT 12 maggio 2025, n. 18

Nel settore della logistica si sta sviluppando un nuovo modello operativo chiamato dagli addetti ai lavori open book. Un modello che ha origine nei sistemi di common law (Stati Uniti in primis, e poi Regno Unito, Australia, Canada) e che si pone un obiettivo di trasparenza: consentire cioè ai committenti di accedere a tutti i costi (diretti e indiretti) e alle spese sostenute dall’appaltatore, nonché ai suoi processi aziendali (compresa la scelta e la gestione dei suoi fornitori). Tale sistema, ferme restando alcune variabili diversamente applicabili in base al contesto, prevede il rimborso, da parte del committente, di tutti i costi sostenuti dall’appaltatore per l’esecuzione dei servizi oggetto dell’appalto (compresi mezzi, manodopera, etc).

Si tratta di un modello in realtà solo apparentemente innovativo in quanto simile al modello c.d. a cost plus, sorto per la gestione di progetti complessi e imprevedibili durante la Prima Guerra mondiale in cui, date le incertezze economiche del momento, molte imprese avvertivano la necessità di garantire la copertura dei costi e un margine di profitto per la realizzazione dell’opera o del servizio appaltato. In questo caso, infatti, il committente è chiamato a rimborsare tutti i costi sostenuti dall’appaltatore riconoscendo allo stesso, in aggiunta, un margine di profitto (definito mark-up). La principale differenza rispetto all’open book è che nel modello a cost plus il committente potrebbe non avere accesso completo al dettaglio di tutte le spese sostenute dall’appaltatore, fermo restando la presenza di forme di rendicontazione ex post per procedere al pagamento del corrispettivo dell’appalto.

Questo “nuovo” modello tende a svilupparsi nell’ambito di appalti d’opera, di grandi dimensioni e complessità, in cui è incerto (o non definito) il tipo di progetto da svolgere, con la conseguenza che le parti necessitano spesso di maggiore flessibilità nel corso di esecuzione del contratto a causa della assenza di chiarezza sull’opera finale. In tal caso il general contractor (cioè l’appaltatore) si trova a dover coinvolgere il committente nell’intero ciclo produttivo, condividendo con esso tutte le informazioni riguardanti la contabilità e i processi legati all’opera da realizzare.

Tra i vantaggi che spesso vengono enucleati tra i fautori dell’open book, oltre alla flessibilità già richiamata, vi è quello, per il committente, di controllare il costo dell’appalto (o subappalto) con contestuale riduzione dei tempi in fase di offerta grazie alla presentazione di un progetto esecutivo definibile “in corso d’opera”, anche se ciò significherà un maggior coinvolgimento del committente stesso durante l’esecuzione del contratto e l’impossibilità di determinare a priori il costo che dovrà sostenere per la realizzazione finale dell’opera. Dal lato dell’appaltatore, invece, si possono osservare almeno due conseguenze che potrebbero avere delle ricadute negative sulla genuinità dei contratti di appalto: una minore indipendenza nelle scelte progettuali e un minor rischio di responsabilità (il c.d. rischio di impresa) sull’attività oggetto dell’appalto.

Il modello richiamato, definito anche “a libri aperti”, si pone dunque in contrapposizione con la tradizionale modalità di calcolo prevista nel nostro ordinamento per gli appalti “a corpo” o “a misura” – definibile pertanto “a libri chiusi”, con la conseguenza che il committente, in quest’ultimo caso, non rimborserà direttamente i costi sostenuti dall’appaltatore, il quale piuttosto dovrà assumersi il rischio (anche economico) delle tariffe pattuite ex ante.

Ed invero, già l’art. 1655 c.c. disciplina la necessità di individuare un corrispettivo a fronte della realizzazione di un servizio (o un’opera), definendo l’appalto come quel “contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. Disposizione che deve essere letta in combinato disposto con l’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, il quale disciplina, tra i principali requisiti essenziali per distinguere il contratto di appalto genuino da quello di somministrazione di manodopera, l’assunzione, da parte dell’appaltatore, del rischio d’impresa.

Ora, è evidente che con l’adozione del modello open book, diretto a coprire ex post tutti i costi effettivamente sostenuti dall’appaltatore, il rischio di impresa sembra minimizzato, se non negato.

Secondo consolidati orientamenti giurisprudenziali, infatti, “il rischio o pericolo che l’appaltatore assume nel compimento dell’opera o del servizio, non è quello inteso in senso tecnico-giuridico, relativo, cioè, ai casi fortuiti, ma quello cosiddetto economico, che deriva dall’impossibilità di stabilire previamente ed esattamente i costi relativi, per cui l’appaltatore, che non ha il potere di interrompere i lavori per l’aumentata onerosità degli stessi, potrà anche perdere nell’affare se i costi si riveleranno superiori al corrispettivo pattuito, salve le modificazioni consentite in presenza di determinate circostanze e realizzabili col rimedio della revisione dei prezzi” (cfr. Cass. 3 luglio 1979, n. 3754, e, più recentemente, Cass. 27 gennaio 2021, n. 1754). Orientamento confermato anche dalla recente giurisprudenza di merito secondo la quale «il rischio d’impresa è assimilabile al rischio complessivo dei rapporti esistenti nei confronti di tutti i terzi portatori di autonomi interessi, ossia in altri termini, all’effettiva capacità dell’appaltatore di organizzare i fattori produttivi assumendosene i relativi costi, caratteristiche queste tipiche ed imprescindibili dell’appalto» (App. Napoli 17 marzo 2025, n. 969, in cui, tra gli indici di genuinità per provare la sussistenza del rischio di impresa, viene indicato il corrispettivo forfettario e fisso, concludendo che “Da tanto si evince chiaramente che sono state poste ad esclusivo carico dell’appaltatrice le conseguenze derivanti dalla inefficienza del servizio e, quindi, delle prestazioni di lavoro ad esso connesse (…)”).

La pattuizione di un corrispettivo diretto a coprire, ex post, tutti i costi sostenuti dall’appaltatore (costo del lavoro, mezzi, etc.) potrebbe dunque essere visto dagli attori della vigilanza e dalla magistratura come elemento di non genuinità dell’appalto, richiamando altresì il sistema di pagamento previsto in caso di somministrazione di lavoro (in cui l’utilizzatore rimborsa all’Agenzia per il lavoro il costo del lavoro in aggiunta ad una fee per il servizio fornito).

Invero, non sembra favorire la sussistenza del rischio di impresa (o della genuinità del contratto di appalto tout court) nemmeno l’argomentazione per cui sarebbe comunque l’appaltatore a scegliere quanti lavoratori impiegare nell’appalto, dal momento in cui, con la modalità open book, sarà sempre il committente a coprire il relativo costo, a prescindere dal numero di risorse impiegate. Secondo la Suprema Corte, infatti, con specifico riferimento agli appalti c.d. endoaziendali, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di attività strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro opera tutte le volte in cui l’appaltatore si limiti a mettere a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore-datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, né una assunzione di rischio economico, con effettivo assoggettamento dei propri dipendenti al potere direttivo e di controllo (Cass. 20 maggio 2009, n. 11720).

Alla luce di quanto sancito dalla giurisprudenza – e fermo restando che non si tratta dell’unico indice di genuinità da valutare per verificare la legittimità di un contratto di appalto – il rischio di impresa in un appalto genuino deve essere valutato in primo luogo quale rischio di natura economica (cfr. anche App. Salerno, 6 aprile 2016), traducibile in via prevalente nella possibilità che il costo della prestazione risulti superiore alle previsioni fatte dall’appaltatore stesso, fino, addirittura, ad eccedere l’importo del corrispettivo atteso. Per tale ragione, dirimenti ai fini della sussistenza dello stesso sono le modalità di determinazione dei corrispettivi che, si ritiene, debbano essere calcolati “a corpo” o “a misura” e, pertanto, individuando rispettivamente o un corrispettivo forfettario, omnicomprensivo di qualsivoglia onere necessario per la realizzazione dell’appalto nel suo complesso o, in alternativa, fissando un prezzo per ogni unità dell’opera finita o per ogni tipologia di prestazione occorrente per la realizzazione del servizio.

In questa prospettiva, sebbene la giurisprudenza sia approdata a considerare il corrispettivo su base oraria quale elemento, da solo, non in grado di compromettere la genuinità di una esternalizzazione (Cass. 2 novembre 2021, n. 31127), nel caso di esternalizzazioni labour intensive, quali quelle nel settore della logistica, l’ancoraggio del corrispettivo al tempo di lavoro e ai costi sostenuti dall’appaltatore per il proprio personale configurerebbe un forte sintomo di assenza di genuinità dell’esternalizzazione (cfr. Cons. St. 12 marzo 2018, n. 1571; Cass. 7 febbraio 2017, n. 3178).

In definitiva, e per quanto possa apparire una comoda scorciatoia (soprattutto con il beneplacito di qualche commissione di certificazione compiacente), il modello dell’open book si pone palesemente in contrasto con la disciplina dell’appalto genuino comportando il rischio, per le aziende, di vedersi esposte a contestazioni per attività di intermediazione di manodopera o somministrazione irregolare, anche a rilevanza penale, nonché, come sta avvenendo negli ultimi anni nel settore della logistica, per l’utilizzo illecito di fatture per operazioni giuridicamente inesistenti sulla base di tale presupposto (c.d. pseudo-appalto).

Giada Benincasa
Vice-Presidente della Commissione di certificazione DEAL dell’Università di Modena e Reggio Emilia
@BenincasaGiada

Michele Tiraboschi
Professore Ordinario di diritto del lavoro
Università di Modena e Reggio Emilia
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