Alcune riflessioni sul Rapporto Istat 2022: dalle norme alla realtà dei dati

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Bollettino ADAPT 20 luglio 2022, n. 28
 
L’8 luglio 2022 è stato presentato dall’Istat il “Rapporto Annuale 2022. La situazione del Paese”.
 
La lettura del Rapporto Istat, che analizza la situazione economica e sociale italiana nel 2021 e nei primi mesi del 2022, offre l’opportunità di addivenire ad alcune riflessioni in merito al dibatto sui salari in corso di svolgimento da diverse settimane nel nostro Paese.
 
Nell’analizzare il mercato del lavoro e i livelli retributivi come principale parametro di riferimento viene utilizzata la “Retribuzione lorda teorica” che, per comprensibili motivi statistici e metodologici, esclude premi, importi dovuti per ferie e festività non godute, tutte le voci retributive collegate alla effettiva prestazione lavorativa (ad esempio, il lavoro straordinario, le indennità di turno e qualsiasi altra indennità legata alla prestazione).
 
Seppur rilevante dal punto di vista economico, il dato delle “Retribuzione lorda teorica” è un riferimento utile al dibattito sui salari?
 
In aggiunta andrebbe considerato inoltre che nei CCNL gli emolumenti legati alla effettiva prestazione resa dal lavoratore sono molteplici e hanno, soprattutto in determinati settori, una grande incidenza sulla busta paga dei dipendenti.
 
Considerando tutti i settori, l’Istat ci indica che la retribuzione contrattuale media lorda annua, nel 2021, è pari a 26.580 euro. Viene però sottolineato che i comparti dell’industria e della pubblica amministrazione presentano una certa omogeneità nei livelli retributivi, mentre nel settore dei servizi le retribuzioni mostrano un’elevata variabilità.
 
Viene altresì evidenziato che lo scorso anno l’indice armonizzato dei prezzi al consumo in Italia (IPCA) è aumentato dell’1,9 per cento. Alla luce di ciò si è registrata una diminuzione in termini reali delle retribuzioni contrattuali e di fatto, rispettivamente dell’1,2 e dell’1,5 per cento.
 
Il 7 giugno 2022 l’Istat ha diffuso la previsione, per il periodo 2022-2025, dell’IPCA al netto dei prodotti energetici importati: la stima per il 2022 è pari a 4,7 per cento.
 
Questo dato è rilevante in quanto in Italia, a partire dal 2009, i contratti collettivi nazionali sono rinnovati facendo riferimento a tale indice fornito dall’Istat. Aver stabilito una durata dei contratti triennale e l’aver individuato questo specifico parametro di riferimento aveva l’obiettivo di contenere la possibilità che stimoli inflazionistici di origine esterna si trasferissero sulla dinamica salariale.
 
Il Rapporto Istat ci indica che tra il 2009 e il 2021 le retribuzioni contrattuali hanno fatto registrare complessivamente una crescita in linea con l’IPCA generale e di poco superiore a quella dell’IPCA al netto dei beni energetici importati.
 
Viene però osservato che ci sono situazioni molto differenti a livello settoriale.
 
Per l’industria si registra la dinamica più favorevole (+4,1 per cento in termini reali), grazie al regolare funzionamento della contrattazione nazionale, che ha assicurato una buona tempestività dei rinnovi, e all’applicazione puntuale del meccanismo di adeguamento.
 
Nel settore dei servizi privati, al contrario, i rinnovi sono risultati meno tempestivi e ciò ha prodotto tra il 2009 e il 2021 una leggera diminuzione delle retribuzioni in termini reali.
 
Letti questi dati emergono due ulteriori spunti di riflessione.
 
Il primo è che occorre considerare l’impatto negativo sulle retribuzioni dei lunghi periodi di vacanza contrattuale. Secondo i dati forniti dal CNEL a maggio 2022, tra marzo 2021 e marzo 2022, il tempo medio di attesa di rinnovo per i lavoratori con contratto scaduto ha subito un incremento da 22,6 a 30,8 mesi.
 
Il secondo è che i diversi sistemi di relazioni industriali presentano differenti gradi di complessità ed evidenti peculiarità, quindi potrebbe essere necessario non ragionare in maniera standardizzata considerando i salari medi di tutti i settori ma fare riflessioni ad hoc afferenti i diversi mercati del lavoro.
 
Nel rapporto si legge che “per la quasi totalità dei dipendenti, infatti, il rapporto di lavoro è regolato da un contratto collettivo nazionale (CCNL) e la componente retributiva da esso definitarappresenta, in media, oltre i trequarti della retribuzione totale” (pag. 233).
 
Tale assunto potrebbe essere maggiormente aderente alla situazione del personale poco qualificato, ma occorrerebbe considerare la disparità di trattamento economico effettivo tra i lavoratori poco qualificati e quelli con elevato grado di professionalità (sulle cui retribuzione c’è una forte incidenza dei superminimi individuali o assegni ad personam).
 
Per fare delle riflessioni più efficaci probabilmente servirebbe consultare dati che svolgano una differenziazione tra i diversi livelli di inquadramento piuttosto che dati medi riferiti a tutti i lavoratori.
 
Ciò considerato, un dubbio resta: i contratti aziendali e gli accordi individuali incidono così poco sulla retribuzione?
 
Nonostante l’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015 stabilisca che “il contratto  di  lavoro  subordinato  a  tempo  indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, l’Istat conferma che nel mercato del lavoro italiano si è ridotta l’occupazione standard, a tempo pieno e durata indeterminata, con la progressiva diffusione di modalità ibride di lavoro.
 
Il combinarsi di bassa retribuzione oraria e di contratti di lavoro di breve durata e con frequenza parziale fa emergere che lavoratori part time e a termine abbiano sostanzialmente retribuzioni orarie inferiori rispetto ai lavoratori a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato (pag. 224). La retribuzione oraria inferiore ottenuta dipende da contratti di lavoro di breve durata e intensità (in rapporto a un lavoratore a tempo pieno) sfociando in livelli retributivi annuali decisamente ridotti.
 
Circa 4 milioni di dipendenti, il 29,5 per cento del totale, sono a bassa retribuzione annua (circa 1 milione e 180 mila unità), di cui 412 mila sono lavoratori standard (tempo indeterminato e full-time), mentre quasi 2/3 sono lavoratori con tipologie di lavoro flessibili.
 
L’Istat rileva anche che 1,3 milioni di dipendenti sono a bassa retribuzione oraria, di cui soltanto 282 mila sono lavoratori standard.
 
Da questo quadro emerge che quasi un terzo dei dipendenti è a bassa retribuzione (oraria o annuale), con una maggioranza di chi, lavorando in maniera intermittente o per un numero di ore inferiore, non riesce a superare la soglia retributiva annuale pur avendo livelli di retribuzione oraria superiori alla soglia di riferimento.
 
Da ciò si potrebbe ipotizzare che anche aumentando la paga oraria nella realtà dei fatti la retribuzione teorica annuale dei lavoratori a tempo determinato o parziale sarà comunque considerevolmente inferiore rispetto ai lavoratori standard, essendo essa legata alle tre componenti che la costituiscono (non solo retribuzione oraria, ma anche durata e intensità del rapporto)?
 
Lo scenario fotografato dall’Istat si è creato nonostante l’ordinamento preveda delle norme volte a scongiurare situazioni di questo tipo.
 
L’art. 7 del d.lgs. n. 81/2015, in merito al trattamento del lavoratore a tempo parziale, stabilisce che: “il lavoratore a tempo parziale non deve ricevere un trattamento meno  favorevole  rispetto  al  lavoratore  a  tempo  pieno  di  pari inquadramento.  Il lavoratore a tempo parziale  ha  i  medesimi  diritti  di  un lavoratore a tempo pieno comparabile ed il suo trattamento  economico e normativo è riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa”.
 
Quanto ai dipendenti con contratti a termine, l’art. 25 del medesimo d.lgs. n. 81/2015 stabilisce il principio di non discriminazione, secondo il quale: “Al  lavoratore  a  tempo  determinato  spetta  il   trattamento economico e normativo in  atto  nell’impresa  per  i  lavoratori  con contratto a tempo indeterminato comparabili,  intendendosi  per  tali quelli inquadrati nello  stesso  livello  in  forza  dei  criteri  di classificazione stabiliti  dalla  contrattazione  collettiva,  ed  in proporzione al  periodo  lavorativo  prestato,  sempre  che  non  sia obiettivamente incompatibile con la  natura  del  contratto  a  tempo determinato”.
 
Dunque, l’Istat riscontra un disallineamento tra le norme e la realtà.
 
Per trovare soluzioni concrete, che rispecchino la realtà economica del Paese, la strada giusta potrebbe essere rappresentata dal confronto con le parti sociali e con le esigenze da loro rappresentate?
 
Francesco Lombardo
Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@franc_lombardo

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