L’apprendistato come leva per favorire l’innovazione? Spunti a partire dagli studi di Joel Mokyr

Interventi ADAPT

| di Matteo Colombo

Bollettino ADAPT 20 ottobre 2025, n. 36

Se si guarda alla diffusione dell’apprendistato in Italia, oggi, sembra impossibile immaginare di utilizzarlo come leva per favorire la propagazione dell’innovazione. La quasi totalità degli apprendistati è di tipo professionalizzante, con un limitato monte ore formativo. È un contratto spesso scelto più per le convenienze economiche che garantisce, più che per la sua dimensione formativa. Limitatissimo è invece il ricorso all’apprendistato duale. È un contratto, in questo caso, di difficile gestione per gli enti formativi e per le imprese coinvolte.

Eppure il professor Joel Mokyr, recentemente insignito del Premio Nobel per l’Economia, offre una prospettiva diversa. Nei suoi studi, come abbiamo cercato di mettere in luce con un bollettino speciale qualche anno fa e in un recente webinar, dedica spazio proprio all’apprendistato e alla sua storia. Dimostrando come questo istituto può concorrere, in maniera decisiva, alla diffusione dell’innovazione, alla crescita economica, all’inclusione sociale.

Nel contesto preindustriale, l’apprendistato era funzionale alla trasmissione delle conoscenze e dei saperi tra generazioni e tra territori. Conoscenze tacite, formato grazie al lavoro gomito a gomito tra apprendista e maestro, sul luogo di lavoro, grazie a processi di imitazione. L’apprendista rubava con gli occhi i segreti del mestiere del maestro. Era questa dimensione relazionale a caratterizzare l’apprendistato: la quale però poteva anche generare tutta una serie di possibili fallimenti.

Ad esempio, qualora l’apprendista alla fine del percorso formativo lasciasse il maestro, senza che quest’ultimo potesse godere di un lavoratore finalmente qualificato e delle sue competenze, dopo anni di formazione. È un problema ancora attuale, che riguarda quelle imprese che sono restie a formare lavoratori per timore che questi poi possano dimettersi e magari scegliere la concorrenza. Oppure, al contrario, l’apprendista poteva non ricevere la formazione pure pattuita, quando il maestro voleva solamente ricorrere a forme di lavoro sottopagato o addirittura non retribuita, senza alcuna intenzione formativa. Anche questo è un problema osservabile ancora oggi, negli apprendistati come in altri istituti di natura formativa, come ad esempio i tirocini.

Queste difficoltà venivano superate grazie ad una regolazione “collettiva” dell’apprendistato, da parte delle corporazioni di arti e mestieri. Queste associazioni disciplinavano e favorivano il ricorso all’apprendistato come strumento utile a garantire la competitività del mestiere. Quest’ultima era legata alla qualità del bene prodotto, la quale poteva a sua volta esser tutelata solo a partire da un robusto investimento sulle competenze di coloro che erano interessati a svolgere il mestiere, come i giovani apprendisti. Allo stesso tempo, l’apprendistato era un processo di crescita personale, oltre che professionale, al lavoro e dentro al lavoro. Aveva finalità sociali, dato che grazie all’apprendistato regolato dalle corporazioni si poteva ottenere la cittadinanza urbana e la possibilità di aprire bottega.

È grazie a questa regolazione collettiva che, nel contesto preindustriale, si comprende il legame tra apprendistato e innovazione. In un noto paper, Mokyr e altri mostrano come all’origine della Great Divergence tra Europa, da una parte, e Cina e India dall’altra, nel XVIII secolo vi è (anche) le diverse modalità istituzionalizzate per trasmettere e costruire le competenze. Se nei contesti orientali prevaleva invece la logica della famiglia e del clan, la presenza in Europa di associazioni “di mestiere” come le corporazioni favorì invece la circolazione di saperi anche al di fuori dei vincoli famigliari. Decisivo fu poi, in Europa, la presenza dei journeymen: giovani che avevano completato l’apprendistato e che prima di accedere alla maestranza viaggiavano e lavoravano presso altri maestri. Questi due elementi, resi possibili dalla presenza delle corporazioni e dal loro presidio dell’apprendistato come strumento per la condivisione e costruzione di competenze, favorirono la mobilità dei saperi e così, sostengono Mokyr e altri, anche dell’innovazione.

La lezione del passato non suggerisce ovviamente di replicare, oggi, schemi dal passato: ma evidenzia come in tutto la sua (lunga) storia, l’apprendistato quando è stato regolato da attori collettivi per il raggiungimento di finalità sia economiche che sociali è stato utile anche per favorire la diffusione dell’innovazione; quando invece il ruolo degli attori collettivi viene meno, e l’apprendistato si riduce ad essere un contratto tra gli altri, più o meno conveniente, allora anche le sue potenzialità innovative sbiadiscono.

Tornando al contesto italiano, non si tratta quindi di auspicare nuove leggi dedicate all’apprendistato, per ripensare il valore: ma un rinnovato protagonismo di quegli attori collettivi che, più di altri, sono già oggi chiamati alla regolazione di questo istituto. Le relazioni industriali italiane dispongono di uno strumento le cui potenzialità non sono ancora state colte appieno: eppure una disciplina dell’apprendistato attenta a valorizzarne la componente formativa, grazie a profili formativi aggiornati, un monte ore adeguato, una formazione continua per i tutor, la valorizzazione del ruolo – anche territoriale – della bilateralità potrebbe essere utile a formare quelle competenze che, oggi come in passato, sono decisive per governare, e non subire, le innovazioni che si stanno diffondendo nei mercati. Tesi sostenute e argomentate, a partire dagli elementi finora condiviso, anche nel volume dal titolo Contributo allo studio del moderno apprendistato. Una lezione dal passato su mestieri, innovazione, corpi intermedi, edito da ADAPT University Press.Questa logica di sistema, grazie alla quale è possibile ripensare il legame tra apprendistato e diffusione dell’innovazione oggi, non può che essere riscoperta prima di tutto dagli attori collettivi: le parti sociali, il sindacato e le associazioni di categoria. Questa è la lezione che il passato, anche grazie agli studi di Joel Mokyr, ci consegna.

Matteo Colombo

Presidente Fondazione ADAPT

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