La fine dei PCTO e la nuova formazione scuola-lavoro, in attesa di una visione di sistema che ancora manca

Interventi ADAPT

| di Matteo Colombo

Bollettino ADAPT 8 settembre 2025, n. 30

Tra le novità per il mondo della scuola emerse dal Consiglio dei Ministri dello scorso 4 settembre – tra cui il passaggio del modello 4+2 dalla fase sperimentale a quella ordinamentale – spicca la ridenominazione dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO) in Formazione scuola-lavoro. Secondo il Ministro Valditara tale scelta «intende sottolineare la stretta connessione che deve esistere tra formazione scolastica e mondo del lavoro». Nel comunicato stampa del Ministero dell’Istruzione e del Merito si legge anche che tale modifica vuole «stabilire in modo chiaro la loro funzione formativa e orientativa».

Oltre alla ridenominazione non sembra siano previste ulteriori novità, anche se nella sintesi offerta dal Ministero la misura è inserita in una sezione dal titolo «sicurezza e nuove regole per la Formazione scuola-lavoro». La modifica del nome di questi percorsi è, comunque, già di per sé significativa, ed è opportuno soffermarsi su di essa.

Ma prima, un passo indietro. Dall’originaria “alternanza scuola-lavoro” (risalente alla legge Moratti del 2003 e resa obbligatoria nel 2015 con la c.d. Buona Scuola) si passò nel 2019 ai “Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento” (PCTO). Le ragioni di tale cambiamento non sono mai state compiutamente esplicitate, se non rimandando a quanto anche oggi, paradossalmente, si afferma: chiarire la finalità di questi percorsi, e cioè formare e orientare. Fu però evidente la volontà di relegare in secondo piano la dimensione lavorativa, eliminando dal nome di questi percorsi la stessa parola “lavoro”, dimenticata anche nelle linee guida che vennero approvate nello stesso anno: tanto che vi fu chi parlò di un passaggio «dall’alternanza all’alternativa tra scuola e lavoro».

Appare inevitabile ritenere che tali modifiche siano state determinate non tanto da un’evoluzione della riflessione pedagogica sul ruolo della scuola nella società della conoscenza, quanto piuttosto dalla volontà di attenuare le polemiche e le proteste esplose a partire dal 2015, con l’introduzione dell’obbligatorietà dell’alternanza. Alla loro base, pur senza voler negare gli effettivi e diffusi casi di uso distorto di questo istituto, vi fu anche il riemergere di un mai veramente sopito pregiudizio tipicamente italiano, così riassumibile: l’esperienza lavorativa, come tale, non può essere utile per la formazione integrale della persona, la quale si deve piuttosto realizzare in luoghi (le scuole) e tempi (almeno fino alla conclusione degli studi) distinti da quelli del lavoro.

L’attuale Governo è già intervenuto in tema di PCTO, con alcuni provvedimenti. Con il c.d. Decreto Lavoro (Decreto-Legge n. 48/2023), introducendo la figura del docente coordinatore; prevedendo che la progettazione dei PCTO debba essere coerente con il piano triennale dell’offerta formativa e con il profilo culturale, educativo e professionale in uscita; chiedendo alle imprese iscritte al registro dell’alternanza di aggiornare con una sezione ad hoc dedicata agli studenti in alternanza il documento di valutazione dei rischi; introducendone il monitoraggio qualitativo; mettendo a disposizione risorse per le vittime di infortuni incorsi duranti questi percorsi. Più recentemente, è intervenuto con il c.d. Collegato Lavoro (Legge 203/2024) introducendo l’Albo delle buone pratiche, l’Osservatorio nazionale per i percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento. Lo scorso luglio, con il Decreto Ministeriale 133/2025, il processo di monitoraggio, l’Albo e l’Osservatorio sono stati resi operativi. L’attenzione da parte dell’esecutivo su una promozione della qualità e della sicurezza delle esperienze di alternanza appare quindi innegabile.

E ora anche il cambio di denominazione, con il ritorno della parola “lavoro”, senza però la parola “alternanza”. In coerenza con gli interventi degli scorsi anni, il Governo intende rilanciare la centralità dell’esperienza lavorativa nel suo legarsi a quella formativa, andando oltre i pregiudizi che avevano, almeno in parte, portato alla nascita dei PCTO.

Così presentata, più che di una novità sembra trattarsi di un ritorno al passato, o almeno all’impostazione che anche lo stesso Governo Renzi volle promuovere con la Buona Scuola ormai dieci anni fa. Si tratta però di una modifica importante, perché scegliere di esplicitare il legame tra sistemi formativi e mondo del lavoro, a partire dal nome di questi percorsi, non è un cambiamento banale.

E non è neanche un cambiamento sufficiente. Tornare a parlare, senza negarlo, del possibile ruolo del lavoro quale luogo di apprendimento e formazione (anche) per gli studenti dovrebbe portare con sé una serie riflessione sulla finalità di questi percorsi. Evitando, in prima battuta, la loro riduzione ad anticamera dell’esperienza lavorativa, in ciò implicando un’idea di scuola e di formazione come utile solo all’ottenimento di un lavoro. Rilanciando il valore dell’integrazione (più che dell’alternanza) formativa, superando l’idea di una separazione netta tra la teoria (acquisita a scuola) e la pratica (al lavoro). Valorizzando il valore educativo, per una formazione integrale della persona, di questo dialogo circolare tra sistemi formativi e mondo del lavoro.

Ma soprattutto adottando uno sguardo sistemico che ancora oggi manca: collocando cioè correttamente i percorsi di formazione scuola-lavoro all’interno di un orizzonte più ampio di trame collaborative e di integrazione tra sistemi formativi e mercato del lavoro. Concretamente, tale sguardo porta con sé la consapevolezza del proprium di ogni strumento in grado di far dialogare scuola e lavoro, così come le reciproche differenze: questi percorsi non sono tirocini professionalizzanti, i quali mirano sì alla formazione ad un mestiere a scopi orientativi, e nemmeno contratti di apprendistato, dove vi è una componente lavoristica ben più marcata alla luce della sottoscrizione di un contratto di lavoro vero e proprio.

Per passare ad un’ottica sistemica non basta, in questo senso, un cambio di denominazione – pur da salutare con favore. Riscoprire il valore dell’esperienza lavorativa è il presupposto culturale a partire dal quale però progettare, in base alla finalità perseguita (orientamento, professionalizzante, assunzione e formazione) i diversi percorsi resi possibili dall’utilizzo dagli strumenti già richiamati. È l’assenza di questo sguardo e, di conseguenza, di una governance dei percorsi duali attenta ad esaltarne particolarità e differenza che tanto male ha fatto ad ognuno di loro. Quest’approccio non nega il valore delle misure finora introdotte dal Governo, ma punta il dito verso ciò che ancora manca. La consapevolezza dei diversi strumenti a disposizione per favorire il dialogo tra formazione e lavoro, le loro caratteristiche e differenze, deve essere posseduta sia dalle istituzioni che dai soggetti poi concretamente chiamati a progettare questi percorsi.Non è sufficiente, in questo senso, intervenire solo sul lato della scuola, ma è necessario favorire la costruzione di una grammatica comune, in grado di favorire questo dialogo, anche da parte del mondo del lavoro. In questo senso, al di là di alcune virtuose eccezioni, è ancora troppo marginale il ruolo delle parti sociali e soprattutto del sindacato nell’accompagnare la progettazione e corretta implementazione di questi percorsi. Una visione di sistema come quella qui richiamata dovrebbe cogliere l’occasione offerta dal cambio di denominazione di questi percorsi per offrire alle relazioni industriali uno spunto concreto a partire dal quale capire come valorizzare ed eventualmente ripensare il ruolo degli strumenti duali nel favorire l’integrazione tra formazione e lavoro, compresi i percorsi di “alternanza”. Investendo, ad esempio, sulla figura dei tutor aziendali che ben potrebbero porsi come riferimento dei docenti coordinatori, favorendo una corretta progettazione dei percorsi di formazione scuola-lavoro. In conclusione, la positiva novità del ritorno del “lavoro” dovrebbe anche e soprattutto essere un’occasione per un ragionamento di sistema, grazie al quale far seguire alla riscoperta del valore formativo del lavoro un’adeguata valorizzazione dei diversi, possibili, strumenti utili a favorire il dialogo e l’integrazione tra questi due mondi, a partire dall’investimento nelle professionalità impegnate nella progettazione di questi percorsi.

Matteo Colombo

Presidente Fondazione ADAPT

ADAPT Senior Fellow

@colombo_mat