I riflessi delle norme introdotte dal Jobs Act in materia di contratti di lavoro flessibile sulla salute e sicurezza dei lavoratori

Quali sono le ricadute dell’ultima revisione della disciplina dei contratti di lavoro flessibile apportata dal D.Lgs. n. 81/2015 sul tema della salute e sicurezza dei lavoratori?

 

Questo uno dei temi centrali del Workshop tenutosi martedì 11 ottobre 2016, organizzato nell’ambito delle attività del progetto “A Modena la Sicurezza sul lavoro, in pratica” presso la Camera di Commercio di Modena, con la partecipazione di professionisti, sindacalisti, esponenti della CNA ed esperti di diritto del lavoro. Nel corso della giornata sono state esposte diverse considerazioni in merito alle principali novità in tema di contratti di lavoro flessibile, sulle quali si intende qui concentrarsi.

 

L’analisi del nuovo stato di sicurezza sul lavoro non può prescindere dal fatto che le Medie, Piccole, e Micro Imprese sono una realtà strategica portante dell’economia e dell’occupazione nazionale”. L’incontro si è aperto con le parole di Paolo Secchi, esponente di EURSAFE (European Inter disciplinary Applied Research Center for Safety), che ha constatato come l’Italia sia il primo paese in Europa per numero di “MPMI” – Medie, Piccole, e Micro Imprese – (3,8 milioni), le quali, peraltro, sono addirittura proliferate, negli ultimi trent’anni. La ragione di tale imponente crescita non è slegata dalla propensione delle Grandi Imprese ad una maggiore flessibilità produttiva, quale condizione necessaria per adeguarsi ad un mercato in continuo mutamento. La forte crisi economica del 2008 ha infatti incentivato il fenomeno di “destrutturazione” dei processi produttivi, che sono stati riorganizzati coinvolgendo le MPMI mediante tecniche economiche di esternalizzazione (outsourcing) e di internalizzazione (insourcing). La condizione di forte contingenza economica delle aziende e la necessità di ridurre i costi fissi sono quindi stati determinanti nell’indurre gli imprenditori ad applicare nuovi modelli di organizzazione del lavoro il cui approdo, spesso, si materializza nell’esternalizzazione di fette più o meno cospicue del ciclo produttivo. La forte specializzazione e la recente crisi congiunturale hanno contribuito così a determinare mutamenti nelle strutture e nelle dimensioni delle MPMI, che, ad oggi, ricoprono un ruolo strategico nella subfornitura in quanto dotate di una buona capacità di adattamento alle diverse realtà aziendali, con una costante attenzione all’innovazione dei processi. Del protagonismo sempre più forte che le MPMI stavano assumendo sul mercato italiano si era peraltro accorta anche l’Unione Europea quando, già nel 2003, parlava di “polverizzazione della grande industria” a fronte di una crescita esponenziale, non solo di piccole imprese, ma anche di artigiani, lavoratori autonomi e imprenditori individuali.

 

Quali sono però gli strumenti giuridici che consentono la flessibilizzazione del lavoro? Eufranio Massi (direttore di “Dottrina per il lavoro”) ha risposto passando in rassegna le novità apportate dal D.Lgs. n. 81/2015, attuativo del Jobs Act, alle principali tipologie contrattuali flessibili, ed esaminando le ricadute della recente riforma sugli aspetti legati alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro (attualmente regolata dal D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche e integrazioni). L’art. 13 del D.Lgs. n. 81/2015 descrive il contratto di lavoro intermittente come la forma contrattuale con cui il prestatore di lavoro si pone a disposizione di un datore che potrà usare la sua attività in modo discontinuo o intermittente secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi o, in via sussidiaria, con decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. In ogni caso la stipula di tale contratto è ammessa in presenza di requisiti soggettivi/anagrafici espressamente indicati dal legislatore (persone con età inferiore ai 24 anni – con utilizzazione della prestazione non oltre i 25 anni di età – e persone con età superiore ai 55 anni). Rilevante ai fini del confronto con il D.Lgs. n. 81/2008 è il successivo articolo del D.Lgs. n. 81/2015, che riproduce l’elenco dei divieti al ricorso al lavoro intermittente già previsti dall’abrogato art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003. In particolare, il legislatore pone quale condicio sine qua non per ricorrere a questa tipologia contrattuale l’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi da parte del datore di lavoro. È bene ricordare che, nonostante paia emergere, da una prima lettura della norma, la possibilità del datore di lavoro di scegliere se eseguire o meno una valutazione dei rischi, così accedendo o rinunciando alla stipula di un contratto di lavoro intermittente, in realtà esiste un vero e proprio obbligo in tal senso a carico del datore di lavoro ex art. 28 D.Lgs. n. 81/2008, a prescindere dalla volontà di adottare particolari forme contrattuali per i lavoratori impiegati nella propria attività. Eufranio Massi ha lamentato poi una scarsa attenzione posta dal legislatore riformatore rispetto ai temi prevenzionistici, sottolineando che ancorare il lavoro intermittente alla mera effettuazione della valutazione dei rischi non sempre, nei fatti, risulta essere sufficiente a tutelare il prestatore di lavoro. Data la brevità del periodo nel quale viene svolta la prestazione di lavoro intermittente, infatti, accade sovente che il datore non fornisca a tali lavoratori gli adeguati strumenti, non solo di carattere info- formativo, ma anche di tutela individuale, che devono avere caratteristiche di adeguatezza, ergonomicità, comfort secondo quanto normativamente previsto in base alle mansioni che ogni lavoratore è chiamato a svolgere. Per questo, secondo Eufranio Massi, il legislatore avrebbe dovuto legare il ricorso al lavoro intermittente alla piena rispondenza dei contenuti della valutazione dei rischi ai criteri previsti dal D.Lgs. n. 81/2008 (artt. 28 e 29). In tal modo, considerato anche il fattore trasversale dell’età (che costituisce una variabile fondamentale di incidenza nel valutare i rischi a cui il lavoratore è esposto), si favorirebbe l’elaborazione di una valutazione dei rischi molto più specifica e accurata, in grado di garantire l’attuazione di una adeguata formazione ai lavoratori over 55, così limitando l’aumento significativo delle problematiche che da tale età si determinano negli ambienti di lavoro.

 

L’avvenuta effettuazione della valutazione dei rischi è presupposto essenziale anche per il contratto di lavoro a tempo determinato, in merito al quale le novità introdotte con il D.Lgs. n. 81/2015, sebbene non dirompenti rispetto alla disciplina precedente, vanno nel senso di rendere più fruibile l’istituto. È stata, infatti, eliminata la necessità di legare l’assunzione a termine ad una ragione oggettiva o soggettiva qualsiasi, sostituendo tale requisito sostanziale con requisiti esclusivamente temporali (la durata del contratto non può superare i 36 mesi, ma con possibilità, all’interno del singolo contratto, di cinque proroghe) e quantitativi (il numero complessivo dei contratti a termine stipulati da ciascun datore di lavoro non può superare il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione). Considerato che nella maggior parte dei casi la durata di tali contratti è ben inferiore ai 36 mesi, vale la stessa osservazione fatta per il lavoro intermittente: la brevità del rapporto di lavoro aumenta l’esposizione alle condizioni di rischio per la salute e per la sicurezza sul lavoro, motivo per cui il legislatore avrebbe dovuto introdurre in modo inequivocabile l’obbligo di formazione specifica riferita ai c.d. “rischi aggiuntivi” connessi alla temporaneità del rapporto. Stando al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza il dovere di verificare la veridicità dei contenuti del documento di valutazione dei rischi, questi, a fronte di una valutazione non in linea con i criteri previsti, potrà segnalare al datore di lavoro le proprie note critiche ed, eventualmente, rifiutarsi di procedere alla firma del documento in fase di procedura di attestazione della data certa, mandando in questo modo un segnale chiaro di non accoglimento di quanto predisposto.

 

Importanti novità hanno poi interessato il contratto di somministrazione: dal combinato disposto degli artt. 55, comma 1, lett. e) e 35, comma 4, del D.Lgs. n. 81/2015 risulta abrogata la regola per cui tutti gli obblighi di prevenzione e protezione rispetto ai lavoratori somministrati gravano sull’utilizzatore (art. 3, comma 5, D.Lgs. n. 81/2008). Cambia il riferimento normativo della disciplina in esame: non più il D.Lgs. n. 81/2008 ma il richiamo pieno e completo alle disposizioni del D.Lgs. n. 81/2015. Nella nuova articolazione vive il principio di piena equiparazione tra i lavoratori somministrati e i dipendenti dell’utilizzatore, già confermato dal D.Lgs. n. 81/2008. Uno dei principi di maggiore pregnanza è quello che stabilisce che il somministratore deve informare i lavoratori sui rischi per la sicurezza e la salute connessi alle attività produttive per poi formarli e addestrarli all’uso delle attrezzature di lavoro necessarie allo svolgimento dell’attività lavorativa per la quale essi vengono assunti, in conformità con le disposizioni dello stesso D.Lgs. n. 81/2008. Imposizione che viene stemperata dalla possibilità di trasferire tali obblighi in capo all’utilizzatore, il quale dovrà farsene carico non potendo attribuire ad alcuna mansione i lavoratori somministrati senza avervi provveduto. In tale prospettiva, un datore di lavoro (utilizzatore) che non si limiti alla mera redazione formale della valutazione dei rischi, ma che voglia rendere tale documento il più possibile attinente ai criteri previsti dalla legge, necessari a garantirne la completezza e l’idoneità di questo strumento ai fini della pianificazione degli interventi aziendali e dell’individuazione delle più efficienti misure di prevenzione, dovrà necessariamente collaborare con il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, al quale spetta l’analisi concreta dei rischi presenti nei luoghi di lavoro, consideranti anche i fattori trasversali (età, genere, stress lavoro-correlato, provenienza da altri paesi) che incidono sul prestatore di lavoro.

 

In merito al contratto di apprendistato, quale forma di lavoro a tempo indeterminato volta alla formazione e all’occupazione dei giovani caratterizzato da tre distinte tipologie contrattuali (cc.dd. apprendistato scolastico, apprendistato professionalizzante e apprendistato di alta formazione e ricerca), il D.Lgs. n. 81/2008, considerata la presenza di tali prestatori nei luoghi di lavoro, aveva già disposto che gli apprendisti fossero ricompresi nella categoria dei lavoratori ai sensi della definizione prevista dall’art. 1, comma 2, lett. a) dello stesso decreto. Trattandosi di un contratto a contenuto e finalità formative, è obbligatoria la redazione di un piano formativo individuale nel quale descrivere i progetti di integrazione aziendale che consentono all’apprendista di imparare nuovi aspetti tecnici e pratici del suo lavoro inloco. Rientra in questi progetti obbligatori anche quello di formazione sulla sicurezza sul lavoro che si svilupperà in più corsi distribuiti nell’arco degli anni. Ovviamente, a seconda della tipologia di attività svolta, la formazione sulla sicurezza avrà una durata prestabilita ed una propria specificità. Essendo poi concessi da parte dello Stato sgravi contributivi per l’assunzione di apprendisti, Eufranio Massi ha previsto, per il futuro, quella che lui stesso ha definito una “rinascita dell’apprendistato”, mossa non tanto dalla volontà delle imprese di puntare sulla formazione, quanto dall’occasione che questo rappresenta in termini di abbattimento dei costi del lavoro.

 

Infine, l’esperto non ha tralasciato di analizzare il lavoro accessorio (attuato attraverso i c.d. buoni lavoro o voucher), che era stato introdotto nel 2003 dalla “Legge Biagi” per agevolare l’emersione di prestazioni di lavoro rese normalmente nell’economia sommersa. Gli artt. 70-73 del D.Lgs. n. 276/2003 sono stati ora abrogati e sostituiti integralmente dagli artt. 48-50 del D.Lgs. n. 81/2015 Ma nemmeno in questa occasione il legislatore non ne ha , infatti, definito la natura (subordinata o autonoma) del rapporto, limitandosi a regolarne il profilo retributivo e quelli assicurativo e previdenziale, oltre che introducendo anche specifici obblighi di comunicazione preventiva in un’ottica di contrasto al c.d. lavoro nero. Per quanto concerne gli aspetti relativi alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, il riferimento normativo è l’art. 3, comma 8, del D.Lgs. n. 81/2008, il quale estende le disposizioni in materia di tutela e prevenzione ai casi in cui il prestatore di lavoro accessorio svolga l’attività in favore di un committente imprenditore o professionista nel luogo di lavoro nella disponibilità giuridica di quest’ultimo, escludendo i lavoratori che eseguono piccoli lavori domestici a carattere straordinario, compreso l’insegnamento privato e l’assistenza domiciliare ai bambini, agli anziani e ai disabili. Anche in questo caso, essendo i “voucheristi” presenti sul luogo di lavoro nella disponibilità giuridica del committente imprenditore o professionista, essi vengono equiparati ai lavoratori “standard”, potendo così godere della relativa tutela in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Così, i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza dovranno monitorare il rispetto dei diritti anche in loro favore, partendo dalla valutazione dei rischi riferita alle mansioni da questi svolte, per poi passare all’attuazione degli interventi di prevenzione previsti nei loro confronti, fino all’elaborazione di piani di miglioramento delle condizioni di lavoro. Se prima della riforma il D.Lgs. n. 81/2008 si applicava a tutte le ipotesi di lavoro accessorio, esclusi i lavoratori domestici a carattere straordinario, oggi i soggetti che operano in un contesto che non sia il luogo di lavoro nella disponibilità giuridica del professionista o dell’imprenditore vengono equiparati ai lavoratori autonomi ai sensi dell’art. 21, D.Lgs. n. 81/2008. Eufranio Massi ha chiuso il proprio intervento con la seguente considerazione: a differenza del passato, l’art. 48, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008 estende l’applicazione del lavoro accessorio a tutti i settori produttivi, escluso l’ambito della esecuzione degli appalti di opere o servizi, salvo specifiche ipotesi da individuarsi con Decreto del Ministero del Lavoro. Alla luce dell’ampia platea di professionisti e imprenditori che potranno usufruire di prestazioni individuate ad hoc per soddisfare esigenze temporanee di lavoro, si assisterà allora, con tutta probabilità, ad un progressivo disinteresse alla formazione del prestatore di lavoro, data l’assenza di una prospettiva di inserimento a lungo termine nel contesto lavorativo.

 

E’ stato conseguentemente naturale domandarsi se esiste allora una correlazione tra flessibilità del lavoro e numero degli infortuni sul lavoro: nel suo intervento, Stefania Battistelli del CRIS – Università di Modena e Reggio Emilia, ha constatato che la diffusione dei contratti di lavoro flessibili tende a generare nuove situazioni di rischio riconducibili principalmente alle modalità di instaurazione ed esecuzione del rapporto di lavoro. L’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul lavoro evidenzia che i soggetti parte di un contratto di lavoro flessibile, e quindi destinati a svolgere una prestazione soltanto per un determinato periodo di tempo, sono spesso soggetti a frequenti variazioni di ambiente e condizioni di lavoro, con conseguente mutamento di mansioni e maggiori difficoltà ad adottare comportamenti standardizzati e virtuosi volti a minimizzare i pericoli correlati al lavoro. Questa è la condizione in cui operano, ad esempio, i lavoratori somministrati nella qualità di operai comuni adibiti a mansioni manuali ad alto rischio di infortunio nel settore edile, dei trasporti, manifatturiero e del commercio. Data la temporaneità del contratto, questi lavoratori rivestono spesso un ruolo marginale rispetto a quelli a tempo indeterminato e sono soggetti ad un minore coinvolgimento nelle attività sindacali. Essendo poco propensi a denunciare fattori di rischio/infortuni, soffrono anche di una maggiore preoccupazione per la propria incolumità psico-fisica durante l’attività lavorativa. I disagi non mancano anche per i lavoratori intermittenti e i “voucheristi”, che spesso non vengono adeguatamente informati sulla complessiva organizzazione del lavoro e sui rischi presenti in azienda. Inoltre, quando si verifica l’assenza di un contatto costante con il personale dell’azienda, ciò è causa di un forte senso di isolamento. In tali casi, negli Stati Uniti si parla di lavoratori “3D” (Difficult, Dangerous, Dirty), per esprimere il relativo disagio. In un’ottica strettamente individuale, la flessibilità rivela le sue conseguenze perlopiù negative sui lavoratori, che si trovano a sperimentare una modificazione importante – e allo stesso tempo involontaria – nella percezione del luogo di lavoro (azienda, cantiere, ufficio ecc.) e del posto che ricoprono in esso. I cambiamenti organizzativi introducono quindi nei lavoratori un senso di insicurezza definito Job Insecurity, espressione che si riferisce a una generale preoccupazione circa l’esistenza futura del proprio lavoro, alla percezione di una potenziale minaccia alla continuità della propria attività professionale e alle aspettative personali di continuità in un setting lavorativo.

 

Quanto sopra descritto ha confermato l’opinione di Eufranio Massi secondo cui le misure adottate dal legislatore del Jobs Act sono state insufficienti rispetto alla realtà effettiva della Job Insecurity. In primis perché la considerazione dei problemi e della formazione dei prestatori che operano al di fuori del luogo di lavoro nella disponibilità giuridica del datore è del tutto marginale rispetto alla tutela che il D.Lgs. n. 81/2008 appresta per i lavoratori che si trovano a operare all’interno della azienda. Secondariamente, perché non è stato migliorato in modo significativo il livello di tutela precedentemente ritoccato dal D.Lgs. n. 106/2009, sul quale si sarebbe potuto agire imponendo maggiore corrispondenza tra i contenuti del documento di valutazione dei rischi e le disposizioni di legge, oltre che introducendo procedure più snelle e più efficaci con meno oneri formali per i datori di lavoro. E’ stato evidenziato che per creare luoghi di lavoro sicuri e salubri occorrerebbe infatti un maggiore sforzo riformatore, sorretto da un’adeguata consapevolezza dei problemi applicativi propri di una materia così complessa, senza dimenticare che, per poter funzionare, un sistema di gestione della salute e della sicurezza sul lavoro richiede un impegno ai più alti livelli capace di coinvolgere i lavoratori, il cui ruolo è determinante per contribuire a una valutazione dei rischi ben informata e specifica. Questi sarebbero allora i presupposti per l’affermazione di una strategia nazionale di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro che funga da indirizzo e coordinamento delle iniziative promozionali in tema di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali, con riferimento a tutte le tipologie di contratti di lavoro, senza distinzioni di sorta. Tale strategia sarebbe peraltro ampiamente auspicata dai rappresentanti sindacali, come evidenziato nel corso dell’iniziativa da Cinzia Frascheri, responsabile nazionale salute e sicurezza sul lavoro C.I.S.L.

 

 

Elisa Carlini

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@ElisaCarlini89

 

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