Lavoro povero, quale il ruolo delle forme e tipologie contrattuali*

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 22 aprile 2024 n. 16
 
Dall’analisi Istat su mercato del lavoro e redditi (2024) emerge in modo chiaro come tra le componenti che determinano il posizionamento nei quintili di reddito più bassi vi siano la tipologia contrattuale applicata e il regime temporale del contratto di lavoro. Si nota infatti che, rispetto ai lavoratori con contratti a tempo indeterminato e full-time, gli occupati a termine e a tempo parziale percepiscono in media un reddito equivalente più basso e sono altresì caratterizzati da una maggiore instabilità lavorativa. Queste condizioni non dovrebbero apparire scontate, ma lo sono in un Paese dove le condizioni dei lavoratori temporanei e part-time sono caratterizzate da particolari disuguaglianze rispetto ai lavoratori “standard”.
 
Figura 1

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Immagine1-1.png

Fonte: elaborazione ADAPT su dati Istat
 
Secondo i dati del rapporto annuale Istat riferito al 2022, i lavoratori con contratto a tempo determinato percepiscono una retribuzione oraria inferiore del 26,6% rispetto ai colleghi impiegati a tempo indeterminato. Se poi si considerano le retribuzioni su base annuale, questo svantaggio retributivo si amplifica ulteriormente, arrivando a sfiorare il 30%. Anche la più recente analisi Istat su mercato del lavoro e redditi (2024) mostra chiaramente che la maggior parte dei dipendenti assunti a tempo determinato si colloca nelle fasce reddituali medio-basse. Nello specifico, il 9,9% dei lavoratori temporanei si posiziona nel secondo quintile di reddito equivalente mentre il 9,8% nel terzo quintile, a fronte dell’8,1% in media.
 
La situazione diventa ancor più critica se si tiene conto anche della tipologia di orario di lavoro. Il divario a livello retributivo tra un lavoratore temporaneo part-time e un lavoratore a tempo indeterminato full-time raggiunge infatti il 35,2% in termini di retribuzione oraria e quasi il 65% su base annuale. In termini più concreti, i dipendenti part-time con contratto a termine guadagnano in media 9,6 euro all’ora, 5,2 euro in meno rispetto ai lavoratori full-time assunti a tempo indeterminato. L’analisi Istat (2024) mostra inoltre come la discontinuità lavorativa sia un tratto comune sia dei lavoratori temporanei che degli occupati part-time. Solo il 40% dei dipendenti a termine ha infatti percepito un reddito da lavoro in modo continuativo tra il 2015 e il 2021. Analogamente, circa la metà dei lavoratori impiegati con contratto part-time ha dovuto far fronte a periodi di instabilità lavorativa durante lo stesso periodo.
 
Figura 2

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Immagine2.png

Fonte: elaborazione ADAPT su dati Istat
 
Ad aggravare ulteriormente il quadro di instabilità lavorativa a cui sono soggetti i lavoratori temporanei vi è inoltre la breve durata dei rapporti di lavoro a tempo determinato, o almeno di quella porzione che non si trasforma in assunzioni più stabili. Secondo i dati Istat (2022), la durata mediana dei contratti a termine è infatti di appena 4 mesi per i lavoratori full-time e di poco più di 3 mesi per quelli part-time. La situazione per la maggior parte di questi lavoratori non si limita dunque a povertà economica e discontinuità lavorativa, ma si estende a un vero e proprio stato di frammentazione e instabilità occupazionale pressoché cronica.
 
Questo scenario evidenzia come l’utilizzo dei contratti a tempo determinato e part-time si sia ampiamente discostato dalle finalità originarie di questi strumenti. Il ricorso al tempo determinato, nato per agevolare l’ingresso nel mercato del lavoro, e al part-time, concepito per garantire flessibilità e conciliazione ai lavoratori, sembra essere infatti diventato un processo distorto e perverso, tutt’altro che virtuoso. Come testimoniato dai dati, questa deriva ha finito inevitabilmente per precarizzare e peggiorare la condizione economica ed occupazionale dei lavoratori coinvolti, anziché tutelarne gli interessi secondo gli intenti iniziali.
 
Figura 3

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Immagine3-1024x683.png

Fonte: elaborazione ADAPT su dati Istat
 
Dalle analisi Istat (2022) emerge inoltre come l’utilizzo di contratti atipici, quali il tempo determinato e il part-time, sia particolarmente diffuso tra alcuni gruppi specifici di lavoratori. Sono infatti i giovani, le donne, gli stranieri, i residenti nel Mezzogiorno e gli individui con un basso livello di istruzione a risultare maggiormente soggetti all’applicazione di queste tipologie contrattuali. Un dato che si intreccia saldamente con un’altra criticità messa in luce dalle stesse analisi, quella della vulnerabilità economica di questi gruppi. I dati (2022 e 2024) rivelano infatti come siano proprio queste medesime categorie di lavoratori, sottoposti con più frequenza a contratti a termine e a tempo parziale, a percepire anche le retribuzioni mediamente più basse. Si tratta dunque di un circolo vizioso in cui precarietà occupazionale e povertà lavorativa colpiscono con forza alcuni segmenti specifici della popolazione, esacerbando disuguaglianze già esistenti nel mercato del lavoro.
 
Figura 4

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Immagine4.png

Fonte: elaborazione ADAPT su dati Istat
 
Un ultimo dato rilevante riguarda l’andamento delle tipologie contrattuali atipiche negli ultimi vent’anni. I dati Istat mostrano che tra il 2004 e il 2023 il numero di lavoratori dipendenti impiegati a tempo determinato è aumentato da 1,9 a 2,9 milioni. Si tratta di una variazione di circa il 55,7%, un valore nettamente superiore rispetto all’8,1% associato all’incremento del numero di lavoratori a tempo indeterminato durante lo stesso lasso di tempo. In modo del tutto analogo, nel periodo 2004-2023 il numero di lavoratori part-time è aumentato del 75,3%, passando da 1,9 milioni a 3,5 milioni. Va inoltre segnalato che, secondo le rilevazioni Istat più recenti (2022), nella maggior parte dei casi il part-time non è una scelta volontaria, bensì obbligata dall’assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno.
 
Nel complesso, emerge un quadro nel quale il peso delle condizioni contrattuali, e delle tutele ad esse connesse, è particolarmente impattante sulla formazione del reddito di coloro che si posizionano nei quintili più bassi, nonché sulla stabilità che caratterizza la loro vita lavorativa. Tutto questo suggerisce dove concentrare le policy, sia dal punto di vista normativo e della contrattazione collettiva sia da quello della singola impresa, con l’obiettivo di garantire una maggiore equità di trattamento tra i lavoratori, indipendentemente dal tipo di contratto applicato e dalle loro mansioni. Solo in questo modo sarà possibile prevenire l’acuirsi di disuguaglianze economiche e sociali e ridurre il rischio – ormai sempre più diffuso – di situazioni di povertà lavorativa.
 
Francesco Seghezzi
Presidente Fondazione ADAPT e Associazione ADAPT

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è X-square-white-2-2.png@francescoseghezz
 
Jacopo Sala
Apprendista di ricerca ADAPT
 
*pubblicato anche su Domani col titolo Il part-time è una condanna al lavoro povero, 16 aprile 2024

Lavoro povero, quale il ruolo delle forme e tipologie contrattuali*
Tagged on: