Quella domanda che manda in tilt il reddito di cittadinanza

I dati sull’occupazione comunicati ieri dall’Istat certificano la perdurante stagnazione del mercato del lavoro. I filogovernativi esultano per il lieve miglioramento dei tassi di occupazione e disoccupazione; gli antigovernativi si allarmano per l’incremento degli inattivi. Nei mesi precedenti accadeva esattamente il contrario. La polemica politica sui dati mensili del mercato del lavoro oramai è noiosa anche per i giornalisti. Eppure, dietro alle chiacchiere da bar sugli zerovirgola, qualche spunto per considerazioni meno estemporanee è possibile ricavarlo e coltivarlo, quantomeno nella forma di seria domanda sul futuro del nostro mercato del lavoro e, di conseguenza, del nostro sistema di welfare.

 

È tornato di grande attualità, da qualche settimana a questa parte, il tema del reddito di cittadinanza. Argomento che sarebbe ingenuo bollare come superficiale o propagandistico. Il ragionamento di fondo di chi auspica la pronta approvazione di una misura assistenzialistica di questo genere è tutto sommato lineare e tutt’altro che campato per aria. Nel futuro, per il combinato disposto di crisi economica, effetti della globalizzazione sullo spostamento manodopera e, soprattutto, capacità della tecnologia di sostituire l’uomo in molte professioni non solo del settore primario e secondario, ma anche del terziario, la quantità di lavoro disponibile sarà molto minore. Questo genererà una condizione inedita nella storia moderna dell’umanità: una società non più fondata sul lavoro.

 

Di conseguenza, sono destinate a scricchiolare buona parte delle nostre istituzioni e, soprattutto, il nostro sistema di welfare che è tradizionalmente “occupazionale”, ovvero costruito sui contributi versati da chi lavora. Meno lavoro, meno contributi, insostenibilità del welfare conosciuto finora. Ragionamento lineare, appunto. Futuristico, ma non fantasioso. E quindi? Ecco la proposta del reddito di cittadinanza: lo Stato, tassando maggiormente chi ingloba profitti senza generare lavoro (vedasi l’imposta sui robot proposta da Bill Gates, non esattamente un massimalista sinistrorso), ridistribuisce risorse verso chi è rimasto senza reddito per potergli garantire un’esistenza quantomeno dignitosa e consumi (altrimenti le imprese tassate non possono sostenere il sistema) e per potersi a sua volta garantire pace sociale, scongiurando rivolte causate dalla fame. Se le tasse richieste alle imprese sono inferiori alla cifra che queste spenderebbero per assumere lavoratori meno produttivi delle macchine, ecco che il sistema può reggere (sulla carta, quantomeno).

 

Sono decine le diverse forme che questa proposta può assumere, a seconda degli orientamenti politici e dei credo economici dei proponenti: il reddito di inclusione ha una colorazione più sociale; il lavoro (socialmente utile) di cittadinanza recentemente citato da Renzi una sfumatura keynesiana; l’imposta negativa una radice libertaria friedmaniana; il voucher sociale pagato dallo Stato un riferimento allo statalismo francese, ecc.

 

C’è qualcosa però che accomuna tutte queste proposte: il superamento dell’idea del lavoro come fondante l’identità della persona, ben oltre la sua dimensione salariale. Tutte queste ricette postulano la centralità del denaro (dimensione economica) rispetto alla relazione lavorativa (dimensione sociale): se, in qualche modo, lo Stato distribuisce redditi, può evitare di spendersi per creare e fare creare lavoro. Ma il lavoro è solo un mezzo per arrivare al risultato-stipendio? Se la risposta a questa domanda è negativa, allora le energie progettuali di tutti gli interessati a questo problema epocale vanno convogliate per rispondere a un secondo quesito: come creare lavoro nella cosiddetta jobless society?

 

Appare destinato a sicuro fallimento il tentativo della politica di risolvere il dilemma con stratagemmi legislativi e incentivi economici. Non è possibile creare lavoro senza un impegno ideale e personale di chi è nella condizione di farlo (imprenditori in primis), anche laddove volesse dire meno utile a bilancio (non perdita, meno utile). Non c’è legge che può saltare questo passaggio. E allorquando si verificasse che non c’è più nessuno disposto a spendere tempo, passione e risorse (anche economiche) per creare occupazione, allora saremmo davvero di fronte a una società dove sono gli stessi umani a essere diventati robot.

 

Emmanuele Massagli

Presidente Adapt

@EMassagli

 

Pubblicato anche su il sussidiario.net, 3 marzo 2017

 

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