Licenziamento per superamento del comporto: trattamento differenziato per il dipendente invalido?

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Bollettino ADAPT 10 gennaio 2022, n. 1
 
Un tema che negli ultimi anni è stato spesso trattato nella giurisprudenza di merito, con esiti diametralmente opposti, è quello della computabilità (o meno) nel periodo di comporto delle assenze per malattia riconducibili all’invalidità del dipendente.
 
La questione viene sollevata in giudizio dal lavoratore invalido che impugna il proprio licenziamento per superamento di comporto, sostenendo che l’applicazione del medesimo periodo di comporto tanto ai lavoratori normodotati quanto a quelli disabili costituisce discriminazione indiretta, atteso che i lavoratori disabili sono maggiormente esposti al rischio di contrarre patologie causalmente collegate con la loro disabilità.
 
Tale tesi interpretativa richiama in particolare i principi espressi dalla nota Direttiva n. 2000/78, così come dal D.Lgs. n. 216/2003 attuativo della predetta direttiva, nonché dalla sentenza della Corte Giustizia UE del 18 gennaio 2018 (Ruiz Conejero – C-270/16), e ancor prima Corte Giustizia UE, 11 aprile 2013, n. 335, la quale peraltro stabilisce che l’eventuale discriminazione indiretta possa comunque venir meno laddove la disposizione in esame “da un lato, persegua un obiettivo legittimo e, dall’altro, non vada al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare” (per un’analisi più dettagliata di detta giurisprudenza comunitaria, rinvio a F. Avanzi, Handicap, malattia e discriminazione. Tutela comunitaria e ruolo dell’ordinamento nella gestione della fattispecie, in Bollettino ADAPT n. 45/2019; sul punto v. anche F. Marasco, Superamento del comporto e discriminazione indiretta: il punto della giurisprudenza, in Bollettino ADAPT n. 40/2019).
 
In tale contesto (e contrasto) giurisprudenziale, la recente Corte di Appello di Torino, il 26 ottobre, con la sentenza n. 604, ha espresso un principio di fondamentale importanza: “se [] si volesse ipotizzare l’esistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, affermazione non condivisa dal collegio, allora necessariamente occorrerebbe, al fine di rendere esigibile detto obbligo, imporre al dipendente l’onere di comunicare quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante stante l’oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia”.
 
Tale soluzione rende possibile la composizione dei contrapposti interessi delle parti – quello del lavoratore a conservare il posto di lavoro e quello del datore di lavoro ad esercitare correttamente il proprio diritto di recesso – prevedendo l’onere di una condotta certamente non gravosa per il dipendente1 e che si può inquadrare nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza nell’adempimento della prestazione.
 
Del resto, è ormai pacifico che in tema di esecuzione del contratto, la buona fede si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà — imposto, tra l’altro, dall’art. 2 Cost. — tale da imporre a ciascuna parte comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali, siano idonei (senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico) a preservare gli interessi dell’altra parte (cfr., tra le tante, Cass. Civ., 14 giugno 2021, n. 14726).
 
Inoltre, a mio avviso, l’onere di comunicare al datore di lavoro le mattie riconducibili alla propria invalidità si potrebbe qualificare come un principio di “civiltà giuridica”, anche in considerazione del fatto che diversamente si potrebbero verificare conseguenze assurde e che potrebbero configurare veri e propri abusi del diritto. Ad esempio, un lavoratore che non abbia comunicato neppure la propria invalidità al datore di lavoro e abbia già superato il periodo di comporto – e quindi in molti casi percepisca ormai solo l’indennità di malattia ridotta oppure azzerata – potrebbe chiedere la nullità del licenziamento e ottenere così, oltre alla reintegrazione in servizio ai sensi dell’art. 18, 1° comma, St. Lav., anche il pagamento di tutte le retribuzioni pregresse a titolo di risarcimento del danno.
 
Giova richiamare, al riguardo, un altro principio enunciato dalla Suprema Corte (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav. 18 maggio 2020, n. 9084), la quale – confermando sul punto la sentenza della Corte di Appello di Roma – ha ribadito che non vi può essere responsabilità del datore di lavoro (nella fattispecie: in punto di risarcimento del danno) se l’invalidità del lavoratore non è menzionata nel contratto di assunzione, ovvero riconoscibile ictu oculi (o, addirittura, già “curata” in tempi non sospetti).
 
In considerazione di tutto quanto precede, è senz’altro auspicabile che il principio espresso dalla Corte di Appello di Torino sopra citata possa consolidarsi in giurisprudenza come “diritto vivente”.
 
Da ultimo, ritengo utile riportare le ragioni per cui la Corte di appello aveva comunque accertato che, nel caso di specie, la potenziale discriminazione del disabile a causa dell’aumentato rischio di assenze per malattia era esclusa in radice dalle norme di legge2 e dalla specifica disciplina della contrattazione collettiva nazionale, la quale prolungava il periodo di comporto del disabile (ad esempio, in ragione della tipologia e/o gravità della malattia).
 
Tale principio, che è stato già espresso anche da altre sentenze di merito (cfr. Trib. Milano, ord. n. 1883/2017; Trib. Parma, ord. 17 agosto 2018), è senz’altro condivisibile e sottolinea l’importanza della contrattazione collettiva (anche) per tale aspetto: le Parti sociali, infatti, potrebbero svolgere il prezioso compito di individuare, già nella norma sul periodo di comporto, alcune eccezioni e fattispecie di prolungamento dello stesso in modo da differenziare la disciplina per le situazioni di malattie riconducibili alla invalidità del dipendente ed eliminare così ogni eventuale fattispecie di discriminazione. Fermo restando che, nella relativa trattativa sindacale, sarà necessario tenere altresì in considerazione l’interesse del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile per l’impresa e che l’art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (cfr. Cass. SS.UU. n. 7755/1998) e che la stessa Direttiva 2000/78/CE, al Suo considerando 17, “non prescrive … il mantenimento dell’occupazione … di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione“.
 

Federico Ubertis

ADAPT Professional Fellow
 
1 Come correttamente osservato dalla medesima Corte, si tratta di un “adempimento reso, peraltro, estremamente agevole dal D.M. 18 aprile 2012, che ha introdotto la possibilità di indicare nei certificati, barrando la corrispondente casella, se l’assenza dal lavoro sia uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta”.

2 Rientrano in tale apparato di meccanismi di maggior tutela del disabile il congedo per cure accordato dall’art. 7 D.Lgs. n. 119 del 2011, espressamente escluso dal periodo di comporto, ed i permessi ex art. 33 L. n. 104 del 1992, norme entrambe finalizzate ad alleggerire il peso della prestazione lavorativa per il lavoratore disabile.

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