Il CCNL Assodelivery-UGL Rider: le ragioni della contesa politico-sindacale e le (distinte) problematiche giuridiche che questo accordo solleva

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Bollettino ADAPT 28 settembre 2020, n. 35 

 

Il polverone sollevato nell’arena sindacale dall’accordo Assodelivery-UGL Rider (sui cui contenuti vedi la sintesi ragionata proposta per ADAPT da Paolo Dammacco) e dalle conseguenti piccate reazioni di CGIL, CISL, UIL tocca una serie di problematiche giuridiche di particolare complessità che suggerirebbero, agli studiosi e agli analisti degli accadimenti che attraversano e plasmano il nostro sistema di relazioni industriali, estrema cautela. O, almeno, tempi di riflessione e reazione che non corrispondono a quelli del dibattito pubblico e della comunicazione politica in senso lato. Si tratta, infatti, di un accordo che riporta alla luce, condensandole nelle sue poche pagine e in quelle della nota Ministeriale di bocciatura che ad esso ha fatto seguito, questioni giussindacali al centro della riflessione dottrinale e della elaborazione giurisprudenziale da svariati decenni e che si spiegano con l’assenza, nel nostro ordinamento giuridico, di una legge statuale di “normalizzazione” del fenomeno sindacale in punto di rappresentanza e di efficacia giuridica della contrattazione collettiva.

 

Cautela e prudenza si dovrebbero poi accompagnare, in questo specifico caso, a una certa dose di realismo (o, meglio, a un sano “quieto vivere”) che, almeno nel nostro Paese, suggerisce da sempre agli intellettuali più accorti di non avventurarsi in battaglie già perse in partenza o, comunque, di farle solo avendo le spalle ben coperte. Di questa vicenda, di cui tanto parliamo senza mai pensare a cosa poi facciamo concretamente tutti noi nel nostro ruolo di consumatori (si veda, al riguardo, l’utile contributo di F. Riccardi, A Milano si indaga. Noi che facciamo?, in Avvenire del 20 settembre 2019), sappiamo già chi sono i buoni e chi sono i cattivi: lo leggiamo ogni giorno sui giornali e lo vediamo nei non pochi reportage televisivi, così puntuali nel soffermarsi sui pochi lavoratori della gig economy e però così reticenti nel narrare le vicende dei 2 milioni di lavoratori domestici e collaboratori familiari molti dei quali un contratto di lavoro neppure lo hanno. E chi del resto tra di noi, nelle calde estati di luglio e agosto appena passate, non ha solidarizzato, anche solo per un istante e certamente con il cuore aperto, con i rider seduti su una panchina, all’ombra poco protettiva di qualche albero, in attesa della chiamata del cliente o intenti a pedalare, con enormi zaini sulle spalle, verso la meta dettata dalla App?

 

Eppure, qui la contesa politica e sindacale non è tanto, in punta di diritto, tra i proprietari delle App o la loro associazione e i rider in carne e ossa ma, più a fondo, tra la triplice e l’UGL. Nulla di nuovo sotto il sole, a ben vedere. Perché è nella storia del sindacato, in tutto il mondo, partire da un elemento cardine nella costruzione dell’interesse collettivo e delle conquiste del lavoro, ossia quello di evitare la concorrenza tra i lavoratori (disponibili alcuni ad accettare condizioni al ribasso pur di sbarcare il lunario) attraverso l’imposizione di una regola comune che è al tempo stesso norma di tutela dei lavoratori ma anche standard di regolazione della competizione tra le diverse imprese del settore (ne hanno magistralmente parlato, tra gli altri, i coniugi Webb e Seling Perlman nella sua storia del movimento sindacale). Ed è così che in Italia, mentre dilaga lo smart working a colpi di accordi individuali, in cui il sindacato è spesso scavalcato secondo logiche di organizzazione del lavoro incentrate su una personalizzazione delle condizioni di esecuzione del lavoro che manda silenziosamente quanto rovinosamente in frantumi la pietra angolare della azione sindacale (quella della “regola comune”), il futuro del lavoro viene da noi discusso e aggredito in termini fortemente politicizzati, complice l’iniziativa dell’allora Ministro del lavoro Luigi di Maio, che ha inteso focalizzare l’attenzione sui 25.000/30.000 rider italiani che rappresenterebbero simbolicamente l’espressione più cattiva della digitalizzazione del lavoro e della nuova modernità. Una conferma di ciò si è subito avuta con la nota di replica dell’Ufficio legislativo del Ministero del lavoro che, in una stagione che registra un massiccio ricorso alla cassa integrazione e la drammatica uscita dal mercato del lavoro di quasi un milione di persone, trova il tempo e la forza di intestarsi per via formalistica e in fine punta di diritto una battaglia allo stato ancora tutta politica e che avrebbe meritato allora l’esposizione in prima persona del Ministro del lavoro, e perché no anche del Presidente del Consiglio dei Ministri, se davvero si crede che è da qui, dalla stretta porta dei rider, che passi il futuro del lavoro e del sindacato in Italia.

 

Chi scrive nutre, da tempi non sospetti, una profonda sintonia culturale e progettuale non con l’UGL ma con la CISL che, al pari di CGIL e UIL, contesta oggi duramente questo accordo al punto da dubitare della sua piena legittimità. Parlo di una sorta di affinità elettiva (almeno da parte mia) che si spiega proprio per le modalità con cui la CISL ha da sempre inteso difendere la propria autonomia – non solo rispetto alle ingerenze statali nelle libere dinamiche della negoziazione collettiva, ma anche con riferimento alle comode lusinghe dei “falsi amici della rappresentanza”, come li definiva l’indimenticabile Mario Grandi parlando di quegli intellettuali “a cui tanto dà fastidio la competizione tra sindacati” (M. Grandi, I falsi amici della rappresentanza, in Conquiste del lavoro dell’11 gennaio 2011) – rifiutando con forza e ostinazione l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione (commi da 2 a 4). Anche per questo, consapevole che una stagione di riformismo e modernizzazione del mercato del lavoro italiano come quella aperta dalla Legge Biagi non ci sarebbe mai stata in un regime para-pubblicistico di governo (rectius ingabbiamento) del fenomeno sindacale, sono ben consapevole di partire subito in salita, anche in termini affettivi e di vicinanza valoriale a una parte ben definita del mondo sindacale, nel cercare di analizzare l’accordo Assodelivery-UGL Rider per quello che effettivamente è, almeno a legislazione vigente. Anche questa insomma sarebbe una buona ragione per nascondere la testa sotto la sabbia e parlare di altro visto che, sulle tematiche del lavoro, non mancano certo continue sollecitazioni culturali e spunti pratici di riflessione dove è facile sentenziare in termini politicamente corretti senza però mai provare a fare i conti con la realtà e con le domande che pongono le persone in carne e ossa.

 

Se dunque mi spingo in questa direzione, senza le spalle coperte e anzi ben consapevole delle tante grane che questo piccolo contributo potrà comportarmi (ne ho già preso ampia consapevolezza non solo leggendo le feroci reazioni a qualche iniziale Tweet di primo commento ma anche respirando le reazioni sorprese e forse anche deluse di alcuni dei miei dottorandi), è solo perché chi crede nella importanza del sindacato – non tanto in chiave storica e cioè come gloriosa istituzione del passato, ma come protagonista ineliminabile per governare e indirizzare nella giusta direzione la nuova grande trasformazione del lavoro – non può non provare a fornire un contributo di merito al dibattito portando al tavolo politico e sindacale anche punti di vista diversi e non condizionati da pregiudizi o logiche di parte. E del resto mai ho creduto, pur con tutti gli errori che sicuramente ho commesso nella mia attività di ricerca e per una lunga stagione in quella progettuale a fianco del decisore politico, di poter argomentare su un punto tecnico inequivocabile solo in virtù delle mie preferenze politiche o affinità culturali con questo o con quel sindacato. Mi scuseranno quindi gli amici della CISL se svolgerò in questa sede riflessioni probabilmente non gradite. E sono anzi certo che lo faranno, consapevoli come sono che gli intellettuali abili nel dire agli interlocutori di turno solo quello che si vogliono sentir dire sono in realtà poco utili alla forza e alla crescita del movimento sindacale, e che una parola franca vale molto di più, rispetto alle tante voci schierate a prescindere da un lato o dall’altro del campo di contesa.

 

Dico questo perché leggere, sui social network e nelle prime analisi circolate in rete, commenti di brillanti ricercatori e accademici secondo cui UGL non può essere un sindacato, perché di destra, e che comunque non è un sindacato rappresentativo, mi pare un modo sbagliato di impostare la soluzione dei problemi sollevati dall’accordo in questione, ben sapendo che, per la magistratura italiana e lo stesso Ministero del lavoro, UGL è soggetto sindacale genuino (piacciano o non piacciano le sue posizioni e le sue parentele politiche) dotato di maggiore rappresentatività storica, presente ai principali tavoli istituzionali e firmatario di numerosi contratti collettivi nazionali di lavoro, anche insieme a CGIL, CISL e UIL. Chi crede nei sacri principi di libertà e pluralismo sindacale non può insomma liquidare la questione etichettando UGL (come si faceva con la CISL ai tempi della Legge Biagi) come un sindacato di comodo. E tanto meno, credo, la UGL stessa possa ora compiacersi quando, come accaduto ieri, in un comizio il leader politico della Lega (e sappiamo che molti lavoratori e operai votano la Lega) esalta questo accordo non certo per i suoi contenuti, che probabilmente neppure conosce, ma solo in chiave sfacciatamente politica come clava per demolire quel “sacro tempio sindacale” storicamente “riservato alla Cgil”.

 

Ma v’è di più. Libertà e pluralismo sindacale significano anche e soprattutto libertà e pluralismo negoziale e contrattuale. Per cui è davvero fuori luogo ricondurre questo accordo (ancora una volta a prescindere dai suoi contenuti) nel novero dei «contratti pirata», là dove per pirata non si può altro che intendere un fenomeno, ben presente nel nostro Paese come sappiamo e come più volte abbiamo denunciato con il gruppo di ricerca di ADAPT (tra i tanti contributi vedi P. Tomassetti, Arginare la piaga dei contratti pirata, in Bollettino ADAPT del 16 giugno 2014) di aggiramento o violazione della legge con accordi collettivi stipulati da soggetti inesistenti. Pensiamo, per intenderci, al noto contratto collettivo dei façonisti del tessile dove la fantomatica rappresentanza datoriale è in realtà uno studio di consulenza del lavoro di Salerno. Cosa che non può essere in questo caso visto che, in sé e in assenza di una legge sindacale, l’accordo Assodelivery e UGL Rider, ha una piena copertura a livello costituzionale (art. 39 Cost.) perché trattasi di un accordo collettivo firmato da soggetti sindacali genuini (Assodelivery rappresenta del resto il 90 per cento delle imprese del settore). Fuori luogo, dunque, parlare di contratto illegittimo. Ciò che deriva dalla Carta costituzionale non solo è legittimo, ma va rispettato proprio in ragione di quei sacri principi di democrazia e pluralismo che, come ci ha insegnato la gloriosa storia del sindacalismo in Italia rispetto alle ingerenze di un sistema totalitario come quello corporativo-fascista, non possono mai essere piegati alle ragioni dei più forti o alla suggestione delle ideologie.

 

La migliore dottrina giuslavoristica ha da tempo sottolineato, del resto, come sia del tutto erroneo qualificare i c.d. accordi pirata sulla base della scarsa rappresentatività dei soggetti stipulanti, poiché ciò implicherebbe «la loro sorprendente accettazione come il prodotto di una attività sindacale, seppure ritenuta deteriore, mentre è vero l’opposto» (E. Gragnoli, L’impresa illecita, in VTDL, 2018, n. 2, p. 358). Quando parliamo di contrattazione pirata occorre dunque verificare se i soggetti coinvolti nella azione collettiva siano innanzitutto sindacati ai sensi dell’articolo 39 della Costituzione e se i sistemi di regole che dalla loro azione scaturiscono siano idonei a svolgere le funzioni che l’ordinamento civil-costituzionale gli riconosce (P. Tomassetti, Contrattazione collettiva, sostenibilità del lavoro e concorrenza nel mercato globale, oggi. Verso un nuovo contratto sociale?, in G. Rizzuto, P. Tomassetti (a cura di), Il dumping contrattuale nel settore moda, Edizioni Lavoro, 2019; G. Centamore, Contratti collettivi o diritto del lavoro «pirata»?, in VTDL, 2018, n. 2, p. 471 e ss.; E. Gragnoli, L’impresa illecita, in VTDL, 2018, n. 2, pp. 351-353; A. Lassandari, Pluralità di contratti collettivi nazionali per la medesima categoria, in LD, 1997, n. 2, p. 261 e ss.; G. Pera, Note sui contratti collettivi «pirata», in RIDL, 1997, n. 4, pp. 381 e ss.). Discorso che vale non più soltanto per il lavoro subordinato, ma anche per il lavoro autonomo di nuova o nuovissima generazione che reclama forme di rappresentanza su base professionale, non certo riducibili agli angusti parametri e perimetri del sindacalismo di settore (P. Tomassetti, Il lavoro autonomo tra legge e contrattazione collettiva, in VTDL, 2018, n. 3, p. 717 e ss.).

 

Altra cosa è indubbiamente il criterio della maggiore rappresentatività comparativa con cui l’ordinamento giuridico, sempre più frequentemente, si fa carico di selezionare il contratto collettivo chiamato a coltivare deleghe e rinvii previsti da particolari norme di legge come nel caso della determinazione della retribuzione imponibile a fini previdenziali o della possibilità di derogare a norme di legge o contratto collettivo e altro ancora. In tal caso, come argomentato da autorevole dottrina, la funzione del criterio selettivo non è quella di dare patenti di legittimità a questo o a quell’accordo collettivo, ma di promuovere «sistemi istituzionalizzati di relazioni intersindacali che assicurano la produzione dei contratti collettivi ai vari livelli» (M. D’Antona, Politiche di flessibilità e mutamenti del diritto del lavoro, Esi Roma, 1990, p. 561). Il che equivale a garantire che «siano gli stessi soggetti che normalmente amministrano, con i contratti collettivi ai vari livelli, le tipologie forti del rapporto di lavoro ad autorizzare quelle flessibili» (ivi).

 

Non ritengo utile discutere in questa sede, come invece ha fatto con curioso e sospetto tempismo il Ministero del lavoro, se l’accordo in questione sia o meno riconducibile al criterio della maggiore rappresentatività comparata. Lascio ben volentieri ai legali del Ministero, della triplice, di UGL e di Assodelivery affrontare un problema complesso che è tutto loro e su cui probabilmente sarà chiamata a pronunciarsi la magistratura a cui compete l’ultima parola. Come pure è bene lasciare alla contesa politica e sindacale la decisione se quello dei rider sia ancora un mercato del tempo di lavoro (e quindi sia necessario pagare al lavoratore anche il tempo di attesa tra una chiamata e l’altra) o altro, ben sapendo (ce lo hanno spiegato magistralmente, tra gli altri, Werner Sombart e Karl Polanyi) che il mercato del lavoro non è una entità naturale, ma il frutto di un processo storico fatto di conflitti, di mediazioni e di scelte.

 

In termini fattuali credo sia allo stato sufficiente riconoscere l’estrema difficoltà di avviare quella comparazione tra sistemi di contrattazione collettiva incidenti sullo stesso settore di cui parlava Massimo D’Antona. Per il semplice fatto che UGL sarà anche un attore sindacale meno consistente e rilevante di CGIL, CISL, UIL, cosa di cui nessuno dubita, ma questo è oggi l’unico contratto collettivo che insiste sulla categoria dei rider (così, in termini di categoria, l’ha espressamente battezzata, forse incautamente e con un classico autogol, lo stesso legislatore nell’articolo 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015 che peraltro parla di maggiore rappresentatività comparata dei sindacati e però anche delle associazioni datoriali), là dove quello della logistica (per quanto normi la materia sulla carta) non è sottoscritto lato datoriale da alcun soggetto di rappresentanza delle imprese di food delivery. Con il che se l’accordo Assodelivery-UGL Rider ha più di qualche problema e impone una seria riflessione sulle modalità di fissazione del compenso (in tema vedi il contributo di G. Piglialarmi, Accordo Assodelivery-UGL Rider: il nodo del sistema di determinazione del compenso, in Bollettino ADAPT), ben più rilevanti, rispetto alla chiara previsione di cui all’articolo 47-quater del d.lgs. n. 81 del 2015, sono le criticità del CCNL sottoscritto da Assologistica e Filt-Cgil, Fit-Cisl e UilTrasporti che, al più, possiamo considerare come un contratto affine, ma certamente non come un contratto di regolazione della “consegna di  beni per conto altrui, in ambito urbano e con l’ausilio  di  velocipedi  o veicoli”, settore tipizzato dal legislatore con invero qualche forzatura (se seguiamo la lettura che propone ora il Ministero del lavoro nel bocciare l’accordo Assodelivery_UGL Rider) rispetto alla libertà di auto-definizione della categoria professionale sancito dall’articolo 39 della Costituzione.

 

La mia convinzione è che solo se ci lasciamo alle spalle argomenti inconsistenti e strumentali possiamo provare a capire la valenza giuridica e sindacale dell’accordo in questione e sviluppare qualche riflessione attorno a cui cercare le soluzioni di alcuni dei tanti problemi da esso sollevati. In caso contrario rischieremmo un brusco salto nel passato e l’intervento Ministeriale pare andare esattamente in questa direzione. Oggi è UGL Rider il soggetto di cui si discute la legittimazione a sottoscrivere un accordo collettivo. Ma non possiamo dimenticare la lettera con cui, in sede di trasposizione in Italia della direttiva europea del 1999 sui contratti a termine, il Ministro del lavoro pro tempore Cesare Salvi, mettendoci meritoriamente la faccia e assumendosene la piena responsabilità politica e senza nascondersi dietro tecnicismi formali, rifiutò di recepire in legge un corposo avviso comune sottoscritto da tutte le rappresentanze d’impresa e sindacali solo perché alla firma mancava la CGIL (la vicenda è ricostruita in M. Biagi, La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368, Giuffrè, 2002, pp. 3-20).

 

Leggendo con la lente di ingrandimento la nota del Ministero del lavoro, con cui si boccia l’accordo in questione, qualche dubbio può allora sorgere anche per altri testi contrattuali, pensiamo ai contratti di CONFAPI, per esempio, di cui già un autorevole studioso del rango di Giuseppe Pera denunciava l’inconsistenza rappresentativa se comparati a quelli della Confindustria (G. Pera, Note sui contratti collettivi «pirata», in RIDL, 1997, n. 4, pp. 381 e ss., vedilo ora negli Scritti di Giuseppe Pera. II Diritto sindacale). Insomma, il sassolino dell’accordo Assodelivery-UGL Rider potrebbe innescare una valanga che andrebbe a coprire sia le buone ragioni di chi, anche nel movimento sindacale, si è sempre speso per contrastare una legge sulla misurazione della rappresentanza (ne ho parlato diffusamente in M. Tiraboschi, Legge sindacale: le ragioni del no, in F. Carinci (a cura di), Legge o contrattazione? Una risposta sulla rappresentanza sindacale a Corte costituzionale n. 231/2013 IX edizione del seminario di Bertinoro-Bologna, ADAPT Labour Studies, e-book series n. 20) sia quelle di chi firma oggi contratti collettivi degni di tale nome pur non essendo dotato di un grado di rappresentatività qualificato in comparazione con altre sigle sindacali o datoriali.

 

Il suggerimento, insomma, è quello di prendere atto che, per quanto problematico e controverso, quello di Assodelivery-UGL Rider è oggi l’unico contratto collettivo presente per la categoria dei rider, come definita dal decreto legislativo n. 81 del 2015 e successive modifiche e integrazioni e che questo contratto, pur con qualche palese ingenuità e leggerezza tecnica (ben evidenziata da P. Ichino, Contratto per i rider: è davvero “pirata”?, in La Voce Info, con particolare riferimento alla pretesa di qualificare per via contrattuale il lavoro dei rider come lavoro autonomo a prescindere) è un punto di partenza iniziale per provare a risolvere la delicata questione di un mondo del lavoro in trasformazione che non può essere governato unicamente attraverso la categoria giuridica della subordinazione. Ben altra forza avrebbe infatti la triplice se prendesse atto di questo dato di fatto e provasse a risolvere i problemi e le criticità che con forza evidenzia nelle dure prese di posizione contro l’accordo Assodelivery-UFG Rider sul tavolo della contrattazione piuttosto che sul tavolo, solo apparentemente più comodo, del Ministero del lavoro riconoscendo non tanto e non solo il valore del pluralismo sindacale (che, a ben vedere e come insegna la storia delle relazioni industriali in Italia, è la loro prima grande tutela), ma anche del crescente pluralismo del mondo del lavoro che merita risposte articolate andando oltre la subordinazione del Novecento industriale che è poi la prima fonte dell’attuale dualismo del mercato del lavoro e della divisione tra garantiti e non garantiti che poco ha a che fare con le peculiari vicende dei rider. Il tema di cui discutere dovrebbe insomma essere quello di uno Statuto di tutti i lavori con garanzie minime, di giusta retribuzione e tutela della dignità, per ogni persona che lavora o che cerca lavoro e non solo per chi riesce a conquistare la qualificazione giuridica di dipendente.

 

Sappiamo bene che nel nostro Paese le complesse tematiche del lavoro sono affrontate con semplificazioni eccessive, sul lato della comunicazione pubblica e politica, e con un altissimo tasso di conflittualità e demagogia. Ma almeno a chi si occupa di fare analisi e ricerca e dunque di fornire un contributo alla lettura della realtà e alla soluzione dei problemi che solleva, resta il dovere di evitare impostazioni di comodo o di parte, o contro o a favore, piegando poi l’analisi scientifica e i dati normativi a un risultato preconfezionato a priori.

 

Michele Tiraboschi
Ordinario di Diritto del lavoro – Università di Modena e Reggio Emilia
@MicheTiraboschi

 

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