Volete la “Buona Scuola”? Allora state ad ascoltare chi fa l’alternanza

Anche se l’accesissimo dibattito sul Jobs Act e l’articolo 18 sembrerebbe averla ormai oscurata quasi del tutto, vale la pena ricordare che il 3 settembre scorso il governo Renzi, nel presentare le linee guida per la riforma della scuola, ha proposto un’ampia consultazione pubblica denominata “La Buona Scuola”. Tutti possono parteciparvi, scuole e famiglie, studenti e professori, e uno dei temi principali su cui si è aperto il confronto è senza ombra di dubbio quello dell’alternanza tra scuola e lavoro, tra ore passate a studiare sui banchi e ore in azienda a “imparare facendo”. Pertanto, ci è sembrato quanto mai opportuno ascoltare la voce di chi pratica l’alternanza già tempo, peraltro in modo assai proficuo, per cercare di capire di cosa effettivamente si tratta. Così, abbiamo deciso di dirigere la nostra lente d’ingrandimento verso una realtà consolidata quale è quella della Fondazione Scuola Cattolica di Vallecamonica e del Centro di Formazione Professionale Padre Marcolini, da questa gestito. Desideriamo offrire, infatti, ai nostri lettori, un interessante e duplice punto di vista: quello dei ragazzi e di chi fa formazione, per capire se le loro opinioni confluiscono in una visione unitaria del sistema duale scuola-lavoro oppure no. Per farlo, abbiamo scelto di prendere spunto dalle loro personali riflessioni, al fine di raccontarvi quanto emerso.

 

«Così impariamo a lavorare». Anzitutto, di fronte alla domanda se sia conveniente o meno scegliere l’alternanza tra scuola e lavoro come percorso formativo, gli studenti hanno risposto e rispondono con entusiasmo, descrivendo in modo chiaro quello che riconoscono essere il valore aggiunto che può derivare da un percorso di questo tipo. Dice uno studente: «Ritengo che un’esperienza presso un’azienda possa aiutarmi a conoscere il mondo del lavoro, le sue regole, i tempi e le modalità di relazione con i colleghi e i superiori». Forse, in passato, si è troppo spesso pensato il contrario, eppure questa opportunità – perché così viene percepita l’alternanza dagli studenti – di “imparare facendo”, permette di sviluppare una serie di competenze che in ogni caso vengono richieste anche dal tradizionale percorso scolastico. Ad esempio, la capacità di pianificare un nuovo lavoro e di eseguirlo correttamente, che sono comunque tra gli obiettivi che il ragazzo deve raggiungere al termine della sua formazione scolastica.

 

L’Italia come la Germania? I ragazzi intervistati che hanno sperimentato la formazione in alternanza tra scuola e lavoro, poi, hanno avuto l’occasione per farsi un’idea di come funziona davvero un’azienda, sfruttando l’opportunità di relazionarsi con un potenziale datore di lavoro. Quest’ultimo, invece, ha avuto modo di apprezzare e conoscere i ragazzi già dalle prime fasi della loro formazione, senza dover aspettare il termine del percorso di studio. Di contro, la preoccupazione principale degli studenti è quella del rientro. Rimettersi sui banchi di scuola, infatti, dopo tanti giorni trascorsi in azienda, non è mai così semplice come potrebbe sembrare.

Ciò non toglie, però, che di fronte alla prospettiva di un obbligo di alternanza tra scuola e lavoro, i giovani non si tirano indietro, anzi rispondono positivamente. Ed è proprio per questo motivo che le 200 ore da trascorrere in azienda, rese obbligatorie per l’ultimo triennio degli istituti tecnici, possono rappresentare un primo passo concreto verso un sistema integrato di studio e lavoro. E i progetti sperimentali, garantiti da alcuni Cfp (tra i quali c’è anche il Cfp Padre Marcolini), offrono la possibilità di lavorare in azienda durante il periodo scolastico per 800 ore suddivise in due anni. Ecco perché fare anche solo 200 ore in azienda in tre anni potrebbe essere un buon punto di partenza verso un vero e proprio modello di apprendistato in alternanza tra scuola e lavoro, come già avviene in Germania.

 

Innovare la didattica a scuola. La principale obiezione a un simile modello di studio per i giovani è rappresentato il più delle volte dall’età: «L’apprendistato già a 17 anni è una scelta affrettata», si sente spesso dire. Ma cosa ne pensano i responsabili della formazione dei nostri ragazzi? L’opinione sembra essere positiva. Positivo, anzitutto, è il fatto di dare la possibilità ai giovani, che scelgono per il loro futuro un ambito lavorativo manuale, di poter fare questa esperienza, cui far confluire anche momenti di formazione teorica. Sempre nell’elaborazione dell’idea di Buona Scuola, poi, abbiamo chiesto ai formatori stessi come intendono migliorare la didattica a la scuola e collegarla maggiormente alla formazione di nuove competenze. Basteranno i laboratori e le stampanti 3D o servirà un nuovo modo di insegnare o di trasmettere conoscenze? Chi insegna ai ragazzi risponde che gli strumenti tecnici e multimediali offrono sì enormi potenzialità; ma rischiano di rivelarsi inutili o, addirittura , controproducenti, se non sono accompagnati da una formazione adeguata degli insegnanti a una didattica veramente innovativa, nella forma e nei contenuti.

 

Rispetto alle ipotesi contenute sempre ne la Buona Scuola di costituire le cosiddette “imprese didattiche” e la commercializzazione di prodotti e servizi, abbiamo chiesto agli istituti se queste possono essere delle buona idea per stimolare i giovani nel diventare imprenditori? Oppure se, diversamente, la realtà scolastica è troppo “fuori dal mondo” per poter fare impresa? Gli intervistati hanno risposto che, proprio perché fino ad oggi si è sempre imputato alla scuola di essere una realtà lontana dal mondo del lavoro, questa potrebbe essere una strada estremamente utile per colmare questa distanza.

 

Un ponte verso il primo impiego. Anche gli Its, quale canale di formazione terziaria non universitaria, vengono percepiti dai formatori come un valido strumento per sviluppare elevate competenze tecniche e tecnologiche, soprattutto per quei ragazzi che non possono accedere all’Università in quanto non hanno conseguito un diploma di maturità; in questo modo si formano tecnici specializzati che hanno l’opportunità di essere competitivi e creativi in settori economici strategici, sull’onda di Germania e Svizzera. Nelle linee guida della Buona Scuola si dà alle imprese la co-responsabilità nella progettazione di percorsi didattici ad hoc, più collegati con il mondo del lavoro. Rispetto a ciò, si pensa ancora che si tratti di una “interferenza” nel mondo scolastico oppure i tempi sono cambiati e anche l’impresa può aspirare a godere di una sua dignità formativa? L’intervistato ha risposto che l’impresa ha il dovere, se vuole creare dei futuri dipendenti ad hoc per la propria azienda, di collaborare sistematicamente con la scuola e realizzare insieme percorsi didattici personalizzati per ogni allievo.

 

È questo, dunque, il quadro altamente positivo e propositivo di come viene percepito, da studenti e formatori, lo strumento duale dell’alternanza scuola-lavoro, che è innovativo per alcuni Istituti, ma già assimilato da altri; anche se tutti dimostrano la loro pressoché totale disponibilità a mettersi in gioco con nuove forme di istruzione (e di apprendimento) che si adattino alle esigenze del mercato economico e sociale.

 

 

Giulia Alessandri

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@GAlessandri8

 

* Pubblicato anche in Tempi.it, 9 ottobre 2014.

 

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Volete la “Buona Scuola”? Allora state ad ascoltare chi fa l’alternanza
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