Bollettino ADAPT 3 giugno 2025, n. 21
Se vincesse l’astensionismo, si dirà che i cittadini hanno preferito mare e monti; se vincesse il SI, si affermerà che i cittadini hanno riacquistato consapevolezza di uno strumento di democrazia diretta. Se infine vincesse il NO (opzione su cui non molti scommettono), si concluderà che i cittadini sono stufi di essere chiamati a giudicare su quesiti e su materie a loro incomprensibili.
Pochi, in tutti i casi, rifletteranno sul fatto che tanti cittadini si saranno astenuti (come in passato) dal voto non perché disprezzino lo strumento del referendum, ma per i dubbi sulle reali conseguenze della soppressione delle norme che si chiede di abrogare.
Il “dubbio”, così sostenevano i filosofi dell’antichità, è la base della ricerca, quindi della conoscenza. Mette in discussione le certezze presentate come verità assolute e cerca la verità partendo da basi comuni e condivise.
Nell’interessante articolo del Presidente del CNEL, pubblicato il 20 maggio 2025 sui “Documenti del Sole 24 ore” si afferma che “se non iniziamo ad affrontare i gravi problemi del lavoro partendo da una condivisione dei dati e delle informazioni disponibili si continuerà nella sterile contrapposizione muro contro muro”. E che sia “quantomai auspicabile un confronto capace di anteporre i fatti e le analisi alle ideologie ed alle pregiudiziali politiche” (Il Sole 24 Ore, 20 maggio 2025, supplemento n. 137).
Pur condividendo l’analisi, va osservato che i dati nella maggioranza dei casi sono disponibili, perché molti sono gli attori sociali che li raccolgono e ancor di più le fonti che li comunicano. Ciò che difetta è il modo di presentarli, estraendo solo quelli che convengono. In tal modo chi legge e ascolta i propugnatori delle avverse fazioni e non è (incolpevolmente) informato dei fatti, coglie solo la falsità della rappresentazione: giacché tutto appare bianco o nero, chiaro o scuro, secondo gli interessi di chi li rappresenta.
“Nella notte nera, dove tutte le vacche sono nere, tutto è indistinto. I contorni si perdono, tutto sembra uguale, non si distingue la differenza fra il soggetto, l’idea, e l’oggetto, la natura” (G.W.F. Hegel).
Così, ascoltando alcuni commenti sui quesiti referendari, si sostiene che votando NO al quesito n. 1 sulla disciplina del contratto di lavoro a tutele crescenti il lavoratore illegittimamente licenziato potrà essere reintegrato nel posto di lavoro. Non si aggiunge che già così avviene per i licenziamenti nulli e discriminatori e nel caso di insussistenza del fatto. Nè che la reintegra, inizialmente collegata ai soli casi di “insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento” è stata di fatto riesumata dalla copiosa giurisprudenza succedutasi dal 2015 in poi. Né che la Corte Costituzionale, pur confermando la legittimità di misure alternative alla reintegrazione, ha spinto il legislatore ad aumentare progressivamente l’indennizzo per licenziamento illegittimo, che ora può raggiungere 36 mensilità dell’ultima retribuzione.
Molto sarebbe da dire anche sul quesito n. 2 e sulla differenza di trattamento dei lavoratori nelle imprese fino a 15 dipendenti, che limita a 6 mensilità l’indennità da corrispondere in caso di licenziamento illegittimo. La sproporzione tra 6 e 36 mesi, obiettivamente, non trova alcuna giustificazione, né se si guarda la questione dall’ottica del lavoratore né se si osserva da quella dell’impresa. Ma cosa sarebbe di tante piccole aziende che sopravvivono nel mercato con utili bassi e marginali se fossero costrette a sostenere un costo di indennizzo sproporzionato alle loro forze in forza della sentenza di un giudice chiamato a decidere senza un limite certo di riferimento? E come dimenticare il caravan serraglio scatenato dopo la prima sentenza della Consulta che, avendo sostenuto l’incostituzionalità della norma che quantificava l’indennità solo in base all’anzianità di servizio, ha portato alcuni giudici ad attribuire 12 o più mensilità a dipendenti assunti solo da pochi mesi?
Per dare piena verità ai fatti occorre tuttavia anche dire che le imprese minori del 1970 non sono quelle del 2025, e che un’impresa ad alta tecnologia e con pochi dipendenti oggi è in grado di produrre un fatturato ed un utile che una media azienda con oltre 15 dipendenti, [ad esempio di servizi labour intensive] non riuscirebbe mai a raggiungere. Dunque, una mediazione (non un referendum), basata su dati certi e condivisi, sarebbe necessaria da tempo. E ciò è ben noto a chi si occupa di lavoro per professione.
Sul quesito n. 3 che riguarda il [richiesto] reinserimento della causale anche nei contratti a tempo determinato inferiori ai 12 mesi, si potrebbe citare l’antico proverbio secondo cui quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito. Indirettamente è lo stesso CNEL, nell’articolo sopra citato, a ricordare il mondo del lavoro non è quello degli anni ’70 e che dovremmo semmai vivere il transito “da una società a retribuzione fissa ad una società post industriale basata sulla connettività e sulle reti; da un mondo di salariati sempre sull’orlo del baratro della disoccupazione a un pianeta in cui i lavoratori partecipano all’organizzazione del lavoro ed ai relativi rischi di impresa”.
Ma anche al di là delle visioni futuristiche, basterebbe leggere i resoconti regionali sull’andamento dell’occupazione. Non tanto [e comunque non solo] per conoscere il numero degli occupati e come sono distribuiti tra fasce, quanto per monitorare la permanenza dei lavoratori a tempo indeterminato nella medesima azienda. Si scoprirebbe infatti che, al netto dei lavoratori pubblici, la media è compresa tra i 3 e gli 8 anni.
Questo dato di fatto, numericamente inconfutabile, lascia intendere che anche le forme e le a tipologie dei contratti di lavoro dovrebbero adeguarsi al nuovo. Ad esempio allineando la durata del contratto a termine a quella dei dirigenti [5 anni], togliendo i limiti della sua durata e prevedendo un esonero totale dei contributi per i primi anni in caso di rinnovo per ulteriori 5 anni. In questa prospettiva, il contratto a tempo indeterminato non avrebbe più quello spasmodico interesse, spesso associato all’ansia di espulsione una volta ottenuto, che oggi coinvolge la maggioranza dei lavoratori.
Quanto al quesito n. 4, che chiede di attribuire anche ai committenti la responsabilità per infortuni in appalto, allargando quella già prevista per le retribuzioni ed i contributi non versati dal datore di lavoro-appaltatore, non è chiaro quale sia lo scopo, né cosa ci si propone di ottenere dalla condanna del committente che, in quanto tale, è assolutamente inconsapevole dei rischi propri e specifici dell’attività data in appalto. Un referendum che sembra quindi avere un intento meramente punitivo; in ogni caso che non migliora la sicurezza dei lavoratori
Infine, sul quesito n. 5, che sollecita la riforma della legge sulla cittadinanza dopo soli 5 anni di regolare residenza in Italia dello straniero, automaticamente estendibile ai figli, è difficile esprimere un giudizio, perché la materia non affronta un tema giuridicamente controverso, essendo solo uno scontro ideologico tra diverse visioni della società. Né spiega, in concreto, quali sarebbero i diritti negati ai minori e quali i benefici concreti ora non concessi.
In fondo, concludendo, ciò che il cittadino chiede a chi propone un referendum, di qualunque colore politico sia, è solo una vera, onesta e completa rappresentazione dei fatti, nei suoi aspetti positivi e negativi. Basata cioè su dati certi, condivisi e non solo ideologicamente contrapposti.
In estrema sintesi, di non essere trattato come un soldatino obbediente, o come un incompetente che si invita ad andare al mare o, peggio ancora, un follower al quale si sollecita il like.
Antonio Tarzia
ADAPT Professional Fellow
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