Tirocini extracurriculari: il (potenziale) ruolo delle Università italiane

Interventi ADAPT

| di Arianna Zanoni

Bollettino ADAPT 14 luglio 2025, n. 27

La questione dei tirocini extracurriculari in Italia

La proposta di direttiva UE sui tirocini, attualmente in discussione al Parlamento Europeo, sta contribuendo a riaccendere i riflettori sulla questione anche nel nostro Paese, attualmente ancora privo di una legislazione organica sul tema: i tirocini extracurriculari infatti sono sottoposti a specifiche discipline regionali, mentre i curriculari sono prevalentemente disciplinati nel più ampio ambito dei diversi percorsi in cui vengono attivati.

Tra i nodi al centro del dibattito e delle conseguenti proposte di riforma della disciplina – anche alla luce degli input comunitari – oltre al tema (preponderante) del trattamento economico, vi è il contrasto alle forme di lavoro camuffate da tirocinio, da attuare non solo mediante maggiori controlli ma anche attraverso la realizzazione di percorsi di qualità, che valorizzino la funzione formativa di tali strumenti, vero tratto distintivo rispetto alle forme di lavoro standard.

Tra i principali obiettivi dei tirocini extracurriculari vi è l’orientamento e la formazione nonché la costruzione di un ponte con il mercato del lavoro. Non stupisce quindi che il 77% dei tirocini attivati in Italia sono indirizzati a giovani sotto i 30 anni, per i quali il tirocinio rappresenta il primo contatto con il mondo del lavoro nel 41% dei casi (ANPAL, INAPP, IV Rapporto di monitoraggio nazionale in materia di tirocini extracurriculari, Roma, Febbraio 2024). Tra i tirocinanti under30, nelle fasce d’età 20-24 e 25-29 anni il 91% rientra nella categoria di disoccupati/inoccupati o neolaureati, mentre in generale i tirocinanti che hanno raggiunto un titolo di studio terziario rappresentano il 25% del totale.

Considerati i dati statistici a disposizione, colpisce la quasi totale assenza, tra i soggetti promotori dello strumento (ossia gli enti accreditati che possono formalmente promuovere e attivare l’esperienza di tirocinio, progettandone i contenuti e lo svolgimento, garantendo la valenza formativa dell’esperienza), delle Università, istituzioni formative che grazie ai propri servizi di placement e orientamento al lavoro, potrebbero invece rivestire un ruolo centrale nell’attivazione e nella gestione dei tirocini. Infatti, le Università raccolgono soltanto il 3% delle attivazioni (nel periodo 2020-2022, a cui fa riferimento il IV Rapporto di monitoraggio nazionale in materia di tirocini extracurriculari di ANPAL), a differenza dei Soggetti autorizzati all’intermediazione e dai Servizi pubblici per l’impiego, che insieme raggiungono il 55% delle attivazioni totali.

L’andamento delle attivazioni da parte delle Università ha registrato negli anni un calo netto, passando dall’8,9% nel 2014 al 3,8% nel 2019 (ANPAL, INAPP, II Rapporto di monitoraggio nazionale in materia di tirocini extracurriculari, Roma, Maggio 2021), fino a raggiungere il 2,8% nel 2022.

Vero è che con il susseguirsi di nuove linee guida sui tirocini e, in particolare, a seguito della pubblicazione delle Linee Guida del 2017 – in cui è venuta meno la distinzione tra tirocini “formativi e di orientamento” e quelli “finalizzati all’inserimento e reinserimento professionale” a favore della più ampia definizione di tirocini “extracurriculari” – l’istituto ha progressivamente perso il suo impianto formativo, acquisendo una curvatura sempre più lavoristica (si veda Impellizzieri G., La disciplina dei tirocini extracurriculari in Italia tra finalità formative e torsione lavoristica, in RGL, 2024, n. 2). Appare quindi evidente che con la progressiva perdita di centralità della finalità formativa, sia calato anche l’interesse delle università a farsene carico. Trattandosi quindi di strumenti ormai percepiti come puramente finalizzati all’inserimento lavorativo (alla stregua di politiche attive) i tirocini extracurriculari sembrano infatti non essere più di interesse per le università, ancora molto legate alla propria natura di istituzione formativa e il cui ruolo poco ha a che vedere con il puro “collocamento”.

Il dato sulle (poche) attivazioni di tirocini da parte delle Università rappresenta quindi un campanello d’allarme su una deriva lavoristica da cui la stessa ANPAL nei suoi rapporti sui tirocini metteva in guardia, quando a più riprese sottolineava che “una visione del tirocinio eccessivamente sbilanciata sul versante dell’inserimento lavorativo rischi di alterare la peculiare finalizzazione formativa dello strumento, finendo per condurre a un pericoloso accostamento tra tirocinio e lavoro” (IV Rapporto di monitoraggio nazionale in materia di tirocini extracurriculari di ANPAL, p. 34).

Tirocini “di qualità” e il potenziale ruolo delle università italiane

Viene quindi da chiedersi, a questo punto, se le Università – considerata la loro natura di istituzioni formative – possano contribuire a un’inversione di questa tendenza e svolgere così un ruolo centrale nel rimettere ordine alla gestione dei tirocini, garantendo ai percorsi una componente formativa che aiuti i tirocinanti a orientarsi e a entrare in contatto con il mondo del lavoro, senza tuttavia che queste esperienze si trasformino in forme di impiego sottopagato.

I dati relativi agli esiti occupazionali post tirocinio ci mostrano uno stato di cose complesso, che mette in discussione anche l’efficacia dello strumento nel favorire l’inserimento lavorativo dei giovani. Invero, secondo quanto contenuto nel rapporto INAPP, Lavoro e formazione: necessario un cambio di paradigma, Rapporto 2024, Roma, Dicembre 2024, a 31 giorni dalla conclusione del percorso, le esperienze alle quali segue l’attivazione di un contratto di lavoro sono soltanto il 48,6% del totale, percentuale che sale al 58% per chi detiene un titolo di studio superiore al diploma.

Se il 42% dei tirocinanti con un titolo di studio superiore al diploma non viene assunto entro un mese dalla fine del percorso, è evidente che il tirocinio extracurriculare, considerato solo come strumento di inserimento lavorativo, mostra dei limiti. Forse è proprio riscoprendo e valorizzando la sua componente formativa che le Università potrebbero contribuire a renderlo più efficace anche sotto il profilo del placement. In questa prospettiva, è lo stesso rapporto INAPP ad evidenziare che “i tirocini caratterizzati da contenuti formativi di qualità manifestano la loro efficacia nell’agevolare la transizione verso il mercato del lavoro” (INAPP, Lavoro e formazione: necessario un cambio di paradigma, Rapporto 2024, Roma, Dicembre 2024, p. 92).

Sebbene i giovani tra i 24 e i 30 anni in possesso di una laurea o di un titolo di studio superiore siano i principali destinatari dei tirocini considerati “di qualità” – a cui si associa anche una “maggiore probabilità che la transizione lavorativa post tirocinio avvenga con un contratto a tempo indeterminato rispetto a uno a tempo determinato” (INAPP, Lavoro e formazione: necessario un cambio di paradigma, Rapporto 2024, Roma, Dicembre 2024, p. 96).– va sottolineato che, secondo i dati INAPP, tali tirocini rappresentano appena il 30,5% delle attivazioni annuali.

È forse in questo segmento che potrebbe collocarsi il ruolo delle Università, non solo nell’individuare i soggetti ospitanti e nella gestione prettamente burocratica, ma nel lavorare a una progettazione congiunta che risponda agli standard di qualità – già identificati dal rapporto INAPP (INAPP, Lavoro e formazione: necessario un cambio di paradigma, Rapporto 2024, Roma, Dicembre 2024, p. 93) basati su tre criteri (durata, inserimento lavorativo e capacità formativa) – in cui le parti coinvolte (Università e azienda) mettano a disposizione le proprie competenze per la creazione di percorsi individualizzati e finalizzati a un successivo inserimento lavorativo.

In questo modo il tirocinio potrebbe tornare a essere uno strumento di formazione e orientamento utile ad accompagnare i giovani nel mercato del lavoro, senza rappresentare una mera forma di lavoro sottopagato.

Criticità e prospettive: quale futuro per i tirocini extracurriculari in Italia?

A fronte di queste possibili prospettive di sviluppo, vanno tuttavia considerate alcune criticità implicite che andrebbero affrontate prioritariamente nell’affidare un ruolo maggiore alle Università nella gestione dei tirocini extracurriculari.

Un nodo problematico di particolare rilievo riguarda le risorse, economiche e di personale, a disposizione degli Atenei (specialmente quelli pubblici) per la gestione di questi processi.

Tale problema risulta peraltro acuito dal fatto che gli Atenei già si occupano di gestire un’altra forma di tirocinio, quello curriculare – attualmente non oggetto di revisione in ambito Eurounitario – necessario al raggiungimento dei CFU per il conseguimento del titolo di laurea. Sempre più considerati come parte integrante della didattica, i tirocini curriculari si distinguono da quelli extracurriculari per la loro funzione squisitamente orientativa e formativa, pur non essendo a loro volta esenti da critiche legate non solo all’aspetto economico (per i tirocini curriculari, infatti, non sono previsti indennizzi né rimborsi spesa obbligatori), ma anche alla qualità e alla loro effettiva utilità.

Il quadro ricostruito è quindi caratterizzato da un lato dal tirocinio curriculare che cerca di imporsi come strumento di orientamento e formazione in alternanza studio-lavoro durante il percorso universitario, e dall’altro dal tirocinio extracurriculare che risulta sempre più svuotato della sua funzione formativa a favore di quella più vicina allo strumento di politica attiva, spesso in competizione con un altro istituto, l’apprendistato, che nasce proprio con la finalità di accompagnare i giovani nel mercato del lavoro attraverso una forma contrattuale stabile e un progetto formativo più ampio e strutturato.

Viene in conclusione da chiedersi quale spazio effettivamente rimanga al tirocinio extracurriculare e quale ruolo possano giocare le Università per un rilancio “di qualità” dell’istituto, considerando altresì all’inverso il valore che questo potrebbe rappresentare per gli atenei (anche semplicemente in termini di ranking). In assenza di un solido intervento di revisione qualitativa dello strumento, probabilmente non resterebbe che valutarne l’abolizione, a favore ad esempio di una maggiore valorizzazione dell’apprendistato.

Arianna Zanoni

PhD Candidate ADAPT – Università di Siena

X@AriZanoni