Smart working, forma di conciliazione vita-lavoro o aumento della produttività? Analisi di 15 integrativi

Il lavoro agile arriverá in aula a settembre. Dopo mesi in cui il ddl presentato dal governo ha affrontato il vaglio della Commissione Lavoro del Senato, c’è una prima risposta alla domanda su che fine avesse fatto. Una domanda che sembra aver preoccupato più gli osservatori e i giuristi che il mondo delle imprese. Non passa mese infatti senza la stipula di nuovi accordi collettivi nazionali o aziendali che si occupano esplicitamente di regolare la pratica dello smart working.

 

Non solo i settori in cui è più diffuso, come quello bancario, assicurativo o il mondo delle telecomunicazioni o dell’informatica, ma anche nel recente accordo tra i metalmeccanici di CISL e UIL e le piccole e medie imprese rappresentate da CONFIMI il lavoro agile è presente con una pagina sulle linee guida per la sua attuazione. Negli ultimi mesi infatti la nuova stagione di rinnovo dei contratti nazionali ha visto sia nel caso di Federculture che dell’industria alimentare la presenza dello smart working, che quindi entra a pieno titolo nelle relazioni industriali a livello nazionale.

 

Dal punto di vista aziendale invece sono almeno 15 gli accordi integrativi sul lavoro agile, individuati dall’Osservatorio ADAPT sullo Smart working, che le parti sociali hanno sottoscritto senza ancora la presenza di una normativa ad hoc, a riprova che l’autonomia collettiva ad oggi ha gli strumenti per poter muoversi autonomamente. Un numero di certo non vasto, ma che può dare alcune indicazioni importanti.

 

Prima tra tutte il fatto che una legge è sì necessaria, ma per spingere e incentivare le parti a firmare accordi su questa nuova modalità di eseguire la prestazione lavorativa. In questo modo si può pensare di connettere l’utilizzo del lavoro agile non unicamente ad obiettivi di conciliazione vita e lavoro ma a esigenze (sempre più urgenti) di aumentare i livelli di produttività.

 

Se infatti lo smart working rientra tra gli strumenti che le parti individuano per incrementare questo indicatore è giusto ed efficace che il tema venga regolamentato in sede di contrattazione collettiva. E su questo aspetto possiamo notare positivamente come sia l’accordo per le PMI metalmeccaniche che Federculture indicano il lavoro agile come strumento per raggiungere obiettivi di maggiore produttività, da realizzarsi ed attuarsi a livello aziendale.

 

Bisognerà ora vedere come si regoleranno le imprese, pensiamo ad esempio all’accordo dei meccanici che indica nella sede aziendale il luogo nel quale definire modalità e condizioni “anche con previsioni specifiche collegate al raggiungimento di un determinato obiettivo o al conseguimento di un risultato”. I contratti integrativi si dividono tra chi individua lo smart working unicamente come forma di conciliazione e chi, almeno nelle premesse ideali, cita esplicitamente l’obiettivo dell’aumento della produttività. L’interesse della contrattazione nazionale potrebbe quindi dare indicazioni chiare su quale debba essere il vero scopo dello strumento e indirizzare la natura e il contenuto degli accordi aziendali.

 

Il secondo dato è che il lavoro agile va costruito intorno alle esigenze produttive aziendali, e per questo i vantaggi di un accordo tra le parti sono evidenti. Tra gli accordi esistenti infatti alcuni consentono lo smart working per un determinato numero di giornate lavorative mensili (6 giorni per Wind, 8 giorni per Intesa San Paolo), settimanali (1 a settimane per A2A, 2 per Zurich) o per ore (32 ore al mese per Barilla). Oltre a questo è fondamentale individuare quali tipologie di lavoratori possono eseguire la prestazione con queste nuove modalità e quali siano i requisiti tecnici. Ad esempio BNP, General Motors Powertrain e Snam fanno esplicito riferimento alle strumentazioni necessarie, BNP inoltre consente il lavoro agile ad operai, impiegati e dirigenti mentre Banca Etica limita la sperimentazione unicamente ai quadri.

 

In ultimo dobbiamo evidenziare la tendenza a confondere tra lavoro agile e telelavoro, che è regolato da una specifica normativa europea. Si tratta di definire a livello normativo le peculiarità di un modello che vorrebbe distinguersi dal vecchio telelavoro, ma che a livello normativo si pone ancora in una posizione di dubbio.

 

Dall’analisi del panorama italiano si può quindi vedere come in attesa qualcosa si stia già muovendo. I numeri sono al momento molto ridotti e si sente l’esigenza di una normativa che aiuti a ridurre l’incertezza sul tema e ad incentivare le imprese a intraprendere sperimentazioni innovative.

 

L’innovazione auspicabile non si gioca tanto sul fronte della conciliazione quanto su una vera nuova modalità di intendere la prestazione lavorativa, meno rinchiusa nelle gabbie strette dell’orario di lavoro ma aperta a forme di valutazione e retribuzione basate sugli obiettivi e sui risultati e quindi utile ad aumentare la produttività. La legge può quindi essere utile, ma per una vera efficacia è necessario che le parti stesse, sia i lavoratori che le imprese, inizino a sviluppare  schemi organizzativi che, sostenuti da un quadro regolativo certo, abbiano al centro l’autonomia e la responsabilità dei propri collaboratori, a partire dalle loro competenze e professionalità.

 

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di Adapt

Direttore ADAPT University Press

@francescoseghezz

 

Pubblicato anche su Ilsole24ore.com, il 3 agosto 2016

 

 

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