Sharing economy o concorrenza sleale? Breve commento ragionato al caso “Uber pop”

I fenomeni relativi alla complessa galassia della cd. Sharing Economy hanno subito nel corso degli ultimi anni un ampio processo di espansione, grazie all’avvento di nuove tecnologie che hanno plasmato un tessuto economico orientato sempre più a soddisfare le esigenze dei consumatori in maniera veloce ed economica. Questa nuova smart economy ha inoltre portato alla nascita di una nuova e complessa fenomenologia giuridica che non sempre è stata puntualmente accolta dall’ordinamento, spesso arroccato su posizioni più conservatrici e afflitto da una repulsione non trascurabile verso forme di esercizio dell’autonomia privata atipiche o non standardizzate. I settori dove questa battaglia, rectius dialettica, avviene in maniera più dinamica sono quelli della regolamentazione della concorrenza e del mercato del lavoro. Se nel secondo l’utilizzo della contrattazione collettiva, anche e soprattutto di prossimità, ha portato all’adozione di modelli di impiego piuttosto innovativi, nel campo della libera concorrenza il mercato si è spesso trovato di fronte a barriere culturali e legislative rimaste insormontabili per molti anni, che solo coraggiosi interventi giurisprudenziali di sapore pro-concorrenziale e derivati spesso dal diritto comunitario hanno via via eroso (tra le tante, Cass. Civ. 1636/2006).
 
Ultimo, ma solo in ordine di tempo, il cd. caso “UBER POP”, che ha visto schierati rispettivamente i paladini del libero mercato scagliarsi contro il protezionismo corporativo e dall’altro i tutori della legalità del mercato ergersi a salvaguardia della legge contro pericolose iniziative ritenute un subdolo grimaldello per aggirare i vincoli all’esercizio delle professioni. La maggior parte dei commentatori ha censurato l’ordinanza cautelare del 25 maggio 2015, che ha inibito temporaneamente l’esercizio del servizio UBER POP, emessa dal Tribunale di Milano con commenti poco lusinghieri quali “protezionistica” o “corporativa”. Ma è davvero così? Proviamo a fare un ragionamento analitico sulle decisioni del giudice alla luce del contesto normativo attuale.
 
 
UBER POP è una app, messa a punto dall’omonima azienda multinazionale (di seguito denominata genericamente UBER), la quale consentirebbe di mettere in contatto un potenziale cliente (che deve previamente registrarsi al sito) con un potenziale autista appartenente allo stesso network (anche questo implementato tramite la piattaforma web) allo scopo di trasportare il cliente da un punto ad un altro delle città coperte dal servizio in questione dietro pagamento di un prezzo. Già implementata anche in altri paesi del mondo, tra cui gli Stati Uniti, l’applicazione in questione ha subito pesanti critiche da parte dei tassisti e dei conducenti di auto a noleggio in quanto a detta loro strumento lesivo della concorrenza poiché consentono agli autisti UBER di non dover sopportare dei costi – essenziali invece per fornire il servizio dei taxi – prescritti da norme pubblicistiche. I costi in questione sarebbero quelli relativi alla implementazione degli strumenti elettronici del tassametro, che i tassisti invece sono obbligati a sostenere, oltre che in generale i costi di licenza, radiotaxi, assicurazione e gestione che autisti UBER non hanno. L’illecito concorrenziale starebbe dunque nell’aver implementato un sistema, rivolto in buona sostanza alla medesima clientela dei tassisti, che consentirebbe di fornire uno stesso servizio a prezzi più bassi perché “drogati” dall’abbattimento di costi che invece sarebbero da sostenere per legge. L’assimilabilità del funzionamento dell’app incriminata col servizio di radiotaxi fa da ulteriore prova della concorrenzialità di UBER rispetto al servizio taxi.
 
Detto dell’applicabilità della disciplina dell’illecito concorrenziale ex art. 2598 comma III c.c. per la presenza dei presupposti di concorrenzialità tra le iniziative economiche di servizio taxi e UBER, il giudice valuta i presupposti per l’emissione di un provvedimento cautelare ex art. 700 c.p.c., vale a dire il fumus boni iuris e il periculum in mora.
 
Sussiste pericolo per un pregiudizio immediato nei confronti delle ricorrenti, in quanto, seppur vero che il servizio UBER è attivo a Milano da più di un anno e nessuna azione giudiziaria sia stata nel frattempo intentata, l’apertura di EXPO 2015 il primo maggio ha potenzialmente allargato il bacino di utenza di UBER in maniera dirompente. Di più, in quanto affiancata da “un’annessa progressiva ma intensa attività di ampliamento del servizio ad altre città […] suscettibile di ampliare l’afflusso turistico in altre città italiane”. Vale a dire che, qualora non si limitasse ora l’espansione di UBER in attesa di un giudizio di merito, l’eventuale successivo accertamento dell’illegittimità dello stesso, con i fisiologici tempi processuali, renderebbe comunque insoddisfacente e pregiudizievole per i ricorrenti la censura tardiva del servizio.
 
Interessante è l’aspetto relativo al fumus boni iuris, vero nodo nell’intera vicenda.
 
Il quadro normativo è, a detta del giudice, chiaro. La legge n. 21 del 1992, relativa alla Regolamentazione degli Autoservizi pubblici non di linea definisce il servizio taxi come «servizio che ha lo scopo di soddisfare le esigenze del trasporto individuale o di piccoli gruppi di persone; si rivolge ad una utenza indifferenziata; lo stazionamento avviene in  luogo pubblico; le tariffe sono determinate amministrativamente dagli organi competenti, che stabiliscono anche le modalità del servizio; il prelevamento dell’utente ovvero l’inizio del servizio avvengono all’interno dell’area comunale o comprensoriale». L’art. 82 del codice della strada distingue altresì tra uso privato e uso del veicolo in favore di terzi, quest’ultimo consistente nel veicolo utilizzato, dietro corrispettivo, «nell’interesse di persone diverse dall’intestatario della carta di circolazione […]» in cui è espressamente incluso il servizio taxi. Il comma 8 del medesimo articolo sottopone a sanzione amministrativa l’uso del veicolo in maniera differente da quello indicato in carta di circolazione (es. veicolo privato usato a favore di terzi). Si capisce come l’uso dell’autovettura come mezzo di trasporto “simil-taxi”, senza la licenza e senza corrispondente conversione dell’uso del veicolo (che comporta, su tutti, il lievitare dei costi assicurativi contro i danni a terzi) sia senza dubbio illecito.
 
Ma è UBER un servizio di questo tipo? Il giudice ritiene di sì. Tre sono i motivi su cui si fonda il suo convincimento. Prima di tutto emerge dalle risultanze processuali come, seppur meritevoli di apprezzamento le iniziative economiche libere e volte a garantire un migliore servizio di mobilità ai cittadini, non si può prescindere da una loro regolamentazione ai sensi dell’art. 41 comma III della Costituzione. Rilevano qui le necessità di garantire un servizio sicuro e di qualità, che se rivolto ad una moltitudine di individui potenzialmente illimitata deve essere soggetta a controlli relativi allo stato dei veicoli e dei conducenti, che viene esercitato attraverso concessione e rinnovo delle licenze, a seguito della positiva integrazione dei requisiti stabiliti dagli enti ad esso preposti.
 
Secondo motivo di censura è quello relativo al pagamento degli autisti UBER: il compenso ad essi spettante è, a detta del giudice, del tutto paragonabile ad un compenso per una prestazione contrattuale effettivamente svolta e non come un mero rimborso spese come sostenuto dalle ricorrenti. Nelle fattispecie classiche di car sharing, al titolare del veicolo vengono infatti solitamene corrisposti una somma a titolo di gratifica o di ringraziamento per il trasporto (es. divisone del costo del pedaggio e del carburante per il numero di occupanti il veicolo), mentre in questo caso il meccanismo di retribuzione implementato da UBER, denominato Surge, varia a seconda della domanda, è parametrato sui corrispettivi ACI e fluttua in maniera totalmente incompatibile con quella di un comune car-sharing o car-pooling. Nelle fattispecie tipiche di mobilità condivisa è poi solitamente il conducente che sceglie il percorso, e non l’utente (es. colleghi che si recano assieme al lavoro) come invece avviene nel caso in esame.
 
Terza censura, forse la più importante a livello di sistema, è quella relativa alla natura stessa del servizio. Non siamo in presenza, secondo il giudice, di una community che si organizza mediante una piattaforma web – quale strumento meramente accessorio e strumentale all’organizzazione della condivisione di veicoli – bensì di un vero servizio organizzato rivolto a chiunque e che trova nella app la sua vera summa, posto che tramite questa avvengono anche i pagamenti, e in generale senza di essa mancherebbe un “contributo essenziale e insostituibile allo sviluppo della condotta illecita”. Vale a dire che senza l’applicazione in questione l’intero servizio rimarrebbe confinato, a detta del giudice, a un mero car-sharing tra privati. L’app UBER POP sarebbe dunque non un mero intermediario, ma lo strumento principale sul quale si edifica il business della società resistente.
 
Alla luce di tutto ciò siamo in presenza di concorrenza sleale ex art. 2598 comma III del codice civile per violazione di norme pubblicistiche, che nel caso di specie sono gli artt. 86 c.d.s. e 8 della legge 21/92, in quanto il non avervi adempiuto da parte degli autisti e la connessa loro organizzazione e stimolo da parte della società UBER, è «causa diretta della diminuzione dell’altrui avviamento» (secondo il consolidato principio di cui a Cass. Civ. 8012/04).
 
UBER e le associazioni dei consumatori hanno promesso battaglia quando si instaurerà il giudizio di merito, mentre a seguito del rigetto del reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c. sul sito è stato pubblicato il dispositivo dell’ordinanza in commento, nonché inibita la funzionalità dell’app UBER POP.
 
Michele Loconsole
Studente di Giurisprudenza – Università degli Studi di Milano
@m_loconsole
 
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