Se è vera rivoluzione copernicana sbagliato parlare ancora di stabili e precari

La guerra dei numeri sul lavoro, condotta a mezzo di comunicati stampa e alimentata dalle incessanti note di Istat, Ministero del lavoro e INPS, rischia di essere materia per specialisti se guardata solo nel suoi aspetti quantitativi. Al contrario nasconde, e non troppo velatamente, una idea del lavoro ben precisa che cancella in radice la rivoluzione copernicana del lavoro promessa da Renzi.

 

Basta osservare come le dichiarazioni più entusiaste riguardino il fatto di aver eliminato il dramma del precariato sostituendo i contratti a termine e le collaborazioni con il nuovo contratto a tutele crescenti. Tutto questo dopo che ci si è vantati, e a ragione, di aver eliminato l’articolo 18 dal vecchio contratto a tempo indeterminato, rendendo quindi questo istituto tutt’altro che stabile.

 

Ci troviamo quindi nella situazione paradossale per cui proprio quel nuovo contratto che doveva scardinare il modello temporale novecentesco del lavoro subordinato a tempo indeterminato, e cioè il posto fisso, viene oggi presentato come una rivincita del lavoro stabile. Si omette quindi un risultato positivo, l’apertura a nuove tecniche di tutela come formazione e ricollocazione, affermando un modello vetusto, quello del lavoro stabile in un mercato del lavoro che non è più tale.

 

E che il dibattito ruoti ancora intorno alla dialettica precari/garantiti lo dimostra l’Inps stessa che chiama il monitoraggio sull’andamento dei contratti “Osservatorio sul precariato”, suggerendo nel nome che tutto ciò che non è a tempo indeterminato, a partire dal lavoro autonomo di nuova generazione, conduce ad una condizione di lavoro precaria.

 

Rischiamo di perdere così la vera sfida contenuta sia nella modernità del lavoro che nella prima fase del Jobs Act: la centralità del lavoro e della persona contro la centralità del contratto. L’aver costruito un sistema che facilità il licenziamento senza nessuna controparte dal punto di vista della ricollocazione e della riqualificazione del lavoratore ne è una prova evidente.

 

Al contrario ci sono studi e riflessioni (l’ultima è dell’Eurofound) che mostrano come la vera sfida oggi è trovare nuove forme contrattuali, alternative al modello standard del lavoro subordinato a vita, che possano allo stesso tempo essere efficienti per le aziende e tutelare diritti dei lavoratori. Al cui centro non vi sia il contratto in sé ma il percorso lavorativo e formativo (due facce della stessa medaglia, anche se in pochi lo capiscono) della persona. Ed ecco che si scopre che forme di lavoro come il job-sharing e l’associazione in partecipazione sono valutate molto positivamente dall’Europa, perché si sposano con la condivisioni dei rischi e dei risultati nell’era della sharing economy, eppure prontamente eliminate dal diritto del lavoro italiano proprio in nome della vecchia lotta al precariato.

 

È una visione conservatrice? Tutt’altro. Non basta l’eliminazione dell’articolo 18 a modernizzare il mercato del lavoro e questa, se non è seguita da azioni coerenti, rischia soltanto di causare squilibri che in una situazione di bassissima occupazione non possiamo certo permetterci. È necessario quindi ripensare il lavoro proprio a partire dalla centralità della persona e del suo percorso che, da un certo punto di vista, proprio la struttura del contratto a tutele interpreta. Per far sì che questa scelta non sia stata un caso più o meno fortuito ma parte di un disegno che guarda al futuro.

 

 

 

Francesco Seghezzi

Responsabile comunicazione e relazioni esterne di ADAPT

@francescoseghez

 

* Pubblicato anche in Formiche.net, 7 marzo 2015 con il titolo Jobs Act, la lezione di House of Cards per Renzi.

 

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