Sciopero o manifestazione? Il dilemma del sindacato tra Gaza e la rappresentanza

Interventi ADAPT

| di Francesco Nespoli, Maria Carlotta Filipozzi

Bollettino ADAPT 6 ottobre 2025, n. 34

Dopo gli scioperi proclamati “per Gaza” dalla CGIL e dai sindacati di base si è sviluppato un intenso dibattito sulla legittimità dello strumento e sulla validità delle motivazioni addotte dalla CGIL per difendere un’indizione con breve preavviso — motivazioni che il Garante ha ritenuto «inconferenti». La discussione non si è limitata però al piano giuridico: ha attraversato anche il mondo sindacale, dove la CISL e la UIL hanno espresso dubbi sull’opportunità di ricorrere allo strumento dello sciopero generale per una causa di carattere internazionale e umanitario.

A prescindere da chi abbia ragione su entrambi i piani, vale la pena guardare al passato. Non è la prima volta che il sindacato italiano utilizza lo sciopero come forma di solidarietà internazionale. Nel 2003, per esempio, CGIL, CISL e UIL proclamarono uno sciopero unitario contro la guerra in Iraq. Nella storia del movimento sindacale italiano si sono viste però anche manifestazioni pure, senza sciopero. Il celebre raduno al Circo Massimo del 2002 organizzato dalla CGIL contro l’abolizione dell’articolo 18 si svolse di sabato e non implicava alcuno sciopero.

Anche di recente, le tre confederazioni avevano assunto posizioni comuni e unitarie sul conflitto. Ad agosto, i segretari generali Maurizio Landini (CGIL), Daniela Fumarola (CISL) e PierPaolo Bombardieri (UIL) avevano inviato una lettera congiunta alla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, chiedendole di «fare ogni sforzo politico e diplomatico» per ottenere un cessate il fuoco e garantire l’assistenza umanitaria ai palestinesi. Ma con la proclamazione dello sciopero di venerdì scorso, la convergenza si è rotta.

La CISL, in particolare, ha ritenuto che «lo strumento dello sciopero generale non fosse appropriato» a fini di politica internazionale. Fumarola ha ribadito che la Confederazione preferisce «iniziative di solidarietà concreta e raccolte fondi» rispetto a forme di protesta che «rischiano di strumentalizzare una tragedia umanitaria». La UIL, pur condividendo la condanna delle violenze e l’appello alla pace, ha scelto una linea simile, evitando di aderire a un’iniziativa giudicata più politica che sindacale.

Tuttavia, non è detto che la base sindacale di CISL e UIL condivida in modo compatto queste scelte: molte strutture territoriali hanno espresso simpatia per la mobilitazione, segno di una magmaticità interna al sindacalismo italiano. Può essere che la scelta di CISL e UIL sia dovuta a motivazioni di approccio al confronto politico (più intransigente la CGIL, più dialogante la CISL), oppure si possono inquadrare tali scelte come strategie sindacali (la UIL da qualche mese non segue più la CGIL sul piano del conflitto). Può anche essere però un segno del tentativo di tutelare, da parte di alcuni sindacati, lo strumento dello sciopero generale e la sua legittimità simbolica. Il punto attorno a cui ruota il dibattito pare essere proprio questo: quando lo sciopero assume la forma di una manifestazione, cioè quando a mobilitarsi non sono principalmente i lavoratori ma la società civile, la sua legittimità sociale può essere messa in discussione. Diventa facile per i critici — dai giornali d’area ai partiti pronti a dare lezioni di rappresentanza — accusare il sindacato di uso strumentale dello sciopero. Soprattutto se l’adesione dei lavoratori risulta modesta mentre le piazze sono piene.

È probabile che questa preoccupazione sia presente anche nella stessa CGIL. Nell’intervista pubblicata oggi su Repubblica, Landini ha tenuto a precisare che durante lo sciopero di venerdì scorso i cittadini abbiano chiesto «un miglioramento delle condizioni del lavoro e la rinuncia alla logica del riarmo, perché le due cose stanno assieme», quasi a voler riaffermare la legittimità della mobilitazione nel quadro più ampio della missione sindacale. Del resto, la CGIL ha già indetto un altro sciopero generale da “tutelare”: quello per il 25 ottobre, contro la manovra economica del governo, annunciato lo scorso 16 settembre durante la stessa conferenza stampa in cui era stata proclamata la prima astensione di quattro ore “per Gaza” — poi oscurata dal successivo sciopero dell’USB.

Ne emerge un quadro frammentato, in cui le iniziative si rincorrono e la comunicazione tenta di spiegare, spesso a fatica, una logica di azione. È il segno di una fase di incertezza strategica: i sindacati oscillano tra la necessità di reagire con tempestività agli eventi e quella di preservare la coerenza e la forza simbolica dei propri strumenti di azione. In questo contesto, la CGIL avrebbe potuto — almeno in linea di principio — resistere alla tentazione di seguire l’USB sullo sciopero di venerdì 3 ottobre e proporre una manifestazione di sabato, unendosi alla piazza romana. Avrebbe così evitato le critiche di chi la accusa di politicizzazione, senza rinunciare a esprimere una posizione netta.

Va detto che gli eventi si susseguono con una velocità che rende difficile qualsiasi pianificazione. La mobilitazione a Roma del 4 ottobre, la terza in pochi giorni – pur con la successiva adesione di associazioni e movimenti più strutturati – è stata organizzata dal Movimento studenti palestinesi in Italia, l’Associazione dei Palestinesi in Italia (API), i Giovani Palestinesi in Italia (GPI), l’Unione democratica arabo-palestinese e dalla Comunità Palestinese d’Italia, movimenti spesso fuori dai canali tradizionali della rappresentanza. Ma proprio per questo, i sindacati dovranno dotarsi di una strategia chiara, che consenta di scegliere quando e come mobilitarsi, valutando tutte le conseguenze e dunque agendo con intenzionalità e chiarezza di intenti. 

Francesco Nespoli

Ricercatore Università di Roma LUMSA

ADAPT Senior Fellow

X@Franznespoli

Maria Carlotta Filipozzi

ADAPT Junior Fellow

X@MCFilipozzi