Rifiuto del trasferimento e conseguente licenziamento: i confini dell’inadempimento nell’ambito del contratto di lavoro subordinato (commento a Cassazione n. 11180/2019)

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Bollettino ADAPT 27 maggio 2019, n. 20

 

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11180 del 23 aprile 2019, fornisce importanti chiarimenti in ordine al rifiuto del trasferimento da parte del lavoratore e alla rilevanza disciplinare di tale condotta sotto il profilo della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento.

La pronuncia in commento, seppur supportata da plurimi precedenti conformi, si colloca nel solco di una giurisprudenza ondivaga sul punto e ciò in ragione delle diverse interpretazioni del dettato codicistico in tema di eccezione di inadempimento nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, le cui peculiarità possono apparire tali da determinare una alterazione del sinallagma tra le prestazioni in capo al datore di lavoro, da un lato, ed al lavoratore, dall’altro.

 

Nel caso di specie la Suprema Corte è stata adita dalla società datrice di lavoro al fine di ottenere la riforma della sentenza della Corte d’appello di Roma che aveva dichiarato, in riforma della pronuncia di primo grado, l’illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogato in ragione dell’assenza ingiustificata della lavoratrice, conseguente al rifiuto della medesima rispetto al trasferimento presso altra sede della società. La vicenda, più in particolare, traeva origine dalla riammissione in servizio della dipendente per effetto di altro contenzioso avente ad oggetto la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, riammissione a cui era seguito l’immediato trasferimento presso altra sede di lavoro.

 

La Corte di merito, rilevata l’illegittimità del trasferimento (ravvisando l’assenza di idonee ragioni tecniche, organizzative e produttive a supporto del provvedimento), riteneva così legittimo il rifiuto della lavoratrice a prendere servizio presso la sede lavorativa di destinazione, quale condotta idonea ad integrare i presupposti per l’operatività dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. e, per l’effetto, annullava il licenziamento.

 

Analogo percorso logico argomentativo è stato seguito dal giudice di legittimità, non prima di aver chiarito, considerate le peculiarità della vicenda, la portata dell’ordine giudiziale di riammissione in servizio in forza dell’accertamento della nullità del termine apposto al contratto. A tal proposito, chiarito che il ripristino del rapporto di lavoro debba avvenire mantenendo sede e mansioni originarie, l’eventuale successivo trasferimento è così da valutarsi alla luce dell’art. 2103 c.c., senza alcuna eccezione di sorta.

 

La Corte ha pertanto indagato in ordine alle ragioni sottese al disposto trasferimento, muovendo da una analisi in concreto del sussistere delle medesime, non ritenendo sufficiente, ai fini della prova incombente sul datore di lavoro, la produzione di documenti non suscettibili di puntuale riscontro nei fatti (nel caso in esame si trattava di un accordo sindacale afferente alle procedure da seguire nei processi di riequilibrio dell’organico per effetto delle riammissioni in servizio conseguenti alla conversione a tempo indeterminato di contratti a termine).

 

La Suprema Corte, valutata l’illegittimità del trasferimento, si è così occupata di stabilire la portata giuridica da attribuire al rifiuto del lavoratore a trasferirsi, aderendo alla prospettazione fornita dal giudice di secondo grado e così affermando che: «Non può dunque revocarsi in dubbio che il rifiuto di accettare il trasferimento in una sede diversa da quella originaria in assenza di ragioni obiettive che sorreggano detto provvedimento sia condotta inquadrabile in quella disciplinata dall’art. 1460 c.c.». Sotto tale profilo, dunque, la Corte non ha posto alcun distinguo tra le prestazioni in capo al datore e al prestatore di lavoro, invocando, anche nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, la necessaria ed essenziale sussistenza dell’equilibrio sinallagmatico nel rapporto, anche ove si dovesse trattare – diversamente dal caso di specie – di un’obbligazione del datore di lavoro di natura accessoria ma comunque di importanza rilevante al fine del mantenimento del predetto equilibrio.

 

Come anticipato, tale principio risulta difforme rispetto ad altro orientamento giurisprudenziale secondo cui, nell’ipotesi di trasferimento adottato in violazione dell’art. 2103 c.c., l’inadempimento datoriale non legittimerebbe in via automatica il rifiuto del lavoratore a rendere la prestazione lavorativa. Secondo detto orientamento, il provvedimento datoriale viziato sarebbe da ricondursi, invero, all’ambito dell’inadempimento parziale, sicché il rifiuto del lavoratore sarebbe da valutarsi alla luce dei principi della non contrarietà alla buona fede ai sensi dell’art. 1460 co. 2 c.c., rimettendo la relativa indagine al giudice, in base alle circostanze concrete del caso e secondo criteri interpretativi lungi dall’essere tipizzati.

Seppur anche nella sentenza in commento si accenni, sulla base delle eccezioni sollevate da parte datoriale, alla citata previsione di cui all’art. 1460 co. 2 c.c., l’argomento è stato scarsamente tenuto in considerazione dalla Corte e ciò non solo, a parere di scrive, per vizi di natura processuale, ma altresì per aver invocato un “imponente” onere probatorio in capo alla società ai fini della dimostrazione della mancanza di correttezza e buona fede da parte della lavoratrice.

 

In un simile contesto giurisprudenziale risulta quantomai opportuna una accurata valutazione da parte di entrambe le parti contrattuali in ordine alle iniziative da intraprendersi con riferimento all’esatto adempimento delle rispettive obbligazioni, vieppiù qualora si tratti di organizzazioni aziendali complesse, come nel caso oggetto di esame.

 

Sara Tiraboschi

Avvocato del Foro di Milano

 

Rifiuto del trasferimento e conseguente licenziamento: i confini dell’inadempimento nell’ambito del contratto di lavoro subordinato (commento a Cassazione n. 11180/2019)