Revoca del licenziamento oltre il termine di legge: qualche considerazione su una recente ordinanza della Corte di Cassazione
| di Antonio Tarzia
Bollettino ADAPT 27 ottobre 2025, n. 37
Nella vicenda in esame, oggetto della recente decisione della Suprema Corte (ordinanza del 7 ottobre 2025, n. 26954), una lavoratrice, licenziata per GMO con comunicazione del 21 febbraio 2022, aveva impugnato il provvedimento datoriale con comunicazione dell’11 marzo 2022 “in quanto illegittimo e/o nullo e/o inefficace”. Con successiva lettera del 31 marzo 2022 la stessa aveva informato il datore di lavoro del suo stato di gravidanza, comprovato da certificato medico.
La Società revocava il licenziamento della lavoratrice in quanto nullo ex art. 2 d.lgs. n. 23/2015 con lettera del 7 aprile 2022. Con altra comunicazione del 12 aprile 2022 invitava la lavoratrice a riprendere servizio.
A quanto si evince dalla ricostruzione dei fatti di causa, la lavoratrice non rispondeva (o forse rifiutava) l’invito a riprendere servizio; al ché la Società, in data 4 maggio 2022, intimava un nuovo licenziamento (il secondo in ordine temporale), questa volta per “assenza ingiustificata”.
La lavoratrice ricorreva al Giudice del Lavoro di Treviso, contestando l’efficacia e la tardività della revoca – in quanto adottata oltre il termine di 15 giorni dalla data del primo licenziamento – e la nullità del secondo licenziamento, asseritamente intimato in assenza di un rapporto di lavoro in corso tra le parti, in quanto risolto dalla stessa Società in data 21 febbraio 2022.
Il Tribunale di Treviso respingeva il ricorso della lavoratrice (si presume fondato sui motivi sopra indicati). Di diverso avviso, è stata invece la Corte d’Appello di Venezia la quale riformava la decisione del primo giudice affermando la tempestività dell’invito datoriale a riprendere servizio comunicato alla lavoratrice il 12 aprile 2022, in quanto “la generica formulazione dell’impugnazione (ndr: nella prassi giudiziaria utilizzata dalla gran parte degli avvocati lavoristi) non era suscettibile di far decorrere il termine per l’esercizio potestativo della revoca del licenziamento (che di fatto era) iniziato a decorrere solamente dalla lettera di integrazione dell’impugnazione del 31.3.2022, con cui la stessa informava il datore di lavoro dello stato di gravidanza”.
Ricorreva alla Suprema Corte la lavoratrice invocando i due motivi già sopra detti, entrambi riconducibili a vizi di violazione e falsa applicazione della legge, in particolare “per aver introdotto la Corte d’Appello nella sua decisione un requisito formale non richiesto dalla disposizione normativa e per aver erroneamente ritenuto sussistente l’esistenza di un rapporto di lavoro” con la lavoratrice al momento della intimazione del secondo licenziamento.
La Cassazione accoglieva entrambi i motivi, congiuntamente trattati per stretta connessione, motivando che per l’impugnazione del licenziamento “non si richiedono formule particolari essendo sufficiente […] qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnare” (e che) “il diritto di revoca ha natura potestativa, non richiede il consenso del lavoratore e consente la disapplicazione del regime sanzionatorio purché questo diritto sia esercitato entro il breve lasso di termine di 15 giorni dall’impugnazione del licenziamento”. Aggiunge infine la Suprema Corte che “oltre questo termine si riespandono i principi generali dell’ordinamento secondo i quali, nel rispetto dell’autonomia negoziale, la revoca del licenziamento presuppone l’accettazione del lavoratore”.
Sotto altro profilo, la Suprema Corte affermava che “non sussiste l’obbligo della gestante di comunicare lo stato di gravidanza” (e che ciò) “non confligge con l’onere di collaborazione dei lavoratori al fine di porre in grado il datore di lavoro di assumere le decisioni più opportune per la tutela della salute del benessere dei dipendenti”.
La decisione, chiara e lineare in punto di diritto, non offre tuttavia elementi sufficienti a chiarire (e comprendere) le motivazioni e le dinamiche del percorso (stragiudiziale e giudiziale) scelto dalle parti, che in ogni caso, verosimilmente, non avevano interesse a raggiungere (o quantomeno tentare) un accordo conciliativo. In tal modo si riapre la questione di merito, stante la rimessione del giudizio alla Corte d’Appello di Venezia, che dovrà nuovamente decidere il caso.
Sfugge il motivo per cui la lavoratrice, che verosimilmente non aveva interesse alla reintegrazione, non abbia optato per la richiesta alternativa delle 15 mensilità di retribuzione nei 15 giorni successivi all’invito del datore di lavoro a riprendere il servizio (ancorché ritenuto dalla stessa tardivo), essendo conclamata la nullità del licenziamento, intimato dalla Società durante il periodo di interdizione di legge e il suo diritto a richiederla.
Sfugge altresì la ragione, opposta e speculare alla prima, che ha (presumibilmente) indotto il datore di lavoro a non attendere la scadenza naturale dei 30 giorni dall’invito a riprendere servizio per dichiarare risolto ex lege il rapporto di lavoro ex art. 18, comma 10 L. n. 300/1970, ed abbia invece optato per un secondo licenziamento per giusta causa (l’assenza ingiustificata), del quale, peraltro, non è chiaro né specificato se preceduto da una regolare procedura disciplinare.
Sfugge ancora il perché la Società abbia scelto la strada del licenziamento per giusta causa, considerata l’incertezza interpretativa del CCNL sulla durata dell’assenza ingiustificata che giustifica il provvedimento espulsivo; che potrebbe in astratto indurre un giudice a considerare equa anche una sanzione conservativa, nonostante l’esplicita previsione del codice disciplinare (sul punto, Cass. 21 ottobre 2024, n. 27161).
Sul punto specifico va riconosciuta la correttezza della decisione della Suprema Corte: sia per la chiarezza delle norme di riferimento, che non offrono sponde interpretative diverse, sia per la conformità della decisione al dettato costituzionale, con particolare riferimento al diritto a difesa ed alla ragionevole durata del processo.
Sul punto, il Collegato Lavoro 2010 (L. n. 183/2010), risolvendo una vexata quaestio ben nota ai giuslavoristi, ha previsto due diversi termini decadenziali: il primo (60 giorni) per l’impugnazione del licenziamento, il secondo (180 giorni), per il deposito del ricorso in cancelleria. Detti termini bilanciano l’interesse delle parti ad un processo di rapida soluzione e lasciano uno spazio temporale ragionevole per esperire il tentativo di conciliazione, accettare e/o valutare l’eventuale offerta di conciliazione e, in caso di mancato accordo, predisporre un ricorso motivato che traduca i “fatti” (ed ovviamente i documenti e le informazioni) in “atti processuali” suffragabili da prove e sostenibili sul piano del diritto.
Appare comunque difficile valutare, nella vicenda in esame, quanto il comportamento di una delle parti abbia influito sulla decisione della Corte d’Appello di accedere alla tesi della non tardività dell’invito rivolto alla lavoratrice a riprendere il servizio. Il datore di lavoro infatti aveva manifestato la volontà di reintegrare la lavoratrice, e atteso un termine superiore ai 15 giorni prima di procedere al secondo licenziamento. Forse nel tentativo di poter ancora comporre la lite attraverso una conciliazione.
Assumendo l’ipotesi che la Società – a quanto si legge nell’ordinanza – fosse uno Studio Professionale ed applicasse il CCNL per i dipendenti degli Studi e delle attività Professionali sottoscritto da Confprofessioni, si rileva anzitutto che la lavoratrice non fosse tenuta neppure per disposizione contrattuale a comunicare al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza, obbligatoria solo per la fruizione del congedo di maternità (art. 110, punto 1 del CCNL citato) o per utilizzare permessi retribuiti per esami prenatali, accertamenti clinici o visite specialistiche (stesso articolo, punto 5).
Il medesimo CCNL, all’art. 108, prevede la sanzione economica della trattenuta della retribuzione per le giornate di assenza ingiustificate e fa rinvio al successivo art. 157 per la sanzione disciplinare da applicare al caso concreto.
Orbene, dal testo dell’art. 157 risulta che l’assenza ingiustificata dal lavoro rientra tra le cause di licenziamento per giusta causa ma non si indica una durata minima dell’assenza che legittima il provvedimento espulsivo.
Sotto altro profilo, l’art. 157 citato prevede la sanzione espulsiva anche per “grave violazione degli obblighi in materia di sicurezza”. Circostanza presa in considerazione dalla Suprema Corte, anche se sarebbe stato opportuno indagare se l’omessa comunicazione dello stato di gravidanza abbia (quantomeno potenzialmente) esposto la lavoratrice a rischi correlati alla mansione specifica, anche sulla base del DVR elaborato dal datore di lavoro.
La decisione della Suprema Corte appare ineccepibile sul piano formale e di diritto ma resta qualche perplessità sulla ricostruzione dei fatti (e dei tempi) di causa. Volendo infatti accedere alla tesi sostenuta dalla Corte d’Appello di Venezia sulla validità della decorrenza dell’invito a riprendere il servizio a far data dal 7 aprile 2022, il rapporto di lavoro non poteva considerarsi ancora estinto alla data del 4 maggio 2022, mancando ancora 3 giorni (dies ad quem) alla scadenza dei 30 giorni richiesti dall’art. 18, comma 10 della L. 300/1970 per la dichiarazione di risoluzione ipso iure del rapporto di lavoro.
Se ciò fosse vero, la Corte d’Appello avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per assenza ingiustificata, e non sulla nullità del primo licenziamento per decorrenza del termine di revoca. Specularmente, la Suprema Corte avrebbe affrontato un diverso giudizio, con esiti allo stato non prevedibili.
Ma di questo, forse, si parlerà nella prosecuzione del giudizio di appello.
Avvocato
ADAPT Professional Fellow
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