Quella del racconto dei dati sul lavoro è una battaglia infinta (e anche inutile)
| di Francesco Nespoli
Bollettino ADAPT 9 dicembre 2025, n. 43
La rassegna stampa di mercoledì 3 dicembre 2025 ha messo a disposizione una chiara dimostrazione di come i dati del mercato del lavoro continuino a essere rappresentati dai media italiani in base all’area politica di riferimento. O comunque rispetto all’atteggiamento preesistente verso il governo di turno. L’occasione è stata fornita dalla pubblicazione dei dati mensili Istat sull’occupazione: dati che gli addetti ai lavori trattano solitamente con cautela, conoscendone la suscettibilità a revisioni, ma che i giornali invece utilizzano con maggiore disinvoltura.
Tra i casi più evidenti vi è la divergenza tra i titoli de Il Tempo e Il Fatto Quotidiano: per il primo si registra un “record di giovani”, per il secondo il record riguarda soltanto gli over 50.
Eppure la scena è la stessa per tutti: i dati Istat dicono che siamo di fronte a un nuovo record del tasso di occupazione e che il mercato è trainato dai senior. Aumentano gli occupati in tutte le classi d’età tranne i 25-34enni (-30 mila su base mensile) e, su base annua, la crescita si concentra sugli over 50, anche depurando il cosiddetto effetto demografico (il fattore invecchiamento della popolazione).
Detto ciò, nessuno mente (almeno se si va oltre i titoli), ma tutti selezionano i dati più utili a sostenere una tesi. Un metodo consiste nel richiamare altri dati e allargare l’orizzonte temporale, ad esempio insistendo sul rallentamento del mercato del lavoro rispetto al triennio post-Covid (così, ad esempio, Il Fatto Quotidiano) o declinando il record dell’occupazione come “record di lavoro povero” (così Il Manifesto sulla base dei salari, ma, qualche settimana fa, anche Avvenire sulla base dei dati sulla povertà; si veda Riccardi, La Povertà non diminuisce e cronicizza, 31 ottobre 2025).
Altro metodo è invece quello di collegare direttamente i dati alle politiche. Smaccata in questo senso è la celebrazione da parte di Libero, La Verità, Secolo d’Italia, per i quali il “record occupazione” è merito del governo e delle sue politiche. Ma, in senso inverso, Il Fatto Quotidiano ha collegato la dinamica demografica alla legge Fornero e alla mancata abolizione promessa dal governo Meloni.
E’ sempre difficile dire dove si arresti la volontà di dare una rappresentazione della situazione che meglio si avvicini alla realtà e dove inizi la volontà di fornire un’interpretazione causale tendenziosa (farlo significa sempre fare un po’ il processo alle intenzioni). Ma il fatto che questi atteggiamenti costituiscano un vizio costante nel nostro Paese fa sempre venire nel lettore il dubbio che si tratti in fondo di partigianeria.
Perché, anche se era tempo che non si vedeva uno scontro interpretativo così aspro, le battaglie sui numeri del lavoro non finiscono mai, tanto da essere diventate esse stesse nuovamente oggetto di cronaca (si veda Roberto Ciccarelli, Salari, l’arido scontro sui numeri è politico, Il Manifesto 31 ottober 2025).
La situazione pare simile a quella del recente passato, in epoca Jobs Act, dove da un lato si affermava che, dopo la riforma, il numero di posti di lavoro a tempo determinato aumentasse, dall’altro che diminuisse (bastava variare il periodo di riferimento). Oppure si raggiungevano le due opposte conclusioni guardando ai dati di flusso (INPS e Comunicazioni obbligatorie del Ministero del lavoro) piuttosto che ai dati di stock (Istat). (Si veda, a riguardo, il Jobs Act, per un bilancio oltre “la guerra dei numeri”, di Francesco Seghezzi e Francesco Nespoli, Working Paper ADAPT n. 3).
Non era responsabilità solo dei partiti e degli organi di informazione, ma anche delle istituzioni. Tale confusione aveva infatti portato alla pubblicazione delle Note trimestrali congiunte su occupazione e mercato del lavoro diffuse dal Ministero del lavoro, dall’Istat, dall’INPS e dall’INAIL, secondo l’accordo del 22 dicembre 2015.
Lo sforzo richiesto (e forse la gelosia per i propri dati) ha fatto sì che le pubblicazioni congiunte siano terminate nel 2022, e la stessa confusione dilagante allora è riemersa a più riprese in questi anni. Ad esempio, di recente, commentando il rendiconto sociale 2024 dell’INPS, Repubblica si è concentrata sulle assunzioni affermando che su 8,1 milioni di nuovi contratti 6,5 milioni l’anno scorso erano a termine, pari all’80,4% del totale. Un dato che avrebbe smontato l’idea di una crescita occupazionale solida e strutturata. Ma il dato, chiaramente, sarebbe stato da comparare almeno con gli anni precedenti, visto che è fisiologico che gli avvii di rapporti di lavoro a termine siano più numerosi di quelli a tempo indeterminato.
Non è comunque detto che forme di comunicazione dei dati congiunte da parte delle istituzioni possano risolvere il problema. Anche se avessimo fonti integrate, resterebbero comunque i temi divisivi. Un esempio recente è quello del fiscal drag (l’effetto che si manifesta in un sistema di tassazione progressivo quando i redditi nominali crescono con i prezzi ma scaglioni e detrazioni restano fermi, assorbendo in parte l’aumento salariale se questo determina l’ingresso in scaglioni più alti).
Anche su questo terreno, lo scontro tra governo, sindacati e opposizioni è avvenuto a colpi di report. Secondo l’Ufficio Economico della CGIL, un reddito di 30 mila euro, che nel triennio precedente ha perso 636 euro, recupererà l’anno prossimo soltanto 40 euro. Secondo gli studi della BCE e dell’Osservatorio dei Conti Pubblici della Cattolica, invece, il fiscal drag sarebbe stato integralmente compensato da bonus e tagli del cuneo. E, se prendiamo le stime degli economisti comparse sui quotidiani, al variare del metodo di calcolo dell’ammontare “drenato”, le valutazioni vanno dai 12,2 miliardi ai 25 miliardi per il periodo 2019-2023.
Questa polivocità delle rappresentazioni finisce paradossalmente per risultare un danno per il cittadino ed è anche di dubbia efficacia dal punto di vista dello spostamento dei voti. Le posizioni in campo puntano infatti più a confermare identità e schieramenti che a modificare opinioni. Servono ad individuare un avversario e continuare a rappresentarlo come dannoso, anche se, come nel caso di specie, si tratta di un Governo che sul lavoro ha introdotto pochissime novità.
Il rischio in definitiva è quello di trascinare il confronto scientifico nell’agone politico ed erodere la fiducia non solo nella politica, ma anche nella ricerca economica e nelle istituzioni che la producono. Prevenire questo rischio è compito sia dell’informazione sia della divulgazione scientifica, ed è auspicabile non sacrificare l’equilibrio di rappresentazioni in chiaroscuro a favore delle semplificazioni fuorvianti.
Ricercatore Università LUMSA, ADAPT Research Fellow
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