Quando la spada di Damocle è la lente della giustizia: il rischio reputazionale delle indagini nella filiera degli appalti

Interventi ADAPT

| di Francesco Nespoli

Bollettino ADAPT 9 dicembre 205, n. 43

Gli scorsi giovedì 4 dicembre e venerdì 5 dicembre quasi tutti i quotidiani nazionali riportavano la notizia secondo cui la Procura di Milano ha ampliato le ormai note indagini sul caporalato nelle filiere della moda. Tredici marchi, citati uno a uno (Dolce&Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves saint laurent, Givenchy, Coccinelle, Adidas, Off-white, Alexander mcqueen), hanno ricevuto richieste di documentazione, audit, controlli e procedure di tracciabilità.

Che tanti quotidiani, tutti insieme, riportino la stessa notizia citando un numero così elevato di marchi rende evidente quale e quanta sia l’attenzione mediatica che accompagna queste iniziative della Procura di Milano. A prescindere dal profilo giuridico, tali iniziative sono dunque già molto efficaci sul piano comunicativo, perché per le aziende coinvolte l’improvvisa esposizione mediatica rappresenta un campanello d’allarme reputazionale, se non un vero e proprio rischio, indipendente dall’esito giudiziario.

Lo hanno notato anche vari osservatori sui quotidiani, nonché le associazioni datoriali; tra le quali due delle più importanti, Confindustria Moda e Confindustria Moda Accessori, hanno emesso una nota congiunta parlando di allarme per la “spettacolarizzazione mediatica” della lotta all’illegalità. Il fatto che la procura si sia mossa contestualmente su tredici aziende si configurerebbe cioè come un’azione indirizzata al sistema del tessile-moda-abbigliamento anziché rappresentare un’azione mirata verso marchi specifici, come successo in precedenza. 

A prescindere dalla portata di quest’ultima azione, le iniziative condotte dal pm Paolo Storati hanno avuto grande visibilità non solo perché hanno riguardato società molto note e importanti o perché in alcuni casi hanno avuto esiti eclatanti come l’amministrazione giudiziaria (provvedimento preventivo, solitamente adottato in situazioni particolarmente gravi). La visibilità è infatti anche dovuta alla informazioni fornite da parte della Procura. Informazioni che i giornali trovano negli atti giudiziari (in particolare nelle richieste di consegna della documentazione necessaria agli accertamenti).

Il fatto che la contesa si giocasse già sul piano mediatico oltre che su quello giuridico era stato reso evidente dalla risposta fornita da Tod’s, l’ultimo dei marchi entrati nel radar della procura, prima che l’operato della procura si estendesse ai marchi sopracitati. Come ha fatto notare  Il Manifesto (pur in chiave polemica), l’azienda si è mossa non solo nelle aule dei tribunali ma anche sul terreno delle relazioni pubbliche, «soffiando sul fuoco della supposta politicizzazione della magistratura». Il patron Diego Della Valle prima aveva organizzato, 10 ottobre, una conferenza stampa nella sede milanese dell’azienda, in Corso Venezia. In quell’occasione aveva appassionatamente invitato la Procura «ad avere una condotta meno superficiale quando si occupa delle realtà imprenditoriali del nostro Paese», aggiungendo che indagini di questo tipo rischiano di danneggiare enormemente il “made in Italy”.

Da notare che, in quel momento, la società non era ancora formalmente indagata. Le misure preventive, d’altronde, vengono disposte indipendentemente dall’accertamento definitivo del reato, perché servono a prevenirlo.

Poco dopo, davanti alla Cassazione, la Suprema Corte aveva respinto il ricorso di Storari per trattenere l’inchiesta a Milano anziché trasferirla a Macerata. La Procura aveva comunque avanzato una richiesta di misure incisive tra cui l’oscuramento pubblicitario del marchio. Un nuovo secco comunicato di Tod’s aveva allora replicato parlando di «sospetto tempismo», sottolineando la coincidenza della notizia con il rigetto del ricorso davanti alla Cassazione.

Proprio giovedì 5 dicembre, i giornali hanno però rivelato che l’azienda avrebbe presentato al pm un piano di rafforzamento dei controlli lungo l’intera filiera; mossa grazie alla quale l’udienza per decidere se imporre all’azienda il blocco per sei mesi della pubblicità e delle attività di marketing sarebbe stata rinviata al 23 febbraio.Anche altre aziende nella stessa situazione, ossia non indagate, si starebbero muovendo di conseguenza, seppure in modo più discreto. Era quanto risultava già da un’indagine del Post che evidenzia come molte case avrebbero introdotto controlli più stringenti sui fornitori, ispezioni a sorpresa, divieti di ulteriori subappalti, proprio per evitare ripercussioni negative sulla reputazione. Il Sole 24 Ore ha poi segnalato che 9 gruppi dei 13 coinvolti dall’ultima mossa della procura avrebbero già manifestato disponibilità a collaborare con gli inquirenti (Confindustria Moda: “La lotta all’illegalità non diventi spettacolo”», Giulia Crivelli e Sara Monaci, Il Sole 24 ore, 5 dicembre 2025).

Non si tratta però di un processo bilaterale. Alcune inchieste della Procura di Milano potrebbero essere nate seguendo l’attività di alcuni sindacati in alcuni distretti volta a contrattare la regolarizzazione di centinaia di lavoratori che prima lavoravano in condizioni di sfruttamento in aziende che riforniscono marchi più grandi con sede in zone di competenza della procura di Milano.

Si ricorderà inoltre che proprio sul tema della responsabilità del committente verteva uno dei referendum proposti dalla Cgil. Il nodo centrale resta infatti l’estrema difficoltà di attribuire responsabilità dirette ai marchi per quanto accade nelle filiere esternalizzate dato che gran parte della produzione viene affidata in appalto ad aziende più piccole sulle quali il committente non ha (o sostiene di non avere) un controllo effettivo.

I sindacati Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil hanno poi recentemente denunciato un emendamento approvato in Commissione Industria al Senato che, nell’ambito della legge annuale per le PM (ddl 2673, in discussione alla Camera il 22 dicembre) che prevede la “certificazione della filiera della moda”. Tale certificazione può essere utilizzata dalle società capofila (ossia dai grandi brand di moda) ai fini reputazioni prevedendo la loro esclusione della responsabilità amministrativa nel caso di irregolarità o sfruttamento nella filiera della moda.

Proprio in questo contesto, a ridosso dell’approvazione della legge per la “certificazione della filiera”, si è mossa la procura di Milano agendo contestualmente su 13 aziende (committenti o c.d. società “capofila”). Nonostante i loro sforzi, non sono dunque i sindacati, in questa fase, a usare più pesantemente la leva della comunicazione.  È la Procura che insiste sul piano reputazionale, anche attraverso misure come il possibile blocco della pubblicità: un intervento che, per un marchio del lusso, non incide tanto sulla capacità di vendita dei prodotti quanto sulla costruzione e il mantenimento dell’immagine e della notorietà del brand.

In sostanza, siamo di fronte a un caso di quelle che vengono chiamate litigation PR (le public relations della controversia giudiziaria). Ma solitamente sono le aziende o gli imputati a ricorrervi per mitigare gli effetti reputazionali. Qui pare avvenire il contrario. Le iniziative giudiziarie, gli atti diffusi, la visibilità dei provvedimenti e il ricorso a misure dall’elevato impatto simbolico (come il blocco della pubblicità) producono un mero rischio reputazionale immediato, che finisce per diventare una leva di pressione indiretta sul comportamento delle imprese.

Quanto poi le aziende abbiano scelto di intraprendere iniziative di contenimento, che pure non ritengono di loro responsabilità, per via dell’eventuale rischio di una amministrazione giudiziaria, o per via del fattore reputazionale, è difficile da capire. Perché dal punto di vista reputazionale collaborare – per quanto non dichiarato pubblicamente, ma filtrato verso il grande pubblico attraverso la stampa- costituisce una sorta di excusatio. E che questi effetti reputazionali possano poi avere una reale ricaduta sulle finanze dei marchi lo si vedrebbe col tempo, e dunque molto probabilmente non lo si vedrà affatto. Perché, correttamente, molti marchi si sono mossi per tempo per gestire i rischi, e dunque prevenire i danni.

Resta il fatto che non era mai stato così evidente che l’etica nella filiera della moda non riguardi soltanto l’ambiente (tema classico, visto che il fast fashion e la moda in generale sono energivori e spesso producono molti scarti) ma anche i rapporti di lavoro. Non solo per quanto riguarda ciò avviene in Paesi a basso costo di manodopera, ma anche per quanto succede nelle periferie del nostro Paese.

Francesco Nespoli

Ricercatore Università LUMSA, ADAPT Research Fellow

X@franznespoli