Politically (in)correct – Il reddito (di cittadinanza) del lavoro nero

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Dell’Ardima (la ditta della famiglia Di Maio) non si parla più dopo l’annuncio della sua messa in liquidazione da parte del vice premier Luigi Di Maio, che ne era comproprietario a sua insaputa.  Quel fatto ha quanto meno dimostrato che la falange grillina vive non solo “nel mondo”, ma appartiene anche “al mondo”; e ne condivide le contraddizioni. Ma tornando al punto,  ammesso e non concesso che Di Maio sia cascato dalle nuvole quando ha saputo delle assunzioni  irregolari effettuate dal  padre, quella vicenda – a lui così prossima – dovrebbe fargli comprendere che cosa potrebbe causare, nel Sud ma non solo, l’istituzione del reddito di cittadinanza, sulla base di regole secondo le quali l’erogazione dell’assegno diventa la priorità, mentre tutto il resto (la riforma dei Centri per l’impiego, l’organizzazione dei corsi di formazione e dei lavori socialmente utili, l’avviamento al lavoro, ecc.) è affidato ad un ottimismo un po’ spensierato della volontà, senza alcuna traccia, anche modesta, del pessimismo dell’intelligenza. Non solo il reddito di cittadinanza potrà convivere ed affiancare attività che si svolgono nel sommerso, ma potrà integrare forme di occupazione apparentemente regolari ma con retribuzioni inferiori alla soglia canonica. L’Anpal ha compiuto un monitoraggio sugli effetti di un contributo finanziario alle aziende della Campania per favorire nuove assunzioni a tempo indeterminato. Poco meno della metà dei casi segnalati risultavano essere – un evidente segnale sospetto – rapporti a part time.

 

Peraltro, sull’operazione reddito di cittadinanza vige un totale assenza di qualsiasi norma operativa nel disegno di legge di bilancio (come se bastasse la “tradizione orale” dei tempi di Omero). Secondo quanto indicato dal ministro, il parametro per decidere chi avrà diritto a ricevere il reddito di cittadinanza sarà l’Isee: i nove miliardi di euro stanziati dovrebbero essere dunque suddivisi tra i 2,5 milioni di famiglie con Isee inferiore ai 9.360 euro annui (questa è la soglia comunemente indicata). Ebbene, se così fosse il reddito di cittadinanza – secondo uno studio de Il Sole 24 Ore –  si tradurrebbe nell’erogazione di 293,95 euro mensili per famiglia. In base agli Isee presentati nel 2016, sono 469mila le famiglie con Isee uguale a zero. Pertanto, 4,4 miliardi su 9 miliardi andrebbero a coprire gli assegni mensili da erogare a questi nuclei più svantaggiati, che avranno diritto al contributo pieno. In pratica un quinto dei potenziali aventi diritto assorbirebbe circa la metà degli stanziamenti previsti dalla legge di bilancio. Per gli altri 2 milioni rimarrebbero 4,6 miliardi di euro: in questi casi l’importo medio mensile scenderebbe per la stragrande maggioranza dei beneficiari a 184,15 euro al mese.

 

Nel disegno di legge di bilancio, approvato dalla Camera e trasferito al Senato dove si annunciano grandi cambiamenti, vi sono poi, in materia di lavoro, diverse omissioni e commissioni. Quanto alle prime vi è la questione dei voucher. La loro sostanziale abrogazione per sottrarsi dal referendum della Cgil aveva determinato (per ammissione degli stessi sindacalisti) un maggior ricorso al lavoro nero. Nel contratto gialloverde era previsto il loro ripristino; ma alla fine si è tradotto in un modesto ritocco. Passando alle commissioni, i danni più seri li sta facendo il decreto dignità con la reintroduzione della causale dopo i primi 12 mesi di lavoro a termine. È in corso un ricambio dei dipendenti assunti a tempo determinato prima che scadano i 12 mesi. Tanto che i sindacati, per evitare questo turn over, spurio e indotto, si avvalgono del ‘’famigerato’’ articolo 8 voluto da Maurizio Sacconi (nella legge n.148/2011) che consente di derogare anche alle norme di legge mediante la contrattazione collettiva. Il bonus fiscale per le partite Iva (lo scampolo della flat tax) determinerà un interesse convergente del datore e del dipendente a trasformare il rapporto in una collaborazione (con apertura della partita Iva da parte del lavoratore). Aumenterà il lavoro nero degli stranieri in rapporto all’incremento della condizione di clandestinità indotta dal decreto sicurezza (un altro vergogna di questa fase). Quanto alle pensioni, se sarà introdotto un divieto di cumulo tra pensione e reddito per   un certo numero di anni, a carico di coloro che sceglieranno quota 100, è assolutamente immaginabile che molti di loro si “sommergeranno” anche perché saranno quasi tutti lavoratori maschi residenti al Nord dove il lavoro non manca. Infine, la via d’uscita anticipata determinerà dei problemi anche per quanto riguarda l’offerta di lavoro.

 

Pur ammesso che per ogni neo pensionato le aziende procedano ad una nuova assunzione (un processo che tutti ritengono impraticabile), se i 220 mila dipendenti privati se ne andassero subito in pensione con quota 100, è dubbio che vi sarebbero, in una banale logica di coorti demografiche, dei giovani pronti a prendere i loro posti, che così potrebbero essere coperti solo da altri lavoratori stranieri. Quanto ai pubblici dipendenti – a partire dai 4mila nuovi assunti, dalle Regioni, nei centri per l’impiego- come la metteranno i nostri con l’obbligo costituzionale di assumere per concorso? Il titolare del Lavoro è stato molto sbrigativo: ha parlato di sollecite procedure di selezione senza diffondersi sulle competenze che saranno richieste. Poi la sagra si arricchita di altre figure: a partire dall’assegnazione di un tutor ad ogni disoccupato con il compito di prenderlo in carico, di formarlo e di orientarlo verso un lavoro (e un’assunzione?). Ma non è finita qui: parlare di tutor è troppo poco. Ecco, allora, il ‘’Mississippi navigator’’, la figura professionale individuata dal governo italiano in collaborazione con l’Università del Mississippi e alla quale sarebbe affidata la presa in carico del disoccupato. Infine, capita che ad un sottosegretario leghista venga un dubbio palingenetico: ma questi Centri per l’impiego ce la faranno a reggere l’assalto dei postulanti? Così fa capolino la proposta di affidare la gestione del pacchetto reddito di cittadinanza all’Inps e all’Anpal.

 

Sempre per quanto riguarda il lavoro, la maggioranza, per dimostrare un alto livello di modernità, ha inserito una norma che consente alle lavoratrici di lavorare per tutti i nove mesi della gravidanza, posticipando l’intero periodo dopo la nascita. A chi scrive questo capovolgimento normativo non trova un’attendibile spiegazione. Anche la Cisl, che pure ha assunto una posizione più possibilista di quella della Cgil, ha sentito il dovere di mettere le mani avanti: “La flessibilità della scelta di rimanere o meno al lavoro negli ultimi mesi di gravidanza per poterne usufruirne con un periodo più prolungato dopo il parto – ha dichiarato Liliana Ocmin -, può essere una opportunità in più per le donne madri, ma bisogna vigilare che non ci siano abusi da parte dei medici e forme di pressione dei datori di lavoro sulle donne prima e dopo la gravidanza”. Tanto più in un Paese che ha combattuto le c.d. dimissioni in bianco – imponendo un percorso burocratico con tratti di eccesso di zelo nel caso di rapporto di lavoro – proprio per impedire alle aziende di sbarazzarsi delle dipendenti incinte, vista l’impossibilità di licenziarle. Quella presunta logica coercitiva che starebbe dietro ad un atto di dimissioni, non potrebbe essere presente anche nel caso di una dipendente che accetta di correre il rischio di partorire sul posto di lavoro? In questi anni si è estesa il più possibile – anche alle lavoratrici autonome e alle libere professioniste, la tutela della maternità; non mi sembra che abbia un senso intraprendere un cammino in direzione opposta. Probabilmente la materia, pure per quanto riguarda la tutela, merita un riesame, alla luce delle condizioni delle famiglie, delle innovazioni mediche e della strumentazione terapeutica; ma non è opportuno agire con emendamenti estemporanei.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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