Politically (in)correct – Verso la “nazionalizzazione” del salario

Bollettino ADAPT 20 giugno 2022, n. 24

 

Sono stato  segretario generale di chimici della Cgil, purtroppo per soli due anni, dal 1985 al 1987 e ho conosciuto da vicino la cultura delle relazioni industriali di quella categoria, anche perché, nonostante il breve periodo, ebbi l’opportunità di negoziare con Federchimica  il rinnovo contrattuale del 1986 e con Montedison il primo fondo pensione contrattuale, il Fiprem, che, osservando i contenuti del recente rinnovo, ritrovo ancora in vita e in buona salute, al top per quanto riguarda le adesioni. Ho quindi apprezzato il commento di Emmanuele Massagli in apertura del Bollettino speciale dedicato a questa esperienza sindacale. «Quello del settore chimico – ha scritto Massagli è un concreto e tangibile messaggio al legislatore e ai media: non occorrono nuove leggi per rinnovare i contratti nazionali e alzare i salari». Il messaggio, ovviamente, è rivolto anche al sindacato «nel suo interno», perché le sirene del ricorso a provvedimenti legislativi salvifici e risolutori delle difficoltà di questa «ora più buia» lusingano col loro canto anche gli inquilini dei piani nobili delle sedi confederali (in particolare di Cgil e Uil).

 

Per usare una definizione “senza riguardo” sulla situazione in atto è in corso una “nazionalizzazione” della retribuzione; la legge è divenuta l’ultimo rifugio di organizzazioni sindacali incapaci nel loro insieme di affrontare e risolvere i gravi problemi della fase attuale. Peraltro per Cgil e Uil (per la Cisl c’è ancora speranza) siamo in presenza di una sorta di ansia da prestazione, perché – il caso dei chimici lo dimostra (ma ci sarebbero anche tanti esempi) – il sindacato in Italia non è attaccato alla canna del gas e la situazione non è disperata. Si nota, tuttavia, (lo si vede anche nell’ultimo rapporto del Centro Studi della Confindustria) un progressivo logoramento del contesto macroeconomico in conseguenza soprattutto dai rincari dei prodotti energetici, alimentari, delle materie prime e dei servizi, in presenza di un tasso di inflazione in crescita e dell’incertezza sull’evoluzione della guerra in corso in Ucraina. Ma il sistema ancora tiene, sia pure con difficoltà. Sono significativi, soprattutto per dei sindacati, i dati sull’occupazione. Con riguardo al 1° trimestre 2022, l’Istat segnalava andamenti complessivamente positivi. Come se l’inversione del ciclo (rincari e conflitto) non fosse ancora avvertita dall’occupazione.

 

In termini tendenziali l’aumento dell’occupazione (+905 mila unità, +4,1% in un anno) coinvolgeva sia i dipendenti, a tempo indeterminato (+369 mila, +2,6%) e soprattutto a termine (+412 mila, +16,3%), sia gli indipendenti (+124 mila, +2,6%). In forte calo il numero di disoccupati (-415 mila in un anno, -16,0%) e quello degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-846 mila, -6,1% in un anno). L’aumento tendenziale dell’occupazione si rifletteva nella crescita del tasso di occupazione (+3,0 punti rispetto al primo trimestre 2021) che si associava alla diminuzione dei tassi di disoccupazione e di inattività (-1,9 e -2,0 punti, rispettivamente). Ad aprile, l’Istat segnalava che, dopo due mesi di forte crescita, il numero di occupati mostrava una lieve flessione, restando comunque superiore a 23 milioni. Nel confronto annuale con aprile 2021, la crescita del numero di occupati era pari a 670 mila unità: in oltre la metà dei casi si tratta di dipendenti a termine, la cui stima supera i 3 milioni 150 mila, il valore più alto dal 1977. Il tasso di occupazione rimaneva al 59,9%, il valore record registrato a marzo 2022; mentre quello di disoccupazione si attestava all’8,4%; il tasso di inattività, che saliva al 34,6%, restava sui livelli di prima della pandemia.

 

Questo scenario fa da sfondo, ma non giustifica quella tendenza che ho definito come nazionalizzazione della retribuzione. Col pretesto del “ce lo chiede l’Europa”, si fa strada all’interno della maggioranza l’idea di introdurre anche in Italia lo Smic (il salario minimo legale). In verità la proposta di direttiva, che sta per essere varata mediante le procedure di codecisione delle istituzioni comunitarie, non solo non impone degli obblighi, ma anche la sollecitazione a legiferare è rivolta ai Paesi dove i lavoratori si avvalgono di una copertura ad opera della contrattazione collettiva inferiore all’80% degli interessati; per fortuna non è il caso dell’Italia, per tanti motivi che si perdono nelle vicende dell’ultimo secolo. Prima del “serrate le file” impartito da Bruxelles, le confederazioni sindacali non vedevano di buon occhio una legge sul salario minimo, tanto che la delega prevista in proposito nel jobs act fu la sola a non trovare attuazione. Il loro obiettivo era quello di estendere erga omnes i contratti stipulati in proprio, anche a costo di passare sotto le forche caudine di una legge sulla rappresentanza (che sarebbe una violenza giuridica perpetrata contro il sistema di relazioni industriali vigente nel nostro Paese dal secondo dopoguerra, ed operante anche in mancanza di una legge ordinaria di attuazione dell’articolo 39 Cost.).

 

La svolta sindacale in tema di salario minimo legale nasconde una volpe sotto l’ascella: stabilire un livello retributivo obbligatorio che non si limiti a dare copertura ai settori che non ne hanno una adeguata nell’ambito dei loro rapporti di lavoro, ma che divenga la base per miglioramenti salariali generalizzati ed innesti un meccanismo semiautomatico di adeguamento delle retribuzioni all’inflazione, nelle mani del governo e quindi di un decisore che è più influenzabile e disponibile delle associazioni imprenditoriali. Non si rendono conto i “convertiti” allo Smic che la dinamica del salario minimo eroderebbe la funzione di “autorità salariale” dei sindacati, come a suo tempo l’indennità di contingenza (essendo una quota importante della retribuzione dipendente dalla legge). Siamo arrivati in questi mesi di crescente inflazione a vere e proprie erogazioni parasalariali: il caso dei 200 euro a favore dei percettori di redditi bassi. Ma la vera novità riguarda il conclamato taglio del cuneo fiscale e contributivo.

 

Ormai è chiaro che per fare un intervento importante non ci si può più limitare alla riduzione delle imposte, ma diventa necessario fiscalizzare quote crescenti di contribuzione sociale, alla faccia della santificazione del calcolo contributivo identificato come lo strenuo garante di una corrispettività tra contribuzione versata (a questo punto surrogata da supporti di finanza pubblica) ed importo della pensione. Il finanziamento del sistema pensionistico assumerebbe un prevalente profilo fiscale anche per quanto riguarda le prestazioni di natura e origine previdenziale. Ma c’è dell’altro. Si è forse dimenticato lo snaturamento del tfr che da strumento finanziato col criterio della capitalizzazione ancorché sulla base di criteri stabili dalla legge, è stato trasferito al regime della ripartizione? La legge prevede infatti che le quote di tfr “non optato” ovvero rimaste accantonate presso l’azienda di appartenenza del lavoratore, nell’ipotesi di un numero di dipendenti pari o superiore a 50, siano destinate al Fondo Tesoro, gestito dall’INPS, il quale – ecco il nuovo criterio di finanziamento a ripartizione – incassa le risorse anno per anno e fa fronte ai relativi pagamenti; l’avanzo è destinato alla spesa corrente dello Stato. Osserviamo allora l’effettiva allocazione nel Fondo Tesoro dell’ammontare di un rateo annuo di TFR. Secondo l’ultimo Rapporto della Covip il flusso complessivo di tfr che nel 2021 è stato generato nel sistema produttivo può essere stimato in circa 28,7 miliardi di euro; di questi, 15,8 miliardi sono rimasti accantonati presso le aziende, 7 miliardi versati alle forme di previdenza complementare e 6 miliardi destinati al Fondo Tesoro. Dall’avvio della riforma, su 376,4 miliardi di tfr, 208,2 miliardi (il 55,3 % del totale) sono rimasti in azienda; 86,1 miliardi (il 22,9 % del totale) sono confluiti nel Fondo Tesoro.

 

Per riassumere: oltre alle erogazioni continuative (come gli 80 euro mensili del governo Renzi) o una tantum (a cui sta pensando il governo Draghi) nell’eventualità dell’introduzione dello smic una quota consistente della retribuzione sarebbe devoluta alla legge. Sul fronte del costo del lavoro, in aggiunta alla riforma della Cig ormai divenuta un’assicurazione obbligatoria, è plausibile che si vada verso una crescente fiscalizzazione del prelievo contributivo, allo scopo di ridurre il cuneo; ciò, con evidente sconfessione dei “separatori” tra previdenza e assistenza, giacché anche la prima finirebbe, come la seconda, a carico della legge, sia pure solo in parte. Come si dice nella nuova versione del «Padre nostro» auguriamoci che l’Onnipotente “allontani da noi le tentazioni” (a noi da bambini avevano insegnato “non ci indurre in tentazioni”; si vede che non era più politicamente corretto) di varare una legge sulla rappresentanza, che, “nazionalizzi” anche le organizzazioni sindacali in barba al fondamentale comma 1 dell’articolo 39 Cost.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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