Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Pensioni: se la Consulta bombarda il quartier generale

Nella sentenza n. 30/2015 (in tema di rivalutazione automatica delle pensioni) la Consulta ha applicato il principio del fondamentalismo giurisdizionale: “crolli il mondo purché si faccia giustizia”.
 
Il provvedimento, infatti, è discutibile fino a ritenere che la Corte Costituzionale sia andata oltre il suo ruolo istituzionale, pronunciandosi su di una questione squisitamente politica come è il criterio dell’adeguatezza delle prestazioni previdenziali indicato dall’art. 38 della Carta.
 
Il contenuto dei diritti sociali ai cittadini non può prescindere dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica. Nel caso della previdenza, ai sensi dell’art. 38 sono riconosciuti ai lavoratori le classiche prestazioni previdenziali in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Al verificarsi di questi eventi lo Stato deve assicurare mezzi adeguati. Il concetto di adeguatezza è ben chiaro: sta a significare un trattamento superiore all’idea di minimo vitale (evocato dall’aggettivo “necessari” indicato, nel comma 1 dell’articolo, per le fattispecie assistenziali), ma comunque compatibile con le risorse disponibili.
 
Le prestazioni assistenziali indicate spettano al cittadino, purché inabile al lavoro (e quindi impossibilitato ad accedere al principale requisito della cittadinanza sociale) e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere. Ma il legame con il contesto socio-economico è comunque evidente. Che cosa succederebbe, altrimenti, se un giorno la Consulta sentenziasse che il livello della pensione minima o dell’assegno sociale è inadeguato? O che la retribuzione dei pubblici dipendenti, bloccata da anni di mancati rinnovi, non è più proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro svolto e non più sufficiente a garantire una vita dignitosa come prescrive l’art. 36 Cost.?
 
Non a caso vi è una giurisprudenza, consolidata da decenni, che riconosce queste caratteristiche nei minimi tabellari previsti dalla contrattazione collettiva. Inoltre, non è consentito ad un organo giurisdizionale di condizionare, in maniera così vincolante, le risorse disponibili, imponendo il loro trasferimento – ad esempio – sulle pensioni, anziché sull’occupazione, senza tener conto che i pensionati si sono potuti avvalere, durante la crisi, di standard di sicurezza, anche economica, difficilmente riscontrabili in altre categorie sociali. Altre volte, in casi analoghi, la Consulta, pur facendo le sue valutazioni sulla legittimità di una norma di legge, invitava il legislatore ad intervenire per correggere quella disposizione secondo le indicazioni della sentenza, precisando nel contempo che, ove non si fosse provveduto, la Corte – nuovamente investita della questione – ne avrebbe dichiarato l’illegittimità. Questa sarebbe stata la via corretta da seguire anche nella vicenda in esame.
 
Come se non bastassero le perplessità, dal Palazzo della Consulta sono filtrate delle indiscrezioni. Pare che la votazione si sia svolta con sei giudici favorevoli e sei contrari. E che abbia prevalso il voto doppio del Presidente. Se si fosse trattata di una riunione di condominio, con il rinnovo del contratto per la pulizia delle scale all’ordine del giorno, l’amministratore, in presenza di una divisione così netta dell’assemblea, avrebbe suggerito di prendersi tutti una pausa di riflessione e rinviato l’argomento ad una seduta successiva. Se non corretti in tempo (vedremo come) gli effetti di questa sentenza potrebbero essere devastanti per le finanze pubbliche nel lungo periodo (se si pensa ai possibili trascinamenti) e, comunque, qualunque tentativo opportunamente adottato dal Governo sul versante di un’auspicabile ed opportuna sostenibilità, produrrà effetti sui conti pubblici, anche nell’immediato, a partire dal Def ora all’esame della Ue. Risibile appare, poi, la considerazione per cui non sarebbe stato sufficientemente motivato il provvedimento del Governo Monti con riferimento «alla contingente situazione finanziaria» come se nel Palazzo della Consulta non ricordassero più che, nel novembre 2001, l’Italia, sull’orlo della bancarotta, rischiava addirittura di non pagare né le pensioni né gli stipendi dei dipendenti pubblici.
 
Tutto ciò premesso veniamo ai contenuti di una sentenza controversa. La vicenda è arcinota, ma vogliamo richiamarne il dispositivo nel passaggio cruciale: la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento». Ciò significa che il comma 25 non viene cassato nella sua interezza (nella linea seguente della sentenza i “giudici delle leggi” dichiarano inammissibile un ricorso in tal senso).
 
Il Governo non deve farsi intrappolare da questa discutibile sentenza della Consulta. Esistono dei margini di iniziativa. Innanzi tutto, occorre interpretare correttamente le motivazioni della sentenza. Come risulta dal dispositivo, la Corte non ha ritenuto illegittimo l’intervento in sé (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto la sua stessa giurisprudenza in materia), ma i suoi criteri e modalità. È bene ricordare, infatti, che nella legge finanziaria per il 2008 il Governo Prodi, nel quadro dell’attuazione del Protocollo sul Welfare del 2007, tagliò per un anno la perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore ad otto volte il minimo (allora circa 3,5 mila euro mensili lordi), per l’ammontare di 1,4 miliardi, al solo scopo di compensare la correzione dello “scalone” introdotto nella legge Maroni. Vennero presentati (peraltro dalle stesse associazioni di dirigenti che hanno presentato anche questi ultimi) dei ricorsi che la Consulta bocciò. Ora, ad avviso della Corte, il caso del 2011 presenta profili differenti, perché la misura contenuta nel decreto SalvaItalia interveniva – in modo permanente – su trattamenti medio-bassi, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza (nonché i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza).
 
Come può il giovane caudillo uscire dal cul de sac in cui lo ha infilato proprio la relatrice Silvana Sciarra, da lui proposta come componente della Corte? Se il Governo, con un provvedimento d’urgenza, rimodulasse il taglio, magari portandolo a livello di cinque volte l’importo del minimo, ridurrebbe l’ammontare da restituire ai pensionati. L’altra operazione da compiere potrebbe essere quella di una rateizzazione in un certo numero di anni. Se un’operazione siffatta tornasse all’esame della Consulta, essa dovrebbe pronunciarsi ex novo e potrebbe anche riconoscere più equo, e quindi ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, il nuovo intervento. Si tenga presente che la restituzione della rivalutazione non è un fatto automatico.
 
Gli interessati, in mancanza di una soluzione e della relativa copertura finanziaria, dovrebbero citare l’Inps in giudizio; salvo il caso, peraltro problematico, macchinoso e praticamente teorico, di una class action (il sarchiapone del nostro ordinamento giuridico), come stanno ipotizzando le associazioni dei consumatori “un po’ per celia, un po’ per non morir”. Insomma, nessuno si illuda di avere già in tasca quelle risorse o di potersene avvalere come misura di rilancio del mercato interno. Soprattutto, alla luce della sentenza della Corte, il “Trio Lescano” (Tito Boeri, Giuliano Poletti e Filippo Taddei) non creda di poter perseguire il disegno perverso di applicare retroattivamente il calcolo contributivo alle pensioni retributive più elevate.
 
L’aria che tira non è bella. Il Governo esclude una manovra di bilancio e lascia intendere che le risorse necessarie alla copertura finanziaria (magari di un’operazione di aggiustamento parziale e con criteri di gradualità) saranno reperite all’interno del sistema previdenziale. Torna, quindi, ad emergere l’idea di rideterminare, con il calcolo contributivo, i trattamenti più elevati liquidati con il metodo retributivo, sempre che il loro importo non sia “giustificato” dai versamenti effettuati. Ma un’operazione siffatta sarebbe ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale? Riteniamo di no. Le pensioni retributive non sono “profitti di regime”, ma prestazioni erogate secondo le norme di legge in vigore, sia pure con modifiche, dal 1969.
 
I sostenitori di questa tesi partono dal presupposto che il sistema retributivo abbia in sé una “rendita di posizione” non meritevole di tutela. Ma se così è, il “crucifige” dovrebbe operare sul 90% delle posizioni in essere e non solo a carico di quelle più elevate, le quali, per altro, sono state penalizzate sia sul piano dei rendimenti che su quello della retribuzione pensionabile e contributiva. Nel sistema retributivo, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno di servizio fino a 45 mila euro di stipendio. Per le quote eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente ora fino allo 0,50%. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più sono sottoposti a prelievo, ma “non fanno” anzianità. Nel regime contributivo, invece, contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato.
 
I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale attualmente di circa 100 mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile). Se qualche “populista in doppiopetto” intende, allora, dare corso ad una laboriosa operazione di ricalcolo (per la quale mancano pure i dati di riferimento) dovrebbe tenere in considerazione anche i “pro”, non solo i “contro”.
 
Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus Novedrate

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