Politically (in)correct – Pensioni nel pubblico impiego: si va ad una “guerra per errore” o il governo fa sul serio?

Bollettino ADAPT 6 novembre 2023, n. 38

 

Il disegno di legge di bilancio inizia il suo iter al Senato. Il governo ne difende l’impostazione e, fidandosi delle mediazioni all’interno della maggioranza, ha invitato i gruppi della coalizione a non presentare emendamenti. Poi, con un mix di stupore e di spavento per aver osato tanto e di fronte a reazioni che potrebbero creare grossi problemi di funzionalità in settori delicati (mi riferisco al caso dei medici, non alla minaccia di scioperi generali di Cgil e Uil), il governo, tramite il sottosegretario Claudio Durigon, ha già avanzato l’ipotesi di un maxi-emendamento.

 

In generale gli osservatori hanno sottolineato un’impostazione diversa da un recente passato in materia di pensioni. Strada facendo il regime delle quote si è trasformato da una “via di fuga” agevolata (quota 100) ad un meccanismo pensato apposta per frenare quel flusso di pensioni anticipate che all’inizio della storia doveva servire per liberare dal lavoro gli anziani/giovani e aprire le porte delle aziende a legioni di giovani. Sappiamo che le cose non sono andate come era stato preventivato e che alla fine del triennio di sperimentazione si è reso necessario affidare alle quote (prima 102 poi 103) una funzione-ponte prima del rientro nei binari tracciati dalla riforma Fornero.

 

Nel ddl di bilancio 2024 è significativa la manipolazione di quota 103 che si trasforma, in sostanza, in una disincentivazione dell’esodo anticipato. Per qualche ragione misteriosa, la maggioranza non è riuscita a trovare un accordo su quota 104 (63 anni di età + 41 di anzianità) ed ha preferito caricare di penalizzazioni quota 103 (calcolo contributivo e tetto all’importo della pensione) accompagnando l’operazione con un incentivo a restare. Chi opterà per questa soluzione potrà incamerare in busta paga il 9% dell’aliquota contributiva a suo carico. Per conferire un po’ di solennità a questa opzione hanno voluto intestarla al ministro (ora defunto) Roberto Maroni, dimenticando che il bonus previsto nella riforma del 2004, ammontava all’intera aliquota del 33% esentasse. Peraltro avendo tutti i lavoratori una parte dell’anzianità di servizio (almeno dal 1° gennaio 2012) calcolata col metodo contributivo sembra evidente che quel 9% immesso in busta paga inciderà sul montante contributivo al momento della pensione. Perché mai allora si è preferito mortificare quota 103 anziché passare a quota 104? È la solita logica che porta a scegliere un’uscita ad un’età inferiore a scapito di un maggior importo del trattamento come sarebbe avvenuto con un coefficiente di trasformazione legato ad una età anagrafica più elevata.

 

L’altro segnale del cambiamento di linea rispetto al pensionamento anticipato ha persino un aspetto di carattere strutturale. Il blocco a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e un anno in meno per le donne, a prescindere dall’età anagrafica dovrebbe cessare dal 1° gennaio 2025 anziché due anni dopo (come stabilito dal dl n.4/2019). Da quella data dovrebbe ripartire l’aggancio automatico, con cadenza biennale, all’incremento dell’attesa di vita, alla misura cioè che assicurava il maggior risparmio e che – per le generazioni del baby boom – finiva per determinare, nei fatti, un trattamento più favorevole rispetto al regime delle quote, in quanto l’assenza di qualunque requisito anagrafico consentiva a molti di loro, entrati presto e rimasti in modo continuativo nel mercato del lavoro, di presentarsi all’appuntamento con la quiescenza ad un’età inferiore di quella indicata  nelle quote.  Il che si verificava – lo abbiamo spiegato tante volte – per una banale circostanza: i due requisiti previsti nelle quota – entrambi essenziali – difficilmente venivano raggiunti contemporaneamente; pertanto se si doveva restare al lavoro per raggiungere uno di essi, aumentava automaticamente anche l’altro.

 

A cose fatte si è scoperto che il governo Meloni aveva scoperto un accorgimento – sopravvissuto all’armonizzazione dei trattamenti pensionistici dei dipendenti pubblici a quelli di privati – che ha consentito, a termini di legge, come del resto tutti i privilegi – di ottenere degli importi pensionistici più elevati. Il giochetto è difficile da capire e da spiegare e chiama in causa la definizione di quota A e di quota B che comportano criteri differenti di calcolo per le due parti che, sommate, andranno a formare la pensione.
 

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Scheda

La quota a corrisponde al prodotto fra la retribuzione annua contributiva alla cessazione per il coefficiente della tabella “a” allegata alla legge 965 del 1965 relativo agli anni ed ai mesi di anzianità al 31/12/1992.

Tale coefficiente varia da 0,23865 per 0 anni e 0 mesi a 1,00000 per 40 anni e 0 mesi.

La quota b è determinata moltiplicando la retribuzione media pensionabile per l’aliquota risultante dalla differenza tra l’aliquota corrispondente al servizio totale e l’aliquota già individuata al 31/12/92.

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Poiché le definizioni non aiutano a spiegare l’arcano, proviamo a cimentarci in proprio. Tutti i dipendenti pubblici hanno un vantaggio comune: l’anzianità fino al 31 dicembre 1992 viene calcolata con riferimento all’ultimo stipendio percepito prima della quiescenza. Ciò significa che se un lavoratore oltre a incassare uno stipendio più elevato per motivi fisiologici (come i rinnovi contrattuali) ha percorso un iter professionale in carriera (per esempio ha iniziato da medico ed è andato in pensione da primario) è quest’ultimo stipendio che vale per liquidare la quota A.

 

Per i lavoratori del pubblico impiego iscritti alle casse confluite, nel 1994 dal Tesoro all’ex Inpdap (poi all’Inps) le aliquote sono state in gran parte diverse e più generose rispetto a quelle vigenti nell’assicurazione generale obbligatoria. In particolare agli iscritti alle ex Casse di previdenza amministrate dal Tesoro (CPI, CPUG, CPS e CPDEL), cioè i maestri di scuole parificate, gli ufficiali e i coadiutori giudiziari, i dipendenti del comparto sanità e degli enti locali) si applicano per il calcolo previdenziale le aliquote di rendimento contenute nella tabella A allegata alla legge n. 965/1965. La quota A identifica, come abbiamo già scritto, quella parte di pensione, calcolata secondo il sistema retributivo, relativa alle anzianità contributive maturate dal lavoratore sino al 31 dicembre 1992, cioè prima dell’entrata in vigore della Legge Amato (Dlgs 503/1992) con la quale il legislatore ha cambiato le regole di calcolo della pensione retributiva.

La Tabella applicata prevede un’aliquota di partenza (piede) del 23,865% con un’anzianità zero. In pratica nei casi di invalidità, inabilità, premorienza il dipendente, o gli eredi, hanno diritto ad un trattamento pensionistico minimo del 23,865 % dell’ultimo stipendio, anche con un solo giorno di servizio. Viene poi prevista una crescita lenta per i primi anni, ma si raggiunge il 37,5 % con 15 anni di contribuzione. Con la tabella B dei dipendenti privati i rendimenti sarebbero comunque più bassi (15 x 2% = 30 %). Ma la curva si innalza, marcatamente, negli anni successivi arrivando anche ad una percentuale del 4 % per anno negli anni antecedenti i 40 anni di contribuzione, per garantire, infine, il 100% alla quota A al traguardo dei 40 anni di contribuzione a fronte dell’80% della tabella B (40 x 2% = 80 %).

 

Per farla breve è sufficiente avere un solo anno di versamenti prima del 1992 (magari recuperando un solo anno di università) per avere una maggiorazione di oltre il 20% della pensione maturata. L’articolo 33 del ddl di bilancio stabilisce invece che: “le pensioni liquidate, a decorrere dal 1° gennaio 2024, secondo il sistema retributivo per anzianità inferiori a 15 anni, sono calcolate con l’applicazione dell’aliquota prevista nella tabella di cui all’Allegato II alla presente legge”. Finisce la cuccagna? Non è facile spiegarla così. Nei giorni scorsi sono circolate casistiche di tutti i tipi per dimostrare le riduzioni che si determinerebbero sulla base dei nuovi criteri. Da questi confronti si comprendono le motivazioni che hanno portato i pubblici dipendenti a opporsi a una così evidente perdita previdenziale. I giuristi discuterebbero se si tratta di un danno emergente o – come credo – di un lucro cessante. Ma gli effetti sono comunque rilevanti; magari non sono tante le persone interessate, ma si faranno comunque sentire.  Intanto – massimo dell’onta per un settore della maggioranza – il governo si è sentito accusare di aver peggiorato la riforma Fornero. Sarà interessante vedere come finirà la vicenda: se si tratta di una “guerra per errore” destinata ad aggiustarsi nel maxiemendamento o se davvero il governo osa laddove nessuno ha osato mai.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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