Politically (in)correct – La «mano di Maradona», sul campo delle relazioni industriali

Bollettino ADAPT 5 dicembre 2022, n. 42

 

Il ministro Marina Elvira Calderone gode di una lunga esperienza e di una notevole preparazione. Poi le capacità di un ministro si vedono anche nella scelta dei collaboratori. Leggendo nel ddl di bilancio le norme attinenti alle politiche contrattuali e salariali, vi ho ritrovato non solo una “manina”, ma una “intelligenza strategica” a me nota. Se ne avessi delle prove concrete potrei anche fare dei nomi, ma mi accontento di tenere per me questa convinzione.

 

La linea sottesa alle proposte del governo Meloni in questa delicata materia è notevolmente diversa da quella che ha dominato la scena nel corso della precedente legislatura che può essere ricapitolata dalle dichiarazioni di Mario Draghi al Senato nell’ultimo discorso del 20 luglio, prima delle dimissioni. «Per quanto riguarda il salario minimo va presa a riferimento le direttiva europea» aveva affermato l’allora presidente del Consiglio. Ma lungo tutta la XVIII legislatura era rimbalzata da una maggioranza all’altra una serie di proposte delle organizzazioni sindacali che avevano trovato un sostegno particolare in una prima fase a livello parlamentare, per iniziativa (ai tempi della maggioranza giallo-verde) della presidente della Commissione Lavoro del Senato, Nunzia Catalfo, relatrice di un testo unificato nel quale veniva affrontata la questione della rappresentanza in  connessione con l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi e con l’istituzione di un salario minimo legale.

 

Il ddl Catalfo collegava il salario minimo direttamente all’articolo 36 della Costituzione, nel tentativo di sfuggire all’applicazione dell’articolo 39.  Recitava, infatti, l’art. 2: “Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 (che si riferiva all’articolo 36 Cost., ndr) il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (omissis), il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali”.

 

In sostanza, con un volo pindarico sul piano giuridico, il ddl che aveva preso in nome della senatrice pentastellata – prescindendo dall’articolo 39 Cost. – voleva attribuire efficacia erga omnesal trattamento economico complessivo” sancito nei contratti collettivi, attraverso l’applicazione dell’articolo 36. In più, stabiliva che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non potesse essere inferiore a 9 euro lordi. E’ questo il numero magico che ha continuato a vagare nel dibattito (con qualche correzione in più o in meno) fino ai giorni scorsi, quando la Camera si è pronunciata a maggioranza su di una linea politico-contrattuale molto differente. Va da sé che, approdata al Dicastero del Lavoro, nel Conte 2, quel pacchetto di proposte avevano assunto un’autorevolezza maggiore e avevano convinto i sindacati anche sul tema del salario minimo che, nel contesto di un sistema delle relazioni industriali in cui la rappresentanza e la rappresentatività vengono riconosciute in base a criteri definiti per legge, attribuendo di conseguenza un’efficacia erga omnes ai contratti stipulati da quei soggetti, in più con un salario minimo legale in forza del quale spiegò Nunzia Catalfo divenuta ministro: “una volta favorito il progressivo adeguamento dei parametri fissati dai contratti collettivi ai valori salariali stabiliti con l’introduzione del salario minimo orario, si determinerà, sul piano nazionale, un incremento generalizzato dei livelli retributivi. Ciò comporterà un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, accrescerà la dignità e il valore del lavoro prestato e consentirà di eliminare fenomeni di dumping salariale e di concorrenza sleale tra le imprese”.

 

A suo tempo l’ISTAT – in una memoria presentata in audizione – calcolò che i lavoratori per i quali l’innalzamento della retribuzione oraria minima a 9 euro (l’importo lordo ipotizzato) avrebbe comportato un incremento della retribuzione annuale erano 2,9 milioni ovvero circa il 21% del totale dei prestatori (2,4 milioni escludendo gli apprendisti). Per questi lavoratori l’incremento medio annuale sarebbe stato pari a circa € 1.073 pro-capite, con un incremento complessivo del monte salari stimato in circa 3,2 miliardi di euro. L’adeguamento al salario minimo di 9 euro lordi avrebbe determinato un incremento sulla retribuzione media annuale dello 0,9% per il totale dei rapporti e del 12,7% per quelli interessati dall’intervento. L’incremento percentuale più significativo avrebbe interessato i lavoratori occupati nelle altre attività di servizi (+8,8%), i giovani sotto i 29 anni (+3,2%) e gli apprendisti (+10%).

 

Il ministro Andrea Orlando, alcuni giorni prima delle dimissioni dell’esecutivo presieduto da Mario Draghi aveva dichiarato che il governo stava lavorando ad “un meccanismo che tenga insieme il valore positivo della contrattazione collettiva e l’esigenza di un salario minimo” per chi non beneficia della contrattazione o per chi ha contratti cosiddetti ‘pirata’. “L’ipotesi su cui lavoriamo, che ha raccolto un preliminare consenso – aveva aggiunto – riguarda la possibilità di usare come riferimento contratti più diffusi o firmati delle organizzazioni maggiormente rappresentative. Significherebbe legare il minimo salariale per comparto alla migliore e più diffusa contrattazione”. In sostanza, pane e companatico; c..o e camicia. L’impostazione che stava prevalendo richiedeva una complessa impalcatura normativa: una legge sulla rappresentanza, premessa della contrattazione ad efficacia generale, un salario minimo legale che non attentasse alla centralità del contratto nazionale di categoria, ma ne fosse il complemento e il sostegno. Sarebbe stato il trionfo della “dottrina Landini”. In verità Mario Draghi non aveva intenzione di infilarsi in un percorso legislativo tanto complesso. Il suo governo si sarebbe limitato al massimo a varare una forma di salario minimo; ma nel dibattito politico dominava l’idea della grande riforma delle relazioni industriali che aveva al suo centro il contratto collettivo nazionale, rafforzato dalla sua estensione erga omnes. Più recentemente c’era da aspettarsi, che nelle politiche dei sindacati, il contratto nazionale sarebbe tornato ancor più in auge nel campo delle relazioni industriali in conseguenza del ritorno improvviso dell’inflazione, il cui recupero – almeno come punto di riferimento – sulle retribuzioni è affidato alla contrattazione nazionale. Certo, in altri tempi si era fatto affidamento sul rapporto tra salari e produttività, sulla retribuzione di risultato, anche attraverso importanti agevolazioni fiscali che rendevano conveniente sia per le imprese che per i lavoratori la c.d. contrattazione di prossimità. Nelle intenzioni dei promotori, sarebbe stato questo nuovo modello di contrattazione a fornire una risposta alle esigenze di un maggior reddito, nel contesto di uno scambio con una migliore qualità del lavoro, laddove il risultato potesse essere misurato dall’acquisizione degli obiettivi stabiliti.

 

Il report del Ministero del Lavoro (marzo 2022) ha dato conto degli effetti delle norme di incentivazione di particolari forme retributive che innovano rispetto alla natura classica del rapporto di lavoro dipendente: quella di mettere a disposizione del datore il proprio tempo, per introdurre degli obiettivi e dei risultati nel sinallagma contrattuale. Le statistiche mostrano una sostanziale tenuta della contrattazione decentrata e di prossimità finalizzata a specifici obiettivi produttivi, misurabili attraverso il conseguimento del risultato. Può sembrare un paradosso; ma in questi dati troviamo la conferma della convinzione che, sul posto di lavoro, operino strutture sindacali più disponibili ed innovative di quelle nazionali, orientate a valorizzare, come abbiamo illustrato, livelli di contrattazione centralizzati. Ecco perché consideriamo una svolta importante (e inattesa) la linea di relazioni industriali che la maggioranza di centro destra ha votato alla Camera (la mozione a prima firma di Chiara Tenerini), approvata con 163 voti, mentre le opposizioni sono andate in ordine sparso a sostenere le loro mozioni. La questione posta al centro delle mozioni riguardava l’introduzione del salario minimo legale. La mozione Tenerini ha impegnato il governo “a raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori non con l’introduzione del salario minimo” ma attraverso altre iniziative di seguito indicate:

a) attivare percorsi interlocutori tra le parti non coinvolte nella contrattazione collettiva, con l’obiettivo di monitorare e comprendere, attraverso l’analisi puntuale dei dati, motivi e cause della non applicazione;

b) estendere l’efficacia dei contratti collettivi nazionali comparativamente più rappresentativi, avvalendosi dei dati emersi attraverso le indagini conoscitive preventivamente svolte a livello nazionale, alle categorie di lavoratori non comprese nella contrattazione nazionale;

c) avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale, che, soprattutto in certi ambiti, coinvolge un gran numero di lavoratori, alla luce della frequente aggiudicazione di gare che recano in loro seno il concetto della «migliore offerta economica»;

d) mettere in atto una serie di misure di competenza volte al contrasto dei cosiddetti contratti pirata in favore dell’applicazione più ampia dei contratti collettivi, con particolare riguardo alla contrattazione di secondo livello ed ai cosiddetti contratti di prossimità;

e) favorire l’apertura di un tavolo di confronto che assicuri il pieno coinvolgimento delle parti sociali e del mondo produttivo sul tema cruciale delle politiche finalizzate alla riduzione del costo del lavoro e all’abbattimento del cuneo fiscale, al fine di rilanciare lo sviluppo economico delle imprese, incrementare l’occupazione e la capacità di acquisto dei lavoratori;

f) porre in essere interventi e azioni volti a liberare risorse da altre voci della spesa pubblica per destinarle al mercato del lavoro e favorire l’occupazione che rappresenta il volano di crescita del nostro Paese, nonché implementare una serie di politiche attive volte a garantire una più veloce collocazione dei giovani nel mondo del lavoro (ad esempio, alternanza scuola lavoro).

 

Ad avviso di chi scrive si tratta di una linea molto innovativa (e diversa da quella fino ad ora dominante al limite del luogo comune) in materia di relazioni industriali che si accompagna a quanto disposto dall’articolo 15 del ddl di bilancio recante la riduzione dell’imposta sostitutiva applicabile ai premi di produttività dei lavoratori dipendenti. Tale aliquota, ora a livello del 10%, viene dimezzata sui premi di risultato di ammontare variabile e sulle somme erogate sotto forma di partecipazione agli utili dell’impresa, entro un limite di importo complessivo annuo di 3mila euro. Tale agevolazione è prevista a favore dei titolari di redditi di lavoro dipendente non superiore, nell’anno precedente quello di percezione delle somme, a 80mila euro.

 

Chi poteva aspettarsi da una maggioranza come quella che sostiene l’attuale governo la capacità di una visione del ruolo dell’autonomia contrattuale così definita, in un tempo in cui il sistema delle relazioni industriali rischiava di essere “nazionalizzato”, visto che si intensificavano gli interventi del legislatore a compensazione dei limiti delle parti sociali? E chi poteva immaginare che forze politiche autoproclamantesi serie, preparate e moderne si accodassero al conservatorismo dei sindacati, disposti a svendere un patrimonio di relazioni industriali pur di mettere al sicuro qualche prebenda?

 

Facendo il verso ad un film di (a mio avviso immeritato) successo, verrebbe da pensare che a scrivere quella mozione approvata dalla Camera sia stata “la mano di Maradona”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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