Politically (in)correct – Il mestiere del sindacato

Bollettino ADAPT 4 dicembre 2023, n. 42

 

Più volte mi è capitato di denunciare nel sindacalismo italiano: una profonda contraddizione difficile da capire e da spiegare. A livello di categoria, pure all’interno delle confederazioni  in preda a deliri populisti (non occorre fare nomi perché coloro che leggono questo Bollettino  sanno bene quali delle tre Grandi meritano questo appellativo e quale no), ci sono federazioni di categoria, strutture territoriali e di base nonché  rappresentanze sindacali aziendali  all’altezza delle nuove sfide, che  agiscono – nel loro impegno quotidiano – nell’ambito di relazioni industriali innovative impostate su di rapporti fisiologici e collaborativi con le controparti.

 

Siamo tutte persone di mondo e ne abbiamo fatte e viste di tutti i colori; ma io mi chiedo se possono appartenere al medesimo sindacato quei dirigenti che sottoscrivono il contratto integrativo aziendale alla Luxottica e quelli che hanno effettuato una campagna di scioperi generali dal 17 novembre al 1° dicembre contro una legge di bilancio che distribuiva le poche risorse prese in deficit in larga parte proprio ai lavoratori. Va bene, lo ammetto. Mi riferisco a punti di eccellenza che non fanno la regola, ma restano nel campo dell’eccezione: da un lato le Federazioni dei chimici, custodi di una grande tradizione riformista; dall’altro una multinazionale, dedita al mecenatismo, che si è sempre distinta per le politiche a favore dei propri dipendenti, grazie anche alle dimensioni dei suoi profitti. Ma senza volare troppo in alto, è sufficiente fare riferimento al recentissimo rinnovo del contratto dei bancari (ne parleremo di nuovo più avanti), nel contesto del dibattito malinconico sui c.d. extraprofitti.

 

Ricapitolando brevemente la vicenda in cui si inserisce la mia riflessione, Il governo Draghi (Dio lo abbia in gloria!) assillato dalle richieste di ristori e aiuti per le famiglie e le imprese in difficoltà a causa del susseguirsi delle crisi (dalla pandemia, alla guerra, all’energia, all’inflazione) aveva tentato la via della tassazione dei c.d. extraprofitti delle aziende energetiche, determinati dall’impennata, per vari motivi, dei prezzi sui mercati con ricaduta sulle bollette. La misura – parametrata sul 25% del surplus – si rivelò un fallimento (su di una previsione di 10miliardi di maggiori entrate si realizzarono solo 2,5 miliardi insieme ad una ridda di ricorsi alla Corte Costituzionale. Giorgia Meloni ci volle riprovare, proponendo – persino con un afflato moralistico contro i profitti ingiusti – la tassazione (una tantum) degli extra profitti degli Istituti di credito. L’imposta sarebbe dovuta intervenire sul margine d’interesse calcolato come la differenza tra tassi attivi applicati su circa 670 miliardi di depositi bancari remunerati con lo 0,32% e “impiegati” sotto forma di prestiti a famiglie e imprese, per un totale di 1.312 miliardi, con un tasso medio è pari al 4,25%.

 

La differenza tra i tassi “passivi” riconosciuti sui depositi e quelli “attivi” praticati sui finanziamenti – si disse – garantiva alle banche uno “spread” di 393 punti”. La misura dell’esecutivo, quindi, intendeva prendere di mira proprio il differenziale frutto delle politiche commerciali che si erano avvantaggiate dell’aumento del costo del denaro deciso dalla Banca centrale europea. Il prelievo era ipotizzato nella misura del 40% per una entrata (una tantum) intorno ai 3 miliardi. Vi furono immediate ripercussioni sui mercati finanziari, in tutta Europa, con un record negativo di Piazza Affari. I titoli bancari, che sostenevano i mercati, crollarono.

 

La misura ipotizzata dal governò sollevò critiche molto autorevoli e diffuse. Meloni, però, si era tolta la soddisfazione di lasciare a bocca aperta la sinistra politica e sindacale. Persino Maurizio Landini intervistato dal Corriere della Sera, si lasciò scappare un “bravo!’’. La Cgil, infatti,  invitò la premier – fino a quel momento accusata di ogni possibile malefatta –  ad andare avanti: “Adesso il Governo, dopo questo passo indietro rispetto al ridimensionamento dell’imposta sugli extraprofitti deciso nell’ultima legge di bilancio, non si fermi a un provvedimento estemporaneo, ma – proseguì il segretario della  Cgil – estenda la decisione assunta sulle Banche a tutte le imprese e i settori che stanno macinando risultati record, e riconsideri anche le recenti scelte fiscali tutte a vantaggio di imprese e profitti”. Per la confederazione guidata da Maurizio Landini “vanno chiamati tutti a contribuire in un momento in cui le fasce popolari del Paese sono in grande sofferenza a causa dell’inflazione, dell’aumento di mutui e affitti, dell’impennata del carrello della spesa e del costo dei carburanti”. “Per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse recuperate – aggiunse Landini – per la Cgil non ci sono dubbi: sono da destinare al sostegno di lavoro, salari, sanità e servizi pubblici’’.

 

In sostanza, da tempo la Cgil e la Uil portano avanti una linea di condotta secondo la quale la redistribuzione dei redditi deve avvenire per il tramite delle politiche pubbliche, innanzi tutto fiscali, ma non solo (si pensi anche al reddito di cittadinanza e al salario minimo). Che sia questa la <via maestra> e prioritaria emerge dal seguito dell’intervista dello stesso Landini, il quale, a un certo punto, si ricordava di essere un sindacalista ed invitava le banche a non approfittare strumentalmente della imposta annunciata dal governo per compromettere il confronto in corso per il rinnovo del contratto nazionale”. In seguito il governo, subissato dalle critiche, ha compiuto una netta inversione di marcia, fornendo agli Istituti di credito un’alternativa, rispetto al pagamento dell’imposta, che è stata scelta nella maggioranza dei casi.

 

Ma la Cgil non demorde. Infatti negli emendamenti presentati dalla Confederazione in Senato alla legge di bilancio è contenuta la proposta di un articolo 16 bis che –  al fine di garantire una tassazione equa e trasparente per le imprese che hanno ottenuto extra profitti da fattori esogeni – istituisca la “Commissione per la Valutazione degli Extra Profitti”, composta da un presidente, 6 membri nominati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, con competenze nelle aree fiscali, economiche e finanziarie e da 3 osservatori di nomina datoriale, sindacale e delle associazioni di consumatori. La Commissione avrà il compito di valutare annualmente i settori produttivi che hanno registrato extra profitti notevoli e identificare i fattori esogeni e le dinamiche congiunturali che hanno contribuito a tali profitti. La Commissione condurrà analisi dettagliate sull’impatto di tali fattori sull’economia nazionale e sulle imprese interessate e presenterà entro il 31 marzo di ogni anno una relazione al Parlamento, con valutazioni, raccomandazioni e risultati della sua attività.

 

Sulla base delle valutazioni effettuate, è stabilita una percentuale di tassazione aggiuntiva, non inferiore al 50% dell’importo totale, da applicare, nell’anno in corso, alla base imponibile costituita dall’extra profitto maturato dell’impresa. E’ questa la principale preoccupazione che deve avere un sindacato quando un’azienda migliora i suoi profitti? Preoccuparsi che paghi una tassa straordinaria? Oppure il suo mestiere è quello di rivendicare, per i dipendenti, miglioramenti normativi ed economici attraverso la contrattazione collettiva? Da noi si leva da tempo il “grido di dolore” per i bassi salari, a cui si è provveduto con misure di carattere fiscale, di decontribuzione, incentivi e trasferimenti monetari, ammortizzatori sociali.

 

I padroni sono defilati, vengono praticamente ignorati nei comizi, quando invece, nella dialettica fisiologica delle relazioni industriali, sarebbe normale per un sindacato avvalersi dell’occasione di extraprofitti per rivendicare aumenti extra di retribuzioni. Le federazioni dei lavoratori del credito (in prima linea la Fisac-Cgil) hanno scelto questa “via maestra” ottenendo nel rinnovo del contratto nazionale una riduzione di mezz’ora a parità di salario dell’orario di lavoro (a 37 ore) e un aumento medio a regime di 435 euro mensili di cui 250 euro dovrebbero arrivare già a dicembre. Sempre in dicembre ci saranno ulteriori 250 euro di aumento con la tredicesima e gli arretrati da luglio 2023 per un totale medio in busta paga di 1750 euro. Ecco dunque la domanda: quando e come il sindacato fa quello che dovrebbe essere il suo mestiere?

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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