Politically (in)correct – I sindacati sulla linea del contenimento dell’età pensionabile

Bollettino ADAPT 13 gennaio 2020, n. 2

 

Cgil, Cisl e Uil hanno reso noto, in termini generali, le proposte con cui andranno al confronto con il ministro Nunzia Catalfo e siederanno, con i loro rappresentati, ai tavoli tecnici che saranno convocati. I dirigenti sindacali sono persone competenti e sono in grado di usare questa loro prerogativa non a casaccio (come fece col dl n.4 del 2019 il governo Conti 1), ma per sfasciare la riforma Fornero in modo scientifico, senza porsi il problema di come finanziare un riordino assai più “generoso” ed irresponsabile di quello ereditato dalla passata legislatura, ad opera del governo Gentiloni (d’intesa con i sindacati stessi). L’aspetto più discutibile della piattaforma sindacale è quella (una sorta di “mal francese”) di arroccarsi nel contenimento dell’età pensionabile (a dispetto di scenari insostenibili per quanto riguarda l’aspettativa di vita, l’invecchiamento della popolazione combinato con il crollo della natalità).

 

La preoccupazione vera, al di là dei gargarismi sul futuro delle nuove generazioni, resta quella di tutelare i lavoratori (il maschile ha un significato specifico) che sono prossimi ad andare in quiescenza e che, per la loro storia lavorativa, possono disporre di una anzianità contributiva lunga, stabile e continuativa. In sostanza, se queste proposte saranno accolte, la fuoriuscita dal periodo di sperimentabilità (quota 100 fino a tutto il 2021 e blocco dei requisiti per il trattamento di anzianità a prescindere dall’età anagrafica – 42 anni e 10 mesi per gli uomini un anno in meno per le donne, fino a tutto il 2026) camminerà in retromarcia. Si andrebbe in pensione attraverso due canali: a partire da almeno 62 anni di età con almeno 20 anni di contributi oppure facendo valere 41 anni di versamenti in assenza di qualunque requisito anagrafico. Rimane il sistema misto: le quote regolate dal calcolo retributivo rimangono pro rata in quel regime. Per quanti continuassero a lavorare oltre l’età di 62 anni opererebbe una scala di coefficienti di trasformazione garanti di un importo più elevato dell’assegno. L’adeguamento automatico all’incremento dell’attesa di vita (la cui introduzione risale, sia pure limitatamente al requisito anagrafico, all’ultimo governo Berlusconi) sarebbe abolito, salvo operare – stando alle dichiarazioni di alcuni esponenti sindacali – a livello dei coefficienti. Sembra di capire, in sostanza, che a fronte di un incremento dell’attesa di vita non si chiederebbe di andare in pensione più tardi, ma, in proporzione, sarebbe corretto al ribasso il moltiplicatore. La solita storia: meglio andare in pensione, il più presto possibile, anche con un trattamento ridotto. Tanto prima o poi ci sarà una telecamera che raccoglierà il grido di dolore dei pensionati che percepiscono, suscitando il solito pubblico scandalo, assegni troppo modesti.

 

Alla luce di questa linea rivendicativa, pure Alberto Brambilla (a cui si attribuisce il ruolo di esperto della Lega anche se il patron di Itinerari previdenziali ragiona in autonomia sulla base della sua indiscutibile competenza) sembra divenuto un implacabile rigorista. In recenti articoli ed interviste Brambilla ha proposto lo schema seguente: per scongiurare il rischio-scalone, alla fine del 2021, quando avrà termine quota 100, sarebbe necessario un pensionamento agevolato a 64 anni di età, con adeguamento alla speranza di vita e facendo valere 37/38 anni di contributi. Quindi: quota 101 o, più probabilmente, 102 con calcolo interamente “contributivo” come nel caso di Opzione Donna. Inoltre sarebbero ammessi nella determinazione della anzianità, al massimo, due o tre anni di contribuzione figurativa; sarebbero poi istituiti dei fondi di solidarietà per anticipi fino a 5 anni. Quanto al trattamento anticipato, secondo Brambilla bisognerebbe bloccare ‘’l’anzianità contributiva a 42 anni e 10 mesi per i maschi e un anno in meno per le femmine, eliminando l’adeguamento alla speranza di vita”, con sconti contributivi per le madri pari a 8 mesi per ogni figlio, fino a un massimo di tre anni, e una riduzione di un quarto di anno per ogni anno lavorato prima dei 20 anni per i precoci.

 

Con tutta la stima per Alberto Brambilla chi scrive, leggendo le sue proposte, stava già cominciando a preoccuparsi. Adesso, dopo la sortita delle Confederazioni, temo che le cose andranno di male in peggio, per la sostenibilità del sistema pensionistico. Ad ulteriore conferma del fatto che il populismo politico è parente di quello sindacale.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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