Politically (in)correct – I licenziamenti non sono un’arma di lotta politica

Bollettino ADAPT 19 luglio 2021, n. 28

 

L’avviso comune sul superamento del blocco dei licenziamenti, sottoscritto dal governo (nelle persone del premier e del ministro del Lavoro) e dalle parti sociali il 30 giugno scorso, si è in breve trasformato in una sorta di Campionato delle barbe finte, a cui hanno preso parte su fronti opposti, sia i difensori che i critici dell’avviso stesso.  Prima di spiegare lo svolgimento di questo Festival dell’Ipocrisia, di questa competizione per ottenere il brevetto di inventori dell’acqua calda, è il caso di leggere le poche righe del testo. “Le parti sociali alla luce della soluzione proposta dal Governo sul superamento del blocco dei licenziamenti, si impegnano a raccomandare l’utilizzo degli ammortizzatori sociali che la legislazione vigente ed il decreto legge in approvazione prevedono in alternativa alla risoluzione dei rapporti di lavoro. Auspicano e si impegnano, sulla base di principi condivisi, ad una pronta e rapida conclusione della riforma degli ammortizzatori sociali, all’avvio delle politiche attive e dei processi di formazione permanente e continua”.

 

I sindacati hanno cercato di valorizzare questo gentlemen agreement – che in fondo indica criteri e modalità ordinariamente seguiti quando si affrontano problemi di esuberi – come contropartita della loro rinuncia ad un’ulteriore proroga del blocco. D’altra parte i critici dell’avviso comune (ce ne sono stati di autorevoli) hanno stigmatizzato il fatto che le imprese non fossero obbligate a seguire le procedure a cui generalmente si attengono nella generalità dei casi. Ma ciò che appare più inaccettabile per chi scrive è il tentativo di strumentalizzare alcune vertenze esplose o riesplose dopo il 1° luglio per farne un simbolo del ricorso a licenziamenti di massa da mesi preconizzati come effetto della cessazione del divieto. E quindi per ritenere il sistema delle imprese inadempiente rispetto agli impegni assunti. Un leader sindacale si è spinto fino a chiedere alla Confindustria di espellere le aziende che licenziano senza tentare prima ogni possibile alternativa. Purtroppo è caduto in questo equivoco anche Enrico Letta. Il segretario del Pd, parlando a Bologna durante il Festival di Repubblica, si è lasciato scappare una improvvida dichiarazione: “I 422 licenziamenti arrivati per mail ai dipendenti della GKN   sono inaccettabili. Era successo già alla Gianetti Ruote, in Brianza: 152 persone a casa. Se questo è l’andazzo, dobbiamo rivedere la norma del 30 giungo che pone fine al blocco selettivo dei licenziamenti’’.  Poi si aggiunta anche la Whirpool-Embraco che ha aperto la proceduta per il ricorso a licenziamenti collettivi.

 

I social e i talk show (quelli che non hanno ancora chiuso per ferie) si sono gettati su questi casi come se fossero l’inizio del diluvio universale che travolgerà tutto perché le aziende sono tornate libere di licenziare. Come se la gestione degli organici dovesse essere sottratto alle imprese e “collettivizzato”. Infatti sta circolando un’altra teoria: le imprese che non sono in crisi non dovrebbero licenziare. Qualche genio ha persino proposto di collegare il ricorso ai licenziamenti – in senso inverso ovviamente – ai ricavi, perché qualche azienda (vedi logistica, telecomunicazioni, filiera agro-alimentare) si è pure permessa di aumentare i profitti durante la crisi. Non vi è alcun dubbio: le multinazionali non guardano in faccia a nessuno; la loro politica industriale ha una dimensione mondiale (GKN vanta 27 stabilimenti) e non si ferma davanti alle delocalizzazioni.

 

Se fosse possibile occorrerebbe trovare delle soluzioni che sono comunque difficili in una logica di mercato (vedremo l’esito della minimum tax, se l’iniziativa arriverà in porto). Ma questa vicenda somiglia molto a quanto avvenne, anni or sono, a ridosso della crisi di Banca Etruria e di altri istituti locali. Per mesi non si parlò d’altro che se si fosse all’inizio del crollo del capitalismo sub specie del sistema bancario, messo sotto accusa persino con la costituzione di una Commissione di indagine parlamentare, fortunatamente presieduta da un senatore di buon senso come Pierferdinando Casini, che seppe evitare guai peggiori.  Nessuno ricordò che la raccolta complessiva di quegli istituti non arrivava all’1%. Mutatis mutandis, verrebbe da dire che in Paese che ha tentato in tutti i modi di chiudere l’ex Ilva e di cacciare la multinazionale acquirente, le consorelle potrebbero essere giustificate a nutrire qualche dubbio sulla permanenza in Italia; ma ovviamente condanniamo il loro atteggiamento e ci auguriamo che quelle vertenze trovino sbocchi positivi. Però è corretto ristabilire la verità. E lo facciamo con le parole del ministro Andrea Orlando nella intervista al Foglio, dove ha smentito le voci allarmistiche. “Allo stato attuale, in linea di massima, l’andamento (dei licenziamenti, ndr) non individua una dinamica particolarmente diversa da quella precedente alla pandemia”. Il ministro ha poi fornito considerazioni di grande buon senso. Innanzitutto – ha confermato Orlando – il blocco non ha mai impedito i licenziamenti per cessazione delle attività. Inoltre- ha aggiunto- la cassa Covid “è stata una specie di anestetico che ha rallentato alcuni orientamenti e alcune decisioni che probabilmente le imprese avevano già in mente”.  Poi dando sfoggio di una serietà ammirevole il ministro ha sconfessato le analisi fasulle di chi collega il caso delle nuove vertenze aperte allo sblocco dei licenziamenti. Whirpool-Embraco, Gkn, Gianetti ruote “sono aziende che scontano problemi pregressi”.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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