Politically (in)correct – Fabbrica Futuro, un saggio per ristabilire la verità

Bollettino ADAPT 18 novembre 2019, n. 41

 

Sarà pure un destino cinico e baro, ma nella storia delle relazioni industriali dal dopoguerra ad oggi i sindacati (tutti o taluni di essi) hanno imparato di più dalle sconfitte che dalle vittorie. Questa considerazione riguarda soprattutto la Cgil anche se non mancano (li vedremo) conflitti in cui “uniti si perde”.

 

Nei casi più clamorosi l’avversario, oggetto insieme di odio e amore da parte del sindacato, è sempre stato la Fiat. Dopo la sconfitta della Fiom nelle elezioni della Commissione interna nel 1955, la Cgil, con un’importante relazione di Giuseppe Di Vittorio nel Comitato direttivo, si sottopose ad una severa autocritica che portò l’organizzazione a superare la centralizzazione della contrattazione collettiva e ad adeguarsi alla contrattazione decentrata.  Nel 1980, dopo ben 35 giorni di sciopero ad oltranza, Cgil, Cisl e Uil capitolarono (a seguito alla manifestazione dei 40mila che rivendicavano la libertà di lavorare). La sconfitta fu pesante e fece capire ai sindacati l’errore di aver sottovalutato il permanente clima di conflittualità, disordinata e spontanea, presente negli stabilimenti e soprattutto di non aver tenuto conto che la crisi produttiva era un dato reale che non poteva non avere delle conseguenze sull’organizzazione del lavoro e sugli organici. Anche in quella circostanza i gruppi dirigenti rividero la loro linea di condotta, a partire dalla gestione del Piano di ristrutturazione del settore chimico.

 

Quattro anni dopo, la Cgil e il Pci persero – in due tempi: prima con la conversione del decreto Craxi, poi nel referendum abrogativo – la battaglia sull’indennità di contingenza, negando gli effetti, prodotti da quella voce retributiva, nel consolidamento e nel trasferimento, a livello dei salari, di un’inflazione a due cifre.

 

Ma la resa dei conti con la Fiat doveva sfociare in una vera e propria guerra a Pomigliano d’Arco, sul futuro di uno stabilimento acquistato dal gruppo torinese dall’Alfa Sud, e che fino a quel momento non era ancora stato in grado di sanare le stimmate dell’improduttività ereditata dallo stile proprio delle PPSS. Sergio Marchionne pose ai sindacati dei problemi reali: come trovare delle soluzioni concordate e condivise per combattere il ricorso anomalo allo sciopero e gli abusi nell’assenteismo (oltreché organizzare i turni di lavoro per una maggiore saturazione degli impianti). Non si trattava di mettere in discussione le prerogative dei lavoratori (i quali hanno il diritto primario alla salute, ma non quello di ottenere da un medico compiacente un certificato per una malattia inesistente o quello di scioperare per sottrarsi a turni di lavoro non graditi, ancorché conformi alle norme contrattuali). Sergio Marchionne voleva correggere le distorsioni e gli abusi dei diritti, affidandosi non già alla discrezionalità dell’azienda, ma alla valutazione di comitati paritetici istituiti dalla contrattazione collettiva.  La Fiat proponeva, dunque, un nuovo modello di relazioni industriali in un’area di frontiera, sfidando i sindacati a dimostrare che anche in Campania era possibile lavorare, non tanto come in Polonia, quanto come a Detroit e in Canada. Perché non poteva più essere consentito ad imprese, che devono competere sul mercato globale, di impiegare ingenti risorse nel mantenere dei posti di lavoro improduttivi per i quali la retribuzione è comunque pretesa, mentre la prestazione è soltanto probabile.

 

Contro Sergio Marchionne il ceo italo-canadese si schierarono tutti: governo, partiti, sindacati, grande stampa sedicente d’opinione, telegiornali di regime e compagnia cantante. Ci furono persino esponenti capaci e responsabili del Pd, pur favorevoli all’accordo, che dichiararono candidamente: “di intese così, si fa questa, poi basta”. Persino la Procura competente annunciò (minacciosamente?) di aver aperto un fascicolo: un atto che ricordava molto il “tintinnar di manette”, che, in seguito abbiamo visto ripresentarsi di nuovo nella tragica vicenda dell’ex Ilva di Taranto.

 

Ma, nonostante quest’atmosfera, nel giugno del 2010, l’accordo fu stipulato e sottoscritto dai sindacati con l’eccezione della Fiom allora diretta da Maurizio Landini. Fu sottoposto al voto dei lavoratori che lo approvarono in modo netto. Ma i nemici dell’accordo – che nel frattempo era stato esteso agli altri stabilimenti italiani del gruppo ormai multinazionale – non disarmarono. Non restava in campo solo un’irriducibile Fiom che non si arrendeva alla sconfitta (mentre la Cgil pur continuando a coprire la sua federazione di categoria, cominciava ad avere qualche dubbio).

 

Intorno a quell’accordo si consolidò un contesto pernicioso dove si diedero appuntamento tutte le cattive culture che affliggono tuttora il Paese. Una parte consistente dell’establishment mediatico e culturale seguì e commentò una delle più importanti iniziative di politica industriale come il salvataggio e il rilancio, a suon di nuovi investimenti, dello stabilimento Giambattista Vico riassumendola nel seguente interrogativo: è giusto rinunciare ai diritti in cambio di lavoro? Un’alternativa balzana come quella che all’ex Ilva vede contrapposti lavoro e salute quale scelta estrema tra il morire di fame o di cancro.  A Pomigliano, sulla base di una rappresentazione fasulla della realtà, i sindacati favorevoli all’intesa furono presentati come succubi del “padrone” e i lavoratori che avevano votato sì (al 63%) come i soliti replicanti del vizio italiano del “tengo famiglia”.

 

La “solfa” dei diritti (addirittura di rango costituzionale) calpestati mediante il “vile ricatto” del lavoro fu avallata, senza alcuna vergogna, da fior di giuslavoristi, quegli stessi che nelle Università preparavano e preparano gli operatori di domani. In particolare, si sostenne che l’accordo conculcava il diritto di sciopero, arrivando persino a teorizzare ex post che l’astensione dal lavoro è un diritto individuale indisponibile, inalienabile e assoluto. Il che è senz’altro convalidato dalla dottrina (si può discutere sull’indisponibilità), ma, in pratica, l’esercizio di tale diritto dovrà pure tener conto che un’azienda, per non saltare per aria, ha bisogno di normalità, collaborazione, fair play, certezze e continuità produttiva.

 

Sappiamo, poi, come finì l’intera vicenda: l’accordo di Pomigliano, clonato negli altri stabilimenti, divenne il contratto applicato al posto di quello nazionale dei metalmeccanici (la Fiat uscì da Federmeccanica e da Confindustria, ritenute incapaci di difendere i suoi interessi). Poi, la Fiat, trasformata in Fca, spiccò il volo sui mercati internazionali e fece parlare di sé come grande player del settore, fino all’ultimo accordo con Peugeot dopo la scomparsa di Sergio Marchionne, a cui nessuno chiese scusa per le contumelie e le critiche che gli erano state rivolte, né si complimentò per il successo dell’operazione dello stabilimento di Pomigliano (e dei suoi “fratelli”).

 

Si direbbe, quasi, che quella storia non sia più stata ripensata dal 2010 in poi. È rimasta la cronaca di una battaglia perduta dalla Fiom, ma (quasi) nessuno si è premurato di “raccontare” la nuova fabbrica, dove gli investimenti sono stati fatti, le tecnologie innovative introdotte, l’organizzazione del lavoro migliorata. Anzi, quando, nel loro ruolo di presidenti del Consiglio, Mario Monti, prima, Matteo Renzi, poi, accettarono l’invito di Marchionne e visitarono gli impianti, la cosa suscitò qualche battuta infelice. La vertenza di Pomigliano d’Arco doveva transitare ai posteri come una Gettysburg campana, dove il sindacato, quello vero, era stato sconfitto, la condizione operaia riportata indietro, i diritti calpestati e vilipesi.

 

A rompere questa cortina di silenzio, a svelare l’ostracismo per perpetrato nel corso di un decennio è venuto un libroFabbrica Futuro” scritto a due mani per Egea, da Marco Bentivogli, il leader della Fim-Cisl e uno dei protagonisti di quella svolta e da Diodato Pirone, giornalista de Il Messaggero, che ha passato tutto questo tempo ad interrogarsi sui motivi di tanta omertà nei confronti di uno stabilimento tra i più moderni, sicuri e produttivi d’Europa. La loro è una narrazione “revisionista” che passa in rassegna tutti gli stabilimenti italiani di Fca e che parte da una constatazione: il caso Pomigliano non è mai stato raccontato dal punto di vista del lavoro in fabbrica. L’incipit è suggestivo: ‘’Era il 13 dicembre del 2011, Santa Lucia. Con una conferenza stampa in fabbrica, veniva riaperto lo stabilimento di Pomigliano dal quale non usciva uno spillo dal 2007. Fu uno spartiacque, quel giorno. Segnò la nascita della nuova Mirafiori italiana. Fiat tornava a parlare al paese da una fabbrica”.

 

Bentivogli e Pirone non ignorano che qualcuno vedrà nel libro “un’ode a Fca e a Sergio Marchionne”. In realtà gli autori vogliono solo raccontare, come mai è stato fatto, “un case history che ha consentito, grazie allo spessore di Marchionne e al coraggio di una parte del sindacato e dei lavoratori, di sgretolare i due falsi miti per cui, per salvaguardare la manifattura in una economia matura, è inevitabile ridurre i salari e deteriorare le condizioni di lavoro. C’è ancora molto da fare, ma – ribadiscono gli autori – la realtà riscontrabile nelle fabbriche italiane di Fca prova il contrario’’.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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