Politically (in)correct – Chi ha rubato il 1° Maggio?

Bollettino ADAPT 8 maggio 2023, n. 17

 

Se volessimo spiegare con una metafora questo “maggio” di mobilitazione sindacale potremmo fare l’esempio di una importante azienda di salumi e insaccati (la ditta: Cgil-Cisl-Uil s.r.l.) che dopo un lungo lavoro di preparazione, di riorganizzazione dei propri cicli produttivi e dei centri vendita, condotto con impegno per buona parte del mese d’aprile,  aveva deciso di lanciare a maggio una grande campagna pubblicitaria basata su grandi fiere interregionali, a Bologna, a Milano e a Napoli, in occasione delle quali sarebbero state presentate all’opinione pubblica i nuovi prodotti, rigidamente a km 0. Capisco che il paragone è un po’ ruvido. Ma come si può definire diversamente un’iniziativa promossa da grandi organizzazioni sindacali che hanno messo punto un pacchetto di richieste e di proposte, poi si sono infilate in una vera e propria campagna di promozione individuando per conto loro un percorso che altro non era se non un dialogo con e fra sé stessi, avulso dalla realtà del Paese?

 

Strada facendo, Cgil, Cisl e Uil hanno avuto la fortuna di imbattersi in questioni di merito con cui hanno dovuto misurarsi. Un’infervorata Elly Schlein non ha esitato a definire “una provocazione” la convocazione del Consiglio dei ministri nella giornata del 1° Maggio con il varo di un decreto in materia di lavoro (e dintorni). È un giudizio sbagliato e ingiusto. È vero che con quell’iniziativa Meloni ha rubato alle centrali confederali l’effetto mediatico della Festa del Lavoro. È altrettanto vero però che il dibattito sul decreto ha trasformato il solito rammendare le solite vecchie calze di questa giornata (che è ormai contrassegnata dal “concertone” piuttosto che dai comizi) in un’occasione di dibattito su aspetti di un certo rilievo, anche se il governo si è fatto prendere la mano da un eccessivo entusiasmo. Un eccessivo entusiasmo, senz’altro non condivisibile, ma che è più giustificato – a mio avviso – rispetto alle critiche che vengono rivolte al decreto da parte delle confederazioni sindacali, in particolare dalla Cgil, in sintonia con l’opposizione di sinistra.

 

Come si diceva nei tempi in cui l’onestà intellettuale non era scomparsa del tutto, il decreto del 1° maggio merita un giudizio più articolato. Magari con molte tonalità di grigio. Senz’alcun dubbio la parte più complessa e che solleva più interrogativi rispetto alle soluzioni proposte è quella riguardante l’assegno di inclusione (che finalmente ha risolto i suoi problemi con l’anagrafe). In proposito sono condivisibili e convincenti le considerazioni svolte da Francesco Seghezzi nel Bollettino speciale dedicato da ADAPT a un primo esame del decreto lavoro. È schematica la ripartizione tra non occupabili ed occupabili sulla frontiera della condizione di povertà. Nel senso che non sono necessariamente poveri coloro che hanno un anziano, un invalido o un minore in famiglia, mentre per essere occupabili non è sufficiente non avere una situazione familiare precaria, anche perché si continua a dare per scontato, ma non sarà così, che l’azienda –  quando il centro per l’impiego avvierà un c.d. occupabile al lavoro con una proposta che da lui non può essere rifiutata, pena il venire meno dell’assegno –  non avrà alcuna obiezione rispetto alla figura professionale del lavoratore proposto. Non siamo all’imponibile di manodopera né a poter sbandierare un “Mi manda Picone”.

 

C’è da dire, tuttavia, che è difficile uscire da un groviglio di norme inficiate da un errore di fondo – oggi riconosciuto da tutti – ovvero la pretesa di tenere insieme nel reddito di cittadinanza uno strumento di contrasto alla povertà con varie iniziative di politiche attive, prescindendo dalla qualità dei potenziali beneficiari. Nella riforma viene dedicato spazio al tema della formazione, ma con una disinvoltura eccessiva come se la più efficace terapia fosse quella di indurre i c.d. occupabili ad entrare nel mercato del lavoro. Il beneficio economico su base annua – puntualizza la Relazione tecnica “bollinata” – consiste in una integrazione del reddito familiare fino alla soglia di euro 6.000 annui moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza ovvero euro 7.560 annui se il nucleo familiare è composto da persone tutte di età pari o superiore a 67 anni ovvero da persone di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari tutti in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza, moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza. Il beneficio economico è, altresì, composto da una integrazione del reddito dei nuclei familiari residenti in abitazione concessa in locazione con contratto ritualmente registrato, per un importo pari al canone di locazione e fino a un massimo di 3.360 euro l’anno ovvero 1.800 euro annui se il nucleo familiare è composto da persone tutte di età pari o superiore a 67 anni ovvero da persone di età pari o superiore a 67 anni e da altri familiari tutti in condizioni di disabilità grave o di non autosufficienza (tale integrazione non rileva ai fini del calcolo della soglia del reddito familiare).

 

Per quanto riguarda la durata, la norma prevede che il beneficio sia erogato mensilmente per un periodo continuativo non superiore a diciotto mesi e può essere rinnovato, previa sospensione di un mese, per periodi ulteriori di dodici mesi. Per il calcolo degli oneri derivanti dall’esonero contributivo per chi assume percettori dell’Assegno di inclusione Nella Relazione Tecnica si è determinato il costo a partire dal 2024. Si ipotizzato un numero di assunzioni pari a 18mila/anno per i contratti a tempo indeterminato e 47mila/anno per i contratti a tempo determinato e stagionali. L’imponibile medio di riferimento è stato assunto pari a 15mila euro nel 2024, con un’aliquota media a carico del datore di lavoro del 31%; per le assunzioni a tempo determinato e stagionale è stato assunto un orizzonte lavorativo pari a sei mesi. Al fine di agevolare l’occupazione dei beneficiari dell’Assegno di inclusione, alle agenzie per il lavoro, è riconosciuto, per ogni soggetto assunto a seguito di specifica attività di mediazione effettuata mediante l’utilizzo della piattaforma digitale per la presa in carico e la ricerca attiva, un contributo pari al 30% del valore massimo dell’esonero contributivo. In sostanza, nel 2024, sommando gli oneri per l’assegno di inclusione e quelli per il sostegno alla formazione vengono cifrati in più di 7 miliardi. Al finanziamento anche per gli anni successivi si provvede mediante una corrispondente riduzione del «Fondo per il sostegno alla povertà e per l’inclusione attiva». È facile affermare che con il ridimensionamento di questa prestazione assistenziale “si toglie ai poveri”, ma non risultava che le organizzazioni sindacali condividessero l’impostazione del reddito di cittadinanza e fossero dell’idea di difenderlo senza apportarvi modifiche. Trovo invece sopra le righe la reazione con cui sono state accolte altre misure.

 

Per quanto riguarda la decontribuzione, aumenta la percentuale di esonero stabilita dalla legge di bilancio di 4 punti percentuali dal 1° luglio 2023 al 31 dicembre 2023, senza ulteriori effetti sui ratei di tredicesima erogati in relazione ai predetti periodi di paga limitatamente a tale aumento di 4 punti percentuali, per un esonero complessivo, per tale periodo di paga, pari a 6 punti percentuali fermo restando il limite retributivo mensile di 2.692 euro e fermo restando l’incremento di un ulteriore punto percentuale già stabilito (per un esonero complessivo di sette punti percentuali per il predetto periodo) per le retribuzioni pari o inferiori a 1.923 euro mensili. Presi in contropiede (la loro richiesta era pari a 5 punti) i sindacati si sono attaccati alla temporalità della misura limitatamente al secondo semestre dell’anno in corso (anche se non era difficile comprenderne le ragioni) e alla banale circostanza per cui quando vi è un aumento retributivo intervengono anche degli effetti fiscali. L’accusa di aumentare la precarietà con le disposizioni sul contratto a termine è un vero e proprio falso ideologico. Il rinnovo o la proroga dai 12 ai 24 mesi è legato a causalità da definire nella contrattazione collettiva (anche aziendale); in mancanza ritorna in scena il “causalone” ovvero quel riferimento generico alle “esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva” (a cui si aggiunge anche “sostitutiva”) che erano lo spasso dei giudici del lavoro quando i dipendenti alla scadenza del contratto a termine aprivano una controversia per la trasformazione a tempo indeterminato. La riforma Poletti del 2014 non aveva altro scopo che quello di togliere di mezzo, per la sua generica onnicomprensività, il “causalone” e liberalizzare l’utilizzo del contratto a termine (secondo i requisiti previsti) fino a 36 mesi.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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