Perché l’Italia ha bisogno di una riforma degli assetti contrattuali? Sintesi di una ricerca del Fondo Monetario Internazionale

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Il Fondo Monetario Internazionale ha recentemente pubblicato una ricerca dal titolo Competitiveness and Wage Bargaining Reform in Italy con lo scopo di spiegare la crisi di competitività del sistema produttivo italiano a partire dalle caratteristiche della struttura della contrattazione collettiva. I dati macroeconomici segnalano infatti che da oltre due decenni la produttività del lavoro in Italia è praticamente ferma, mentre il costo del lavoro ha mostrato un andamento via via sempre più crescente, specialmente dopo lo scoppio della crisi. Gran parte degli economisti accademici ritengono così che il crescente disallineamento tra costo del lavoro e produttività sia in parte attribuibile al mancato sviluppo quantitativo e qualitativo della contrattazione decentrata, che avrebbe dovuto avere la funzione specifica di legare una parte del salario alla dinamica della produttività per aumentare il livello di quest’ultima.

 

Il sistema italiano di relazioni industriali, com’è noto, è articolato su due livelli contrattuali specializzati e non sovrapposti. Il livello nazionale fissa il salario fondamentale ancorandolo alla dinamica dell’Indice dei prezzi al consumo depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. Il livello decentrato fissa il salario di risultato legandolo alla dinamica della performance produttiva. Come definito nel Protocollo Giugni del 1993, il presupposto istituzionale del sistema contrattuale è che la contrattazione nazionale salvaguardia il potere di acquisto delle retribuzioni nominali, mentre la contrattazione decentrata, territoriale o aziendale, ha la funzione di aumentare in modo sostenibile (cioè non inflattivo) le retribuzioni reali. Nonostante gli sforzi programmatici delle Parti sociali ribaditi a più riprese negli ultimi accordi interconfederali (a partire almeno dal 2009), la contrattazione decentrata stenta tuttavia ancora oggi a decollare e, con essa, il meccanismo retributivo incentivante che avrebbe dovuto favorire un riallineamento tra costo del lavoro e produttività.

 

In questo contesto, lo studio in commento conferma come il marcato disallineamento tra costo del lavoro e produttività sia un problema fondamentale per l’economia italiana soprattutto perché impatta sulla dinamica del costo del lavoro per unità di prodotto, che pone in rapporto tra loro queste due grandezze. Il Clup, sostanzialmente, è un indicatore di competitività che misura quanto costa e quanto produce, in media, ogni singola unità di lavoro. In parole semplici, la competitività di un sistema produttivo è tanto maggiore (minore) quanto più è basso (alto) il valore del Clup, a parità di tutte le altre condizioni. Da un’analisi della letteratura econometrica sul tema, emerge inoltre come il Clup evidenzia una correlazione positiva con l’andamento delle importazioni e negativa con le esportazioni secondo una intensità che riflette in parte l’elasticità della domanda estera e interna alle variazioni di prezzo dei beni domestici.

 

Rispetto alla dinamica del Clup aggregato a livello nazionale, l’Italia evidenzia oggi un scostamento positivo di 10 punti percentuali con il valore medio dell’Eurozona e ben 20 punti percentuali con quello della Germania. Nel settore manifatturiero, più esposto alla concorrenza internazionale, il disallineamento tra costo del lavoro e produttività è ancora più marcato. A partire dall’introduzione della moneta unica europea, si stimano circa 35 punti percentuali di differenziale nel tasso di crescita cumulato del Clup tra Italia e Germania fino a oggi, il 45 per cento dei quali imputabili alla crescita del salario orario e la restante parte alla produttività. Nel periodo tra il 1995 e il 2011, come conseguenza della crescita inflattiva del Clup, le importazioni reali hanno registrato un tasso di crescita cumulato pari a 75 punti percentuali a dispetto di un tasso cumulato di crescita delle esportazioni reali pari a 40 punti percentuali. In termini percentuali rispetto al Pil, nello stesso periodo, il tasso di crescita cumulato delle esportazioni è stato di 4,7 punti percentuali, mentre quello delle importazioni pari a 9,5 punti percentuali.

 

Per reagire alla perdita di competitività delle produzioni, data la rigidità del salario fondamentale fissato a livello nazionale, la maggior parte delle imprese italiane è stata costretta ad adottare una politica di contrazione dei profitti per non variare salari e prezzi; diversamente, ha deciso di ridurre il numero di lavoratori occupati attraverso licenziamenti e/o cassa integrazioni (c.d. “aggiustamento interno”) mantenendo inalterati profitti e prezzi. Tuttavia, nonostante l’adozione di queste gravose misure, le imprese italiane hanno dovuto comunque subire perdite di quote consistenti di mercato rispetto ai principali competitors internazionali (Cina in primis), soprattutto a causa dei mancati investimenti, che pure avrebbero dovuto svolgere la funzione di volano per il rilancio della produttività del lavoro.

 

Vero è, del resto, che la perdita di competitività del sistema produttivo italiano non può indubbiamente essere attribuita solo al sistema contrattuale. La contrattazione collettiva è solo una delle molteplici determinanti in materia di produttività e competitività, rispetto al cui andamento molto incidono gli investimenti manageriali in tecnologia, ricerca, sviluppo, innovazione e capitale umano. Oltretutto, il modello italiano di capitalismo registra una forte presenza di piccole e media imprese caratterizzate da una forte presenza di proprietà familiare, da cui la mancanza spesso di criteri meritocratici nella selezione dei manager e la scarsa attenzione al tema dello sviluppo delle competenze. Da ultimo, si sottolineano anche gli effetti negativi complessivi sul sistema economico derivanti dalla inefficienza della pubblica amministrazione, dalle infrastrutture, dalla giustizia e dalla lotta alla criminalità.

 

Pur consapevoli che solo una politica a livello di sistema potrà essere pienamente incisiva, lo studio mette in luce i potenziali benefici economici connessi a un processo di decentramento della struttura contrattuale verso il livello di impresa (o in alternativa di territorio) sia in termini di sviluppo occupazionale che di riallineamento tra costo del lavoro e produttività. Si evidenzia infatti come, anche sulla base di dati empirici, i Paesi con un baricentro decentrato della contrattazione abbiano un tasso di disoccupazione più basso, un tasso di elasticità più alto rispetto agli shock esogeni, una maggiore capacità di adattamento al cambiamento, ma soprattutto una performance economica di impresa più elevata. In termini di politica contrattuale, lo studio conclude che, per raggiungere egli obiettivi di flessibilità salariale e maggiore competitività, sarebbe necessario il pieno riconoscimento della priorità della contrattazione aziendale su quella nazionale da accompagnare alla implementazione di un salario minimo legale funzionale a garantire la copertura retributiva dei lavoratori privi di contrattazione collettiva.

 

Lorenzo Patacchia

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@lor.patacchia

 

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