L’impatto della digitalizzazione sul lavoro nelle carceri: prospettive di superamento del lavoro a domicilio

La digitalizzazione e l’uso di tecnologie informatiche che annullano le distanze costituisce uno degli elementi fondativi della grande trasformazione del lavoro in atto, alla base dei modelli della sharing economy ed on-demand economy, che si stanno sovrapponendo, sostituendolo progressivamente, al precedente sistema economico, incentrato sull’obsoleto modo di produzione di matrice taylorista/fordista e le sue successive derivazioni.

 

Questo scenario (non più) avveniristico, da cui deriva la potenziale “incorporazione” delle nuove tecnologie nell’esecuzione del lavoro (anche) da remoto nonché la crisi ed obsolescenza del tradizionale rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, basato su tempo e luogo della prestazione rigidamente determinati, interesserà progressivamente tutti i settori produttivi, fino a quelli più “marginali”.

 

Tra questi, assume rilievo il settore delle lavorazioni interne agli istituti di pena realizzate con il lavoro di detenuti od internati, posti alle dipendenze non dell’amministrazione penitenziaria, ma di un datore di lavoro esterno, privato o pubblico, incluse le imprese sociali, come consentito dall’art. 20 l. n. 354/1975, a seguito della riforma avviata con la l. n. 296/1993, che ha finalmente consentito il “reingresso dei privati” all’interno delle carceri con finalità di produzione attraverso l’impiego di manodopera detenuta.

 

Se è vero che “l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera”, è possibile utilizzare una qualunque delle tipologie contrattuali di lavoro consentite dalla legge, purché compatibile con la disciplina dell’ordinamento penitenziario e la condizione di limitazione della libertà personale del potenziale lavoratore.

In tal senso, è espressamente prevista, ai sensi degli art. 19 l. n. 56/1987 e art. 52 d.P.R. n. 230/2000, la possibilità di avvalersi, per avviare attività produttive di beni e servizi all’interno delle carceri, della tipologia del lavoro a domicilio, la cui disciplina generale si rinviene nella l. n. 877/1973.

Può il lavoro a domicilio, un vetusto schema contrattuale di lavoro da remoto, avere ancora – o addirittura ritrovare un ruolo – nel contesto della grande trasformazione in atto, con specifico riguardo alla realtà detentiva?

 

Il lavoro a domicilio si configura come uno schema di svolgimento della prestazione lavorativa – da considerarsi quale subordinata se conforme alle indicazioni dell’art. 1 l. n. 877/1973 – caratterizzato, per l’aspetto per il quale la prestazione è resa dal lavoratore a domicilio fuori dai locali dell’impresa. È la c.d. dislocazione topografica della prestazione, da cui deriva l’impossibilità per il lavoratore di essere soggetto ad un controllo costante datoriale, in primo luogo sul tempo di lavoro (art. 17 d. lgs. n. 66/2003), con ripercussioni sulla modalità di retribuzione (art. 7 l. n. 877/1973).

 

Ad un’attenta analisi, il ruolo della “digitalizzazione” come causa del superamento del lavoro a domicilio penitenziario rischia di apparire una suggestiva illusione, dissolta dalla dura realtà giuridica e fattuale. In primo luogo, occorre chiarire che, nel lavoro negli istituti di pena, il “domicilio” dei soggetti ivi reclusi si colloca nell’istituto penitenziario stesso, in quanto impossibilitati a prestare attività lavorativa nei locali aziendali esterni al carcere, salve le ipotesi del lavoro esterno al carcere o della semilibertà.

Più precisamente, il luogo della prestazione va identificato “in appositi locali o, in casi particolari, nelle camere” interne all’istituto di pena (art. 1 l. n. 877/1973 in combinato disposto con gli artt. 51 – 52 d.P.R. n. 230/2000). Ciò in conformità al concetto di “domicilio” di cui alla l. n. 877/1973, da intendersi come “lo spazio compreso in una costruzione, anche rudimentale, dove si esplica, con gli strumenti necessari, la (…) attività produttiva organizzata”, diverso da quello civilistico di cui all’art. 43 c.c. (M. De Cristofaro, Il lavoro a domicilio, Padova, 1978, pp. 179 – 180).

 

In secondo luogo, è vero che il lavoro a domicilio è nato come una modalità di lavoro avente ad oggetto prestazioni di tipo esclusivamente manifatturiero – non a caso l’art. 1 l. n. 877/1973 menziona espressamente l’utilizzazione di “materie prime ed accessorie” – tuttavia la dottrina e successivamente la giurisprudenza, prendendo atto del mutato contesto produttivo, hanno ritenuto possibile che il lavoro a domicilio possa essere utilizzato per “esternalizzare” anche fasi del ciclo produttivo datoriale che richiedono prestazioni lavorative di tipo “mente-fatturiero”.

Tale neologismo, di origine dottrinale (L. Nogler, Lavoro a domicilio, in Comm. c.c. Schlesinger, Milano, 2000), e accolto in giurisprudenza (Cass. 7 giugno 2003, n. 9168) individua attività lavorative aventi ad oggetto un servizio, quali ad es. la “tariffazione” delle ricette farmaceutiche, la correzione di bozze, la traduzione, la gestione di servizi telefonici.

 

Quali sono le attività tipicamente svolte dai detenuti, alle dipendenze dei datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria? Attività sicuramente ben più qualificanti professionalmente di quelle rientranti nel lavoro penitenziario domestico, ma comunque nella maggioranza dei casi attività principalmente di tipo manifatturiero/artigianale (S. Santagata (a cura di), Lavoro e formazione in carcere. Una mappatura della situazione esistente negli istituti penitenziari in Italia, ADAPT Labour studies e-book series n. 51, ADAPT University Press, 2016): ad esempio assemblaggio di biciclette e di valigeria, pelletteria, sartoria, produzione di prodotti dolciari, falegnameria.

Tali attività per la loro oggettiva natura non sono idonee ad essere prestate avvalendosi di schemi contrattuali necessariamente basati sull’utilizzo di strumenti informatici e/o telematici: il telelavoro in tal senso è inapplicabile, essendo suo presupposto indefettibile l’impiego delle “tecnologie dell’informazione” ai sensi dell’art. 1 Accordo interconfederale del 9 giugno 2004, e, come si osserverà, anche il ricorso al lavoro agile non è agevole.

 

E le attività c.d. mente-fatturiere? Se è vero che la maggioranza delle lavorazioni dei privati interne agli istituti di pena sono di tipo manifatturiero, non mancano ipotesi di attività di tipo mente-fatturiero: ad esempio attività di call center, data entry, digitalizzazione, lettura e trascrizione delle targhe dei veicoli con transiti irregolari dai caselli autostradali.

Con specifico riguardo ad attività di servizi, il telelavoro potrebbe costituire, potenzialmente, uno schema adeguato, alternativo al lavoro a domicilio, e più in linea con le potenzialità insite nella digitalizzazione. In effetti, non mancano nella prassi esperienze di utilizzo del telelavoro negli istituti penitenziari, ad es. per svolgere attività di data entry, controlli manuali e riproduzione materiale informativo.

Tuttavia, la diffusione del telelavoro nelle carceri incontra molti degli ostacoli esistenti nel “mondo degli uomini liberi”, quali la rigidità dei modelli organizzativi e delle pratiche di gestione delle risorse umane, la limitata diffusione della cultura della flessibilità e del decentramento, l’insufficienza e il costo delle tecnologie.

A questi ostacoli, se ne aggiungono altri specifici al contesto penitenziario: si pensi alla rigidità normativa del telelavoro, che mal si adatta alla conformazione del lavoro di soggetti spesso dotati di scarsa cultura del lavoro (e tendenziale bassa produttività), la cui “sfera di autodeterminazione” del tempo, del modo e del luogo della prestazione è fortemente condizionata dall’“ingerenza” dell’amministrazione penitenziaria e dalla condizione limitativa della libertà personale. Si pensi alle carenze formative dei detenuti in ordine all’utilizzo delle tecnologie digitali, ai profili “securitari” relativi all’utilizzo della strumentazione telematica: come connettere alla rete aziendale le apparecchiature del lavoratore? Quale il ruolo dell’Amministrazione penitenziaria in tal senso? Quali le soluzioni tecniche, finalizzate ad evitare un utilizzo “inidoneo” dell’apparecchiatura telematica da parte del lavoratore detenuto? Esemplificativa è la problematica dell’impiego della connessione internet, cui il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ha dato una prima soluzione “di sistema” con la circolare del 2.11.2015.

 

Potenzialmente la digitalizzazione si configurerebbe come uno strumento formidabile per amplificare le possibilità lavorative dei detenuti: essa consentirebbe ai medesimi di prestare attività a distanza, dalla reclusione, rendendo una prestazione utilizzabile (e controllabile) in tempo reale dal datore di lavoro: tuttavia, in concreto, le difficoltà suddette limitano fortemente i vantaggi potenziali.

Una soluzione potrebbe essere un intervento legislativo sul lavoro da remoto, finalizzato a superare le vetuste normative e differenziazioni tra lavoro a domicilio e telelavoro, adeguando tali schemi contrattuali alla realtà tecnologica attuale, cui si potrebbe associare un intervento sulla disciplina penitenziaria, per adeguare esplicitamente il lavoro da remoto alle peculiarità del lavoro all’interno delle strutture di reclusione, come tuttora non è previsto con riguardo al lavoro a domicilio penitenziario, che rimette tale coordinamento normativo all’interprete.

 

Certamente, non può essere interpretato in tal senso lo schema contrattuale del lavoro agile attualmente in discussione nelle aule parlamentari (ddl S. 2233): la disciplina ivi prevista si pone come alternativa tanto al lavoro a domicilio, quanto al telelavoro. Anzi, esattamente come le varie configurazioni di smart working impiegate nella prassi dalle aziende avvalendosi della libertà di autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c. (E. Dagnino – M. Tiraboschi, Verso il futuro del lavoro. Analisi e spunti su lavoro agile e lavoro autonomo, ADAPT Labour studies e-book series n. 50, 2016), lo schema predetto è chiaramente incompatibile con una prestazione lavorativa continuativa e non occasionale resa dal detenuto in locali penitenziari non di pertinenza datoriale.

 

Astrattamente, si potrebbe ipotizzare, avvalendosi della facoltà di stipula di contratti atipici ex art. 1322 c.c. e della contrattazione collettiva aziendale, la “costruzione” di una species di “lavoro agile penitenziario”, finalizzata a conciliare l’attività lavorativa con le specifiche esigenze della vita ristretta, caratterizzata da potenziale (ma non necessario) utilizzo delle tecnologie digitali e telematiche, flessibilità oraria, retribuzione incentivante (ed educativa al lavoro) su risultato e ampia flessibilità di dislocazione topografica (solo eventualmente riconducibile a locali di pertinenza aziendale), potendosi così tale schema contrattuale conformarsi al variabile grado di limitazione della libertà personale cui è soggetto il lavoratore, e alle molteplici vicende che possono interessarlo in costanza di esecuzione di pena. Certamente, tale “suggestione contrattuale” si allontanerebbe considerevolmente dal “tradizionale” concetto di lavoro agile, fondato sull’idea di alternanza tra sede ordinaria di lavoro e locali “altri” (extra – aziendali e/o aziendali) nello svolgimento della prestazione.

 

Se il lavoro agile pensato per gli “uomini liberi” è difficilmente compatibile con la realtà detentiva, ed il telelavoro trova limitati margini di utilizzo nelle carceri, il vero evento causale di superamento del lavoro a domicilio potrebbe essere identificato non tanto nella digitalizzazione quanto nella possibilità, riconosciuta a partire dalla l. n. 193/2000, c.d. legge Smuraglia, per i datori di lavoro privati, di poter stipulare convenzioni con l’amministrazione penitenziaria tramite le quali concordare le modalità di impiego lavoristico dei detenuti. Nell’ambito di tali convenzioni, l’amministrazione penitenziaria può concedere in comodato d’uso gratuito locali dell’istituto di pena al privato, nei quali allestire la strumentazione lavoristica e impiegare i detenuti.

Potendo accedere a tale conveniente possibilità, il ricorso agli schemi del lavoro a domicilio o del telelavoro potrebbe risultare non necessario per l’impiego di manodopera ristretta nella sua libertà personale.

Non la digitalizzazione dunque, ma l’ingresso dei datori di lavoro privati nella gestione dei luoghi di lavoro nelle carceri potrebbe essere la possibile causa di superamento dello schema del lavoro a domicilio, ed anche del telelavoro.

 

Un esito desumibile dalle premesse normative: il lavoro a domicilio penitenziario ha trovato il suo primo formale riconoscimento normativo nella l. n. 56/1987, configurandosi all’epoca come l’unica modalità attraverso la quale un privato poteva avvalersi della prestazione lavorativa di un detenuto, qualificato quale lavoratore ad esso subordinato. Con la reintroduzione della possibilità per i privati di organizzare e gestire direttamente le lavorazioni interne agli istituti penitenziari, legislativamente consentita dal 1993 e potenziata nel 2000, lo schema contrattuale del lavoro a domicilio penitenziario costituisce attualmente solamente una delle possibili tipologie contrattuali di impiego di personale soggetto a detenzione a disposizione dei datori di lavoro privati.

 

In definitiva, il controllo a remoto della prestazione lavorativa sarà pur tecnicamente possibile, ma l’abbandono del lavoro a domicilio e del telelavoro, in ipotesi causato dalla diffusione di schemi contrattuali “altri” basati sulla digitalizzazione, è ben lungi a venire.

 

 Alessandro Alcaro

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@AlexAlcaro

 

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