Smart working, una “rivoluzione” mancata

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Bollettino ADAPT 2 aprile 2024 n. 13
 

Lo smart working (solo in Italia lo chiamiamo così) torna alle regole pre-Covid (qui trovate la Guida pratica ADAPT), un buon momento per fare un rapido bilancio della sua diffusione e del suo utilizzo, soprattutto a partire dal periodo pandemico. Il tutto in una fase dove il fatto stesso che si discuta fortemente di riduzione dell’orario di lavoro ci suggerisce che la diffusione da remoto non abbia portato nessuna rivoluzione nella concezione e nella pratica della gestione dei tempi di lavoro.

 

Infatti se la supposta “agilità” doveva essere in qualche modo caratterizzata da un nuovo modo di organizzare il lavoro, rendendo più labili le coordinate spazio-temporali che hanno sempre segnato i confini del lavoro dipendente, liberando i vincoli di orario e luogo di lavoro, quello che la maggior parte delle imprese ha messo in pratica appare essere tutt’altro.

 

Molto di tutto questo (quasi tutto) è mancato e ci si è limitati alla mera traslazione del lavoro da un luogo (l’ufficio) ad un altro (la casa, principalmente) senza che questo implicasse veri cambiamenti organizzativi, a partire dalla crescita anche parziale di autonomia e flessibilità da parte dei lavoratori. E così appare evidente che la pur giustificata ragione di utilizzare il lavoro agile per contribuire alla riduzione dei contagi ha la stessa natura funzionale di chi lo ha implementato e lo sta continuando a implementare nei prossimi mesi per ridurre i costi di gestione degli uffici.

 

In entrambi i casi, pur in situazioni differenti, l’eterogenesi dei fini è un rischio concreto e riguarda soprattutto i lavoratori. Infatti un lavoro da remoto che segue le medesime logiche organizzative, soprattutto temporali e di controllo, di quello svolto nel normale luogo di lavoro può facilmente condurre ad una alienazione dalla rete relazionale che il lavoro porta con sé, aumentando i livelli di solitudine e di isolamento sociale. Si tratta di un fenomeno ormai largamente osservato nel corso degli ultimi due anni che ha in primo luogo conseguenze psicologiche sui lavoratori ma che porta con sé anche una riduzione delle performance lavorative e quindi danni per le imprese stesse.

 

Se l’organizzazione e il controllo del lavoro da remoto sono le stesse del lavoro in presenza aumentano poi i costi di transazione a livello temporale necessari per attività di coordinamento che de visu avverrebbero più facilmente, accrescendo così sia il senso di controllo da parte dei lavoratori che i tempi non produttivi per le imprese. La mancata flessibilità oraria che il lavoro agile potrebbe astrattamente consentire fatica poi ad accompagnare la spesso millantata relazione tra lavoro da casa e maggior conciliazione con impegni e necessità extra-lavorative (come i mesi di chiusura delle scuole hanno dimostrato). Queste criticità non eliminano il fatto che per molte persone il lavoro agile è stata, pur nella sua formula ridotta di mero lavoro da remoto, una esperienza positiva, soprattutto per chi era impegnato in lunghi tempi di trasporto casa-lavoro. Così come è stata una esperienza positiva per coloro occupati in imprese che hanno adottato, spesso perché già lo facevano prima della pandemia, un lavoro agile con livelli di autonomia e flessibilità maggiori rispetto al lavoro in presenza.

 

Ma la sfida di un ripensamento del lavoro, che porti la sua organizzazione (laddove possibile) a fondarsi maggiormente, e con gradualità crescente, più sulla valutazione dei progetti e degli obiettivi piuttosto che sulla gabbia del tempo lavorato sembra ancora un miraggio. Di certo la situazione emergenziale non era il momento migliore per avviare un cambiamento così radicale, ma ha comunque contribuito a eliminare gli alibi logistici e infrastrutturali al lavoro agile. I prossimi mesi potrebbero essere un banco di prova per fare un salto di qualità, dalla logistica all’organizzazione, sperando che la nuova emergenza alle porte non vanifichi di nuovo l’occasione.

 

Francesco Seghezzi
Presidente ADAPT
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