Licenziato per non partecipare ad attività di team building: la giustizia francese condanna un’azienda a pagare mezzo milione
| di Lavinia Serrani
Bollettino ADAPT 8 settembre 2025, n. 30
Un caso recentemente approdato fino alla Corte di Cassazione in Francia ha posto in primo piano il rapporto tra cultura aziendale, libertà individuali e diritto del lavoro. La vicenda, che ha riguardato un consulente senior licenziato per la sua mancata adesione a pratiche di socializzazione aziendale, offre spunti rilevanti non solo sul piano giuridico, ma anche su quello organizzativo e culturale.
Il protagonista della vicenda, indicato dalla stampa come “signor T”, era stato assunto nel 2011 da una società di consulenza con sede a Parigi. Grazie alle sue competenze, nel 2014 aveva ottenuto una promozione a direttore. Nulla lasciava presagire che di lì a poco la sua carriera si sarebbe interrotta per motivi estranei alla sua professionalità.
La cultura aziendale era improntata al cosiddetto modello “fun & pro”, una formula che mirava a combinare il rigore del lavoro con momenti di convivialità e divertimento. Eventi del fine settimana, feste aziendali e attività di team building erano considerati parte integrante della vita lavorativa. Il signor T., tuttavia, non condivideva questa impostazione. Più volte aveva espresso disagio di fronte agli episodi che si verificavano durante questi eventi: consumo smodato di alcol, comportamenti invasivi della sfera privata e pratiche umilianti come simulazioni a sfondo sessuale o l’obbligo di condividere la stanza con colleghi.
La resistenza del dipendente a partecipare a questi eventi – unitamente alle critiche espresse nei confronti di pratiche ritenute eccessive e intrusive – ha portato l’azienda a licenziarlo nel 2015, formalmente, come si leggeva nella lettera di licenziamento, per “insufficienza professionale”, “rigidità nei rapporti”, “tono duro e demotivante” e, soprattutto, per non essersi allineato allo spirito “di divertimento” cui era improntata la cultura aziendale.
Il lavoratore ha contestato il licenziamento ritenendolo privo di giustificazione oggettiva e lesivo delle proprie libertà fondamentali. Al tribunale di prima istanza aveva chiesto un risarcimento di oltre 460.000 euro, sostenendo che il motivo reale del licenziamento non fosse l’insufficienza professionale ma la sua contrarietà a un modello aziendale basato sull’obbligo di partecipare a feste ed inappropriati eventi di team building.
La sua prima richiesta fu respinta, così come un secondo tentativo dinanzi alla Corte d’Appello di Parigi nel 2021. Il dipendente, tuttavia, non si è arresto e il caso è approdato alla Corte di Cassazione francese che, nel novembre 2022, ribaltando le precedenti decisioni, ha accolto le sue ragioni. La Suprema Corte, difatti, ha evidenziato come la mancata partecipazione ad attività ricreative non possa configurare un’inadempienza lavorativa, così come il rifiuto di aderire a un determinato modello culturale imposto dall’impresa rientri nell’esercizio della libertà di opinione ed espressione del lavoratore.
Le critiche espresse dal dipendente rispetto a pratiche aziendali invasive non potevano, dunque, costituire motivo di licenziamento. La sentenza rimarcava, inoltre, la natura controversa delle pratiche aziendali descritte: “momenti di convivialità” che, in realtà, comportavano pressioni a bere, comportamenti degradanti e invasioni della vita privata. Non si trattava quindi di semplici cene di lavoro, ma di rituali che oltrepassavano i limiti del rispetto individuale.
Con sentenza definitiva del 30 gennaio 2024, la Corte d’Appello di Parigi ha così dichiarato nullo il licenziamento, ordinando la reintegrazione e condannando l’azienda al pagamento di un’indennità pari a circa 496.000 euro. Il signor T., tuttavia, ha scelto di non tornare in azienda, preferendo un accordo economico che sancisse la chiusura definitiva del rapporto di lavoro.
La vicenda ha suscitato grande eco mediatica, rimbalzando sulle pagine di quotidiani come Le Parisien e Le Figaro, per poi diffondersi a livello internazionale. La ragione è duplice: da un lato, l’aspetto paradossale di un licenziamento per “non essere abbastanza divertente”; dall’altro, la portata della sentenza, che stabilisce un precedente importante nella giurisprudenza francese e, più in generale, nel dibattito europeo, sul rapporto tra libertà individuali e cultura organizzativa.
Il caso del “signor T” invita, difatti, a interrogarsi sul perimetro del potere direttivo datoriale e sui limiti dell’azienda come comunità totalizzante, capace di incidere non solo sull’attività professionale ma anche sulla sfera privata e valoriale dei lavoratori. Invita ad interrogarsi, altresì, sulla centralità delle libertà fondamentali, riaffermando il principio secondo cui il rapporto di lavoro, pur fondato sulla subordinazione, non può travalicare le libertà fondamentali della persona, tra cui quelle di espressione e di coscienza sul luogo di lavoro. Invita, infine, a riflettere sul confine tra team building e pressione culturale in termini di uso eccessivo di pratiche di socializzazione forzata come strumenti di gestione del personale.
Per studiosi e operatori del diritto del lavoro, questa vicenda può rappresentare, dunque, un banco di prova importante per ripensare l’equilibrio tra esigenze organizzative e diritti individuali, in un contesto in cui la cultura aziendale tende a occupare spazi sempre più ampi della vita sociale dei lavoratori. Per le aziende francesi – e non solo – la sentenza rappresenta, invece, un monito: imporre ai dipendenti valori aziendali che esulano dalle mansioni lavorative può costare caro. Nel caso in questione, quasi mezzo milione di euro.
Ricercatrice ADAPT
Responsabile Area Ispanofona
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