L’applicazione di CCNL diversi in azienda
Interventi ADAPT, Relazioni industriali
| di Antonio Tarzia
Bollettino ADAPT 10 novembre 2025, n. 39
Torna ricorrente, come un fiume carsico, la “quaestio iuris” dell’applicazione di più contratti collettivi ai lavoratori di una stessa azienda che svolge attività diverse.
La questione, più volte affrontata in dottrina e dalla giurisprudenza, presenta ora elementi di novità, come emerge dalla recente ordinanza della Corte di Cassazione del 17 ottobre 2025, n. 3583, sia per le caratteristiche dell’impresa datoriale (una società pubblica operante nel settore ambiente), sia per le motivazioni che hanno indotto i giudici di merito e quello di legittimità – sulla base di una diversa interpretazione dell’art. 2070 c.c. – a soluzioni divergenti (i primi a respingere ed il secondo ad accogliere il ricorso di alcuni lavoratori che, a parità di mansioni svolte, chiedevano l’intera applicazione – parte economica e normativa – di un CCNL diverso da quello di assunzione, applicato dalla società agli altri lavoratori).
In punto di fatto, la società evocata in giudizio, iscritta a due diverse associazioni datoriali, applica ai suoi dipendenti due contratti collettivi di lavoro: il primo, sottoscritto da Federambiente, che associa le imprese che operano nel settore rifiuti; il secondo, sottoscritto da Federgasacqua, che associa le imprese che operano nel settore della fornitura di acqua e gas.
Sulla decisione di applicare due diversi contratti collettivi la società “ammette che per propri interessi organizzativi, nell’assorbire numerose aziende pubbliche, ha di volta in volta conservato il trattamento collettivo dalle stesse applicato, individuando nel singolo contratto di assunzione la disciplina collettiva da applicare al singolo rapporto di lavoro”.
Sul punto torna utile un passaggio preliminare per meglio comprendere le contrapposte argomentazioni che hanno dato origine alle decisioni dei Giudici di merito e di quello di diritto. Le citate federazioni datoriali sono associate ad Utilitalia a far data dall’anno 2015. Quest’ultima, a sua volta, nasce dalla fusione di due federazioni: Federutility (cui Federgasacqua era associata) e Federambiente.
Utilitalia è firmataria, con il medesimo sindacato unitario (CGIL, CISL e UIL) di tre diversi contratti collettivi: il CCNL Gas-Acqua (che riguarda 42.000 lavoratori dipendenti dei vari associati), il CCNL Elettrico (14.700 lavoratori) e il CCNL Ambiente (50.000 lavoratori). Complessivamente, le imprese associate a Utilitalia occupano circa il 60% degli oltre 100.000 lavoratori del settore e servono oltre il 55% della popolazione italiana (fonte: sito web Utilitalia, settore Notizie, 9 luglio 2024 – comunicazioni del Presidente). Nel corso del corrente anno Utilitalia ha rinnovato con il predetto sindacato sia il CCNL dei servizi ambientali per la gestione dei rifiuti urbani sia il CCNL Gas-Acqua.
Le contrastanti decisioni non attengono pertanto alla scelta datoriale di applicare ad alcuni lavoratori un contratto collettivo scarsamente rappresentativo (essendo entrambi i contratti leaders nel comparto di riferimento), quanto nella (pretesa) facoltà del datore di lavoro, attraverso l’interpretazione delle norme di riferimento (art. 2070 c.c.) e della giurisprudenza in materia (Cass. Sez. Un. n. 2665/1997), di applicare ad alcuni lavoratori un contratto collettivo dalla stessa Società definito “innaturale” perché scollegato dalle mansioni effettivamente svolte dai ricorrenti, ma più rispondente “ai suoi scopi organizzativi”.
Non è dunque in questione il principio di sufficienza della retribuzione posto dall’art. 36 della Costituzione (né, a quanto risulta quello di proporzionalità relativo alla “qualità del lavoro svolto dai ricorrenti), in assenza di un l’obbligo alla “parità di retribuzione” ai lavoratori che svolgono la medesima mansione, (da ultimo ribadita in altra recente decisione della Corte Suprema, n. 17008 del 2025).
Conformandosi alla sentenza del Giudice del Lavoro di Treviso, la Corte d’Appello di Venezia ha respinto il ricorso dei lavoratori che chiedevano l’applicazione, al loro rapporto di lavoro, del CCNL Federambiente, con conseguente disapplicazione del CCNL Federgasacqua, ancorchè dagli stessi accettato all’atto dell’assunzione.
Nel suo esame la Corte d’Appello rileva che “proprio in ragione della conclamata adeguatezza e sufficienza del trattamento retributivo assicurato da entrambi i contratti collettivi applicati dalla società, come ricordato, sottoscritti da OO.SS maggiormente rappresentative, non è giustificata la doglianza degli appellati neppure sotto tale “profilo”.
Sintetizzando i vari “profili” presi in esame, la Corte ha poi ritenuto vincolante per il datore di lavoro l’applicazione del medesimo CCNL solo nei confronti del sindacato stipulante, al quale i ricorrenti non risultavano iscritti, “dovendosi ritenere prevalente la scelta delle parti, in sede di stipulazione del contratto, di stipulare un diverso contratto collettivo (escludendo peraltro che) l’applicazione del CCNL contestato fosse fondata su un elemento di costrizione”. Ha quindi negato “la pretesa sussistenza di un obbligo del datore di lavoro di inquadrare tutti i lavoratori obbligati alla medesima prestazione contrattuale nel contratto contenutisticamente corretto in quanto descrittivo delle reali prestazioni richieste al lavoratore”, escludendo che “l’applicazione di un CCNL coerente con l’attività di lavoro potesse derivare dall’applicazione dell’art.2070 c.c. che detta il criterio merceologico”.
A sostegno di questa tesi, la Corte d’Appello richiama la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite n. 2665/1997 della Suprema Corte, nella parte in cui ha stabilito che nell’attuale sistema post-corporativo “l’efficacia soggettiva del contratto collettivo si fonda sulle regole civilistiche della rappresentanza, in base all’iscrizione all’associazione sindacale […] sulla premessa, accertata dagli stessi appellanti, circa l’assenza di un principio di parità di trattamento”.
Di contrario avviso, la Suprema Corte ha accolto il ricorso dei lavoratori, articolato nell’unico motivo in cui si deduce la violazione e falsa applicazione di norme e di diritto e accordi collettivi, in relazione all’art. 360 n.3 del c.p.c., “nella parte in cui non riconosce il diritto dei lavoratori a che il loro rapporto di lavoro, al pari di quello degli altri dipendenti della Società, sia regolato dal contratto collettivo sottoscritto da Federambiente che nell’art.3 descrive le mansioni effettivamente svolte dai ricorrenti […] e ciò in relazione alla iscrizione del datore di lavoro alla predetta Federazione”.
In via preliminare la Cassazione supera l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla Società controricorrente per la mancata indicazione delle norme di diritto (asseritamente) violate dal giudice di merito.
Citando la propria giurisprudenza sul punto (Cass. n. 21819/2017) la stessa infatti afferma che “quando è chiara la censura sollevata non è inammissibile l’impugnazione per omessa indicazione delle norme di legge che si presumono violate [a meno che] gli argomenti addotti dal ricorrente non consentano di individuare le norme ed i principi asseritamente trasgrediti”.
La norma di legge (asseritamente) violata, è l’art.2070 c.c., che tuttavia appare interpretata dai Giudici del merito attraverso un percorso argomentativo adeguato e corretto. In ogni caso conforme alla pregressa giurisprudenza.
Sul punto appare opportuno osservare che la categoria professionale di cui al primo comma dell’art. 2070 si riferisce all’inquadramento professionale dei lavoratori in base alle mansioni svolte (operai, impiegati, quadri e dirigenti nel settore privato; categorie A, B, C e D nel settore pubblico).E che il criterio della “attività effettivamente esercitata dal datore di lavoro” (ai fini della determinazione del contratto collettivo di riferimento) è stato costantemente ritenuto applicabile esclusivamente ai datori di lavoro iscritti all’associazione sindacale stipulante (ex multis: Pretura Lucca 2 gennaio 1995, est. Bartolomei, in D&L 1995, 647), indipendentemente dalla iscrizione del datore di lavoro a più associazioni datoriali.
Circostanza che, nel caso specifico, può trovare motivazione nello svolgimento, da parte della società, di attività diverse ma convergenti nel macro settore della tutela ambientale. Tant’è che le Federazioni stipulanti i rispettivi contratti collettivi sono unitariamente rappresentate da Utilitalia.
Va poi puntualizzato che dopo la sentenza a Sezioni Unite n. 2665/1997, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che “l’individuazione del contratto collettivo che regola il rapporto di lavoro va fatta unicamente attraverso l’indagine della volontà delle parti, risultante, oltre che da espressa pattuizione, anche implicitamente dalla eventuale protratta e non contestata applicazione di un contratto collettivo determinato” (Cass. n. 10002/2000).
La stessa ordinanza in esame, peraltro, afferma che “l’iscrizione del datore di lavoro all’associazione stipulante è uno dei modi che serve a conferire efficacia vincolante al CCNL di diritto comune e che il lavoratore non può aspirare all’applicazione di un contratto diverso se il datore non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.”. Precetto che, peraltro, esclude un’estensione automatica del principio costituzionale “a tutti gli elementi e gli istituti retributivi che concorrono a formare il complessivo trattamento economico, dovendosi prendere in considerazione solo quelli che costituiscono il cd “minimo costituzionale” (Cass. n. 15148/2008).
Per inciso, andrebbe osservato che la quasi totalità delle richieste dei lavoratori che chiedono l’applicazione di un diverso trattamento economico si fondano sulla vicinanza (e spesso sulla completa sovrapposizione) delle mansioni dagli stessi svolte rispetto ai colleghi della stessa impresa cui si applica un diverso contratto collettivo. E che in questi casi il Giudice adito, quando accoglie la domanda del lavoratore, ne limita l’applicabilità alla sola parte strettamente retributiva, al netto di ogni altra maggiorazione.
Nell’accogliere il ricorso dei lavoratori la Suprema Corte motiva dunque la sua decisione per “l’erronea interpretazione per la quale sia concesso al datore di lavoro che svolge più di un’attività e che sia iscritto a più organizzazioni di categoria che hanno sottoscritto CCNL diversi per le diverse attività […] di poter applicare arbitrariamente ai lavoratori, anche se non iscritti ad alcuna associazione sindacale, un CCNL piuttosto che un altro, potendo prescindere dalle mansioni loro effettivamente demandate”, contraddicendo in tal modo la sua stessa giurisprudenza, che fa prevalere la volontà delle parti (nel caso specifico derivante dal contratto individuale di lavoro) e la protratta e non contestata applicazione di un contratto collettivo determinato (circostanza quest’ultima che sembra ignorata nelle carte del processo, ma comunque non contestata).
In conclusione, la Suprema Corte stabilisce, afferma un nuovo principio “nomofilattico”, secondo il quale non è consentito al datore di lavoro, che esercita un’attività coerente con le mansioni di fatto esercitate dai suoi dipendenti, applicare agli stessi un contratto differente (e che determini una riduzione del trattamento retributivo) da quello applicato in azienda agli altri lavoratori, solo perché egli è pure iscritto ad altra associazione sindacale che ha stipulato un contratto collettivo relativo ad un diverso settore di attività che però non è coerente con quella svolta dai lavoratori che agiscono in giudizio.
Possono solo aggiungersi alcune considerazioni finali, a margine del processo. La motivazione della Suprema Corte è apprezzabile sul piano sostanziale della motivazione, ma lascia alcune perplessità sul piano interpretativo.
Va detto che nel frastagliato e sovradimensionato panorama contrattuale (circa 1050 contratti collettivi depositati al CNEL), sarebbe difficile (se non impensabile) chiedere al giudice di procedere, oltre che ad un esame formale della norma, alla comparazione “sostanziale” dell’intera disciplina regolatoria dei contratti collettivi oggetto del confronto tra le parti. Che sarebbe tuttavia più corretto e pertinente, tenendo conto che la ripartizione tra parte normativa e parte economica del contratto è puramente nominale e non sostanziale. Ogni istituto, ogni norma del contratto collettivo ha infatti un risvolto sia economico che normativo. Solo per fare alcuni esempi, un orario di lavoro settimanale stabile rispetto ad un altro articolato su base plurisettimanale; un numero complessivo di permessi (c.d. “ROL”) e di ferie più alto; un trattamento di malattia o di trasferta più favorevole al lavoratore, ed un piano di welfare più generoso, costituiscono elementi facilmente traducibili in valore economico.
Ed è su questa comparazione tecnica che dovrebbe svolgersi l’indagine conoscitiva del giudice chiamato ad accertare l’applicabilità dell’uno o dell’altro contratto collettivo, alla luce di una lettura maggiormente orientata del principio posto dall’art. 36 della Costituzione.
Operazione non certo facile se si considera che nel solo settore Commercio e Turismo risultano depositati al CNEL 244 contratti collettivi, di cui 50 nel solo comparto del Turismo; nel settore Enti e Istituzioni private se ne contano 114; in quello dell’agricoltura e agroalimentare 53; nella chimica 33; nel settore tessile e moda 67; in quello degli alimentaristi e agroindustriale 42; nell’edilizia 75; nei poligrafici e spettacolo 43:, nel settore Metalmeccanica 67, in quello ambientale circa 60 (sommando le voci acqua, energia elettrica e igiene ambientale).
Ma questa è un’altra storia. Che prima o poi imprese, sindacati e forze politiche dovranno ricominciare ad affrontare. Allo stato, sembra più corretto parlare di “far-west” che di “libertà” sindacale.
Avvocato
ADAPT Professional Fellow
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