La semplificazione della rendicontazione di sostenibilità e degli obblighi di due diligence: arriva la posizione negoziale del Parlamento UE
| di Sara Prosdocimi
Bollettino ADAPT 24 novembre 2025, n. 41
Dopo un primo voto contrario all’adozione di un mandato negoziale sulla direttiva Omnibus del 22 ottobre 2025, giovedì 13 novembre il Parlamento europeo ha approvato la propria posizione sulla riduzione degli obblighi di rendicontazione e di due diligence per le imprese, a cinque mesi dall’adozione della posizione del Consiglio, nota anche come “approccio generale”, risalente a giugno 2025.
Il testo è stato adottato nel contesto del pacchetto di semplificazione presentato dalla Commissione europea il 26 febbraio 2025 noto come Omnibus I, un insieme di proposte legislative volte a ridurre gli oneri amministrativi e semplificare l’applicazione di norme esistenti per le imprese. Il pacchetto comprendeva, tra l’altro, norme volte a rendere più proporzionati gli obblighi di due diligence e di rendicontazione sulla sostenibilità (Direttiva 2024/1760/UE – CSDDD e Direttiva 2022/2464/UE – CSRD), nonché un dossier che posticipava l’applicazione di tali obblighi per alcune categorie di imprese, approvato dal Parlamento europeo con procedura d’urgenza nell’aprile 2025, garantendo alle aziende più tempo per adeguarsi alle nuove regole senza compromettere gli obiettivi di trasparenza e responsabilità (il riferimento è alla Direttiva 2025/794/UE – Stop the Clock).
Una maggioranza articolata degli europarlamentari (382 voti favorevoli, 249 contrari e 13 astensioni) ha, quindi, sancito una scelta che promette “semplificazione”, ma che lascia già intravedere tensioni sulla tenuta dell’impianto originario.
Con riferimento alle modifiche introdotte alla Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità, in primo luogo, si conferma un significativo restringimento dell’ambito di applicazione. La proposta innalza, infatti, le soglie dimensionali delle imprese sottoposte all’obbligo a quelle con più di 1.750 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato netto, superando di gran lunga i parametri attuali previsti dal testo della direttiva (250 dipendenti, 50 milioni di fatturato netto o 25 milioni di totale di bilancio). Si tratta di un cambiamento particolarmente rilevante se si considera che già la versione originaria della proposta Omnibus, già molto permissiva, avrebbe comportato l’esclusione di circa l’80% delle imprese dagli obblighi di rendicontazione (prevedendo l’obbligo per le sole imprese con più di 1.000 dipendenti e con un fatturato netto superiore a 50 milioni di euro oppure un totale di bilancio superiore a 25 milioni di euro) e la stessa posizione adottata dal Consiglio prevedeva soglie più basse per l’applicazione degli obblighi (ovvero aziende più di 1.000 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato netto). Le nuove soglie, quindi, determinerebbero una riduzione ancor più marcata. Similmente, anche l’ambito di rendicontazione consolidato è ridotto: le imprese madri di grandi gruppi devono preparare e pubblicare una dichiarazione di sostenibilità solo se il gruppo supera i 1.750 dipendenti e i 450 milioni di euro di fatturato netto su base consolidata durante l’esercizio finanziario.
Sul tema delle esenzioni, si specifica che le imprese madri ultime che si qualificano come imprese di partecipazione finanziaria e non sono impegnate in attività di gestione potranno essere esentate da tali obblighi; inoltre, il Parlamento europeo introduce un periodo di transizione di 24 mesi per le controllate di recente acquisizione prima che debbano essere incluse nella rendicontazione consolidata sulla sostenibilità (articolo 29a(1)).
Un ulteriore intervento riguarda la richiesta di informazioni lungo la catena del valore: alle imprese sarà, infatti, vietato richiedere e sollecitare dati da aziende della propria catena del valore con meno di 1.750 dipendenti e 450 milioni di euro di fatturato netto, salvo quanto previsto dagli standard volontari di sostenibilità. Il divieto non si applicherà, però, alle richieste effettuate ai fini di altri obblighi normativi.
In secondo luogo, con riferimento agli standard di rendicontazione di sostenibilità, il Parlamento europeo conferma la posizione finale del Consiglio che revoca l’obbligo per la Commissione europea di adottare standard obbligatori di “ragionevole garanzia”, come previsto dall’articolo 26 bis, paragrafo 3, della direttiva 2006/43/CE, proponendo invece l’applicazione esclusiva della garanzia limitata. Nello specifico, la Commissione dovrà adottare tali standard mediante atto delegato entro il 1° ottobre 2026, con l’obiettivo di ridurre i costi di conformità e la complessità amministrativa per le imprese, pur garantendo un livello adeguato di controllo sui dati ESG riportati. Il Parlamento conferma, inoltre, il potere della Commissione europea di adottare atti delegati per definire standard di rendicontazione sulla sostenibilità da utilizzare volontariamente dalle imprese non soggette agli obblighi della direttiva 2013/34/UE. Tali standard dovranno però essere proporzionati e pertinenti alle capacità e caratteristiche delle imprese, nonché alla portata e complessità delle loro attività, limitando esplicitamente le informazioni richieste e tenendo conto delle difficoltà legali e pratiche nell’ottenere dati lungo la catena del valore, in particolare da soggetti esterni all’ambito CSRD o da fornitori in mercati emergenti. Per favorire coerenza e comparabilità, gli standard dovrebbero, inoltre, prevedere un modello strutturato per la segnalazione volontaria. In ogni caso, fino all’adozione degli standard volontari da parte della Commissione, si chiarisce che le imprese potranno redigere le relazioni conformemente alla Raccomandazione 2025/4984, basata sullo standard VSME (Voluntary Sustainability Reporting Standard) dell’EFRAG, privilegiando un linguaggio semplificato e approcci proporzionati e progressivi. Inoltre, si conferma che gli obblighi CSRD non dovranno richiedere la divulgazione di segreti commerciali, proprietà intellettuale o know-how, in linea con la direttiva 2016/943/UE (articolo 29a(5a)).
Infine, la proposta affronta anche il tema dell’impossibilità di ottenere informazioni: si specifica, infatti, che qualora, nonostante le misure adottate per identificare gli impatti negativi, le imprese non dovessero disporre di tutte le informazioni necessarie riguardanti la propria catena di attività, esse potranno fornire una giustificazione ragionevole in merito agli sforzi compiuti, i motivi della mancata disponibilità e i piani futuri per ottenerli; in tal senso, le suddette spiegazioni saranno considerate conformi agli obblighi di segnalazione. Similmente, se non fosse possibile adottare misure adeguate a prevenire, mitigare, porre fine o ridurre al minimo l’impatto negativo, si specifica che le imprese non saranno sanzionate.
Numerose modifiche sono state, inoltre, proposte anche in relazione alla Direttiva sulla due diligence. In primo luogo, viene rivisto l’ambito di applicazione, allineandolo alle soglie indicate nella posizione del Consiglio. Gli emendamenti adottati prevedono, infatti, che siano soggette alla direttiva le imprese dell’UE con più di 5.000 dipendenti e un fatturato netto mondiale superiore a 1,5 miliardi di euro, nonché le società extra-UE con un fatturato netto nell’UE superiore a 1,5 miliardi di euro.
In secondo luogo, il Parlamento europeo rafforza e precisa l’obbligo per le società rientranti nell’ambito di applicazione di mappare la propria catena di attività: elemento centrale del nuovo approccio è l’adozione di una metodologia settoriale e basata sul rischio. Nello specifico, le imprese interessate dovranno, innanzitutto, definire l’ambito di applicazione basandosi esclusivamente su informazioni ragionevolmente disponibili (come fonti pubbliche, dati secondari o esperienze precedenti) per identificare le aree delle proprie attività, delle controllate e dei partner commerciali in cui gli impatti negativi sono più probabili e rilevanti (articolo 8, paragrafo 2, lettera a), considerando 22). In questa fase preliminare, non è previsto l’obbligo di richiedere informazioni ai partner commerciali (articolo 8, paragrafo 3, considerando 22).
Il Parlamento europeo introduce, inoltre, un limite massimo alle richieste di informazioni lungo la catena di attività: le aziende soggette alla CSDDD non potranno generalmente richiedere dati ai partner commerciali diretti con meno di 5.000 dipendenti (articolo 8(4)), una soglia molto più alta rispetto alla proposta Omnibus della Commissione (500 dipendenti) e alla posizione finale del Consiglio (1.000 dipendenti). Non stupisce, dunque, che le richieste aggiuntive a tali partner più piccoli saranno, quindi, ammesse solo come ultima risorsa, qualora le informazioni non possano essere ottenute con altri mezzi, e sempre in modo proporzionato per limitare l’onere amministrativo (articolo 8, par. 4, considerando 22). Tuttavia, il limite non è assoluto: qualora emergessero informazioni oggettive e verificabili tali da indicare la possibilità di gravi impatti negativi, comprese violazioni dei diritti umani, le aziende potranno condurre ulteriori valutazioni e, in casi rigorosamente circoscritti, richiedere dati anche ai partner più piccoli, compresi quelli indiretti (articolo 5, considerando 21). Infine, se le imprese non dovessero riuscire a ottenere tutte le informazioni necessarie, dovranno spiegare in modo ragionevole i motivi della mancata disponibilità; in tali circostanze, non saranno, quindi, penalizzate per eventuali fallimenti nel prevenire o mitigare gli eventuali impatti negativi (articolo 8, par. 5, considerando 22).
Ancora, il Parlamento europeo introduce una maggiore flessibilità nella definizione delle priorità dei rischi per le società soggette alla CSDDD. Secondo l’articolo 9 e il considerando 22 bis, le aziende dovranno concentrare gli sforzi sugli impatti negativi più gravi e probabili, valutandone la portata, la gravità e il carattere irrimediabile. Solo una volta affrontati questi rischi entro tempi ragionevoli, le imprese dovranno considerare impatti meno significativi, senza essere penalizzate per eventuali danni derivanti da quest’ultimi. Ancora, viene abbandonato l’obbligo generale di applicazione contrattuale di due diligence a cascata lungo tutta la catena del valore (considerando 22a), segnando un chiaro passaggio da un approccio rigido a uno più proporzionato e basato sul rischio. Le aziende soggette alla CSDDD potranno comunque richiedere garanzie contrattuali ai partner commerciali diretti, ma solo laddove venissero individuati rischi concreti, concentrando così gli sforzi di due diligence dove sono più significativi. La posizione finale rafforza, in aggiunta, l’approccio strutturato per porre fine agli impatti negativi persistenti: l’articolo 11(7) stabilisce che le aziende dovranno astenersi dall’instaurare nuovi rapporti o dall’estendere quelli esistenti con il partner commerciale interessato dall’emergere di un rischio o di un impatto negativo sulla due diligence. Prima di procedere alla risoluzione, le imprese dovranno però adottare un piano di azioni correttive prevedendo tempistiche chiare e, se opportuno, sospendere temporaneamente la cooperazione solo se vi sia una ragionevole aspettativa di successo. La sospensione diventa, quindi, un rimedio facoltativo (articolo 10(4)), da valutare in base a proporzionalità, consultazione degli stakeholder e impatto sui fattori produttivi essenziali.
Per acquisire le informazioni necessarie, le aziende potranno utilizzare risorse quali relazioni indipendenti, soluzioni digitali, iniziative settoriali o multi-stakeholder e dati derivanti da meccanismi di notifica e reclamo (articolo 8(5), considerando 22). Qualora, nonostante l’adozione di misure appropriate, non sia possibile ottenere tutte le informazioni richieste, le imprese dovranno fornire una giustificazione ragionevole, senza incorrere in sanzioni per la mancata prevenzione o mitigazione dell’impatto negativo (articolo 8(5) e articolo 9(3)).
Questo approccio più flessibile si riflette anche nella gestione dei rischi climatici. Il Parlamento europeo ha, infatti, eliminato l’obbligo per le aziende di adottare piani di transizione climatica e adeguare il proprio modello aziendale agli obiettivi di neutralità climatica definiti dall’Accordo di Parigi, considerati sproporzionati e onerosi. Le questioni climatiche continueranno a essere trattate attraverso altri strumenti normativi, come la CSRD, permettendo un’applicazione più mirata ed efficiente della due diligence.
Il Parlamento europeo ha, infine, deciso di non armonizzare il regime di responsabilità civile della CSDDD (articolo 29 e considerando 28), affidando invece agli Stati membri la disciplina delle violazioni degli obblighi di due diligence. Questo significa che l’applicazione pratica e la possibilità di azioni collettive varieranno a seconda del diritto nazionale, anche se, in ogni caso, gli Stati membri dovranno garantire l’accesso effettivo alla giustizia e il pieno risarcimento delle vittime, in linea con gli standard internazionali. Similmente, per quanto riguarda le sanzioni, la posizione finale prevede che gli Stati membri dovranno applicare misure efficaci, proporzionate e dissuasive, tenendo conto della gravità delle violazioni e di eventuali circostanze attenuanti o aggravanti (articolo 27). Le sanzioni pecuniarie saranno calcolate sul fatturato netto mondiale della società, con un massimo del 5%, anche a livello consolidato per le società madri. Inoltre, per garantire uniformità nell’applicazione, la Commissione europea elaborerà orientamenti con gli Stati membri, collegando così la gestione dei rischi, la responsabilità civile e le sanzioni in un quadro coerente di compliance lungo tutta la catena di attività.
Il testo passa ora ai negoziati di trilogo con Consiglio e Commissione europea, cominciati nella giornata di martedì 18 novembre. Per diventare vincolante, la proposta dovrà infatti seguire l’iter legislativo ed essere recepita tramite direttiva, ma i colloqui si annunciano complessi, vista l’intensità dei dibattiti sugli emendamenti alla CSRD e alla CSDDD. Infatti, se da un lato il relatore della Commissione giuridica ha sottolineato come il voto favorevole del Parlamento europeo dimostri come l’Europa possa coniugare sostenibilità e competitività, dall’altro già numerosi soggetti hanno lanciato un appello pubblico congiunto per assicurare che le norme fondamentali in materia di finanza sostenibile siano preservate nell’ambito del processo di semplificazione Omnibus, evidenziando l’importanza di mantenere un equilibrio tra sostenibilità e praticabilità normativa.
Resta, quindi, ora da vedere come i negoziati di trilogo trasformeranno queste posizioni in norme concrete, e se il compromesso finale riuscirà davvero a coniugare sostenibilità, chiarezza normativa e competitività per le imprese europee.
Ricercatrice ADAPT Senior Fellow
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