La proposta di direttiva sul lavoro mediante piattaforme digitali*

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Bollettino ADAPT 9 maggio 2022, n. 18
 
Ringrazio la Commissione lavoro per questa audizione e inizio col rimarcare l’innovatività della proposta di direttiva, in quanto non si limita al problema, all’attenzione dell’opinione pubblica ed accademica nazionale, della qualificazione del rapporto di lavoro tramite piattaforma digitale, ma amplia lo sguardo alla gestione algoritmica dei rapporti di lavoro; partendo, appunto, dal presupposto che i sistemi decisionali e di monitoraggio automatizzati basati su algoritmi sostituiscono sempre più le funzioni che i dirigenti svolgono abitualmente nelle imprese: ad es. assegnano compiti, impartiscono istruzioni, valutano il lavoro svolto, offrono incentivi o impongono sanzioni.
 
Le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali oggetto di tale gestione algoritmica spesso non dispongono di informazioni sulle modalità di funzionamento degli algoritmi, sui dati personali utilizzati e sul modo in cui il loro comportamento incide sulle decisioni prese dai sistemi automatizzati. Né ne sono consapevoli i rappresentanti dei lavoratori e gli organismi ispettivi che operano nei diversi Stati.
 
Si tratta di una prospettiva che si distanzia anni luce da quella che aveva lo Statuto dei lavoratori allorché si proponeva di limitare il potere di controllo del datore di lavoro: a quel tempo, nel momento in cui il legislatore ribadiva la necessità del controllo dell’uomo sull’uomo, ai fini della tutela della dignità della persona che lavora, visualizzava delle tecniche automatiche di controllo rudimentali.
 
La digitalizzazione costituisce oggi un presupposto del tutto diverso che costringe ad individuare nuovi diritti della persona (o diritti che si declinano in modo diverso).
 
Per questo la proposta di direttiva si preoccupa ancor più di (o comunque oltre a) garantire la “corretta determinazione della situazione occupazionale”, ovvero della qualificazione del rapporto di lavoro, di promuovere la trasparenza, l’equità e la responsabilità nella gestione algoritmica (capo III) e di migliorare la trasparenza del lavoro mediante piattaforme digitali, anche transfrontaliere (capo IV).
 
È chiaro nella relazione ed anche nei considerando – sui quali mi soffermo perché, come sempre, altamente esplicativi della proposta di direttiva vera e propria – che l’intendimento principale è di garantire un’equa gestione algoritmica per tutti: anche per i veri lavoratori autonomi e per le altre persone che svolgono un lavoro tramite piattaforma e che non hanno un rapporto di lavoro subordinato.
 
Certo, vi è anche l’intendimento di combattere il lavoro autonomo fittizio. Ed è vero che a livello UE vi è un elevato numero di procedimenti giudiziari su questo aspetto, con le conseguenti incertezze e le difficoltà di mantenere condizioni di parità tra gli Stati membri, come si rileva nella relazione.
 
Tuttavia anticipo che questa è una materia di non facile armonizzazione, considerati i differenti approcci degli Stati membri al problema generale autonomia/subordinazione e alla regolazione specifica del lavoro tramite piattaforma (dal momento che vi è pure questo profilo, avendo alcuni Stati regolato specificamente e con varie impostazioni il lavoro tramite piattaforma).
 
Sul primo aspetto – della corretta qualificazione – in Italia (come in altri Paesi) ci si è molto soffermati, mentre poco si è riflettuto sulla gestione algoritmica dei rapporti di lavoro. Sotto questo profilo, va dunque salutato con favore il dinamismo mostrato dalla Commissione con la proposta di direttiva in esame, che peraltro si affianca ad una proposta di regolamento del 21 aprile 2021 riguardante in generale l’uso dell’intelligenza artificiale (anche nei rapporti di lavoro che non si svolgono tramite piattaforma). Si pensi alla precisazione della necessità che il soggetto all’algoritmo abbia una “persona di contatto presso la piattaforma digitale” per offrire allo stesso la possibilità di discutere e di chiarire i fatti. E anche alla necessità di supplire alla mancanza di un luogo fisico in cui i lavoratori tramite piattaforma digitale si possono conoscere al fine di tutelare i propri interessi (attraverso, ad es., la creazione di canali di comunicazione all’interno dell’infrastruttura delle piattaforme digitali).
 
Venendo al testo, la prima parte riguarda la “corretta determinazione della situazione occupazionale delle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali”. Una formula apparentemente neutra, ma che viene utilizzata per stabilire principi importanti, quali l’irrilevanza della qualificazione data dalle parti e, soprattutto, la “presunzione legale” di subordinazione nel caso in cui la piattaforma digitale controlli “l’esecuzione del lavoro” della persona che lo svolge.
 
Il meccanismo è stato preferito rispetto ad altre scelte regolative (del tipo tertium genus, alleggerimento oneri probatori, meccanismi di certificazione) ed è stato caldeggiato dalla CES.
 
Il controllo sull’esecuzione del lavoro si ravvisa laddove vi sia la presenza di almeno due dei cinque elementi elencati: a) determinazione effettiva del livello della retribuzione o fissazione dei limiti massimi per tale livello; b) obbligo, per la persona che svolge un lavoro mediante piattaforme digitali, di rispettare regole vincolanti specifiche per quanto riguarda l’aspetto esteriore, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l’esecuzione del lavoro; c) supervisione dell’esecuzione del lavoro o verifica della qualità dei risultati del lavoro, anche con mezzi elettronici; d) effettiva limitazione, anche mediante sanzioni, della libertà di organizzare il proprio lavoro, in particolare della facoltà di scegliere l’orario di lavoro o i periodi di assenza, di accettare o rifiutare incarichi o di ricorrere a subappaltatori o sostituti; e) effettiva limitazione della possibilità di costruire una propria clientela o di svolgere lavori per terzi.
 
Si tratta di elementi molto variegati (che non si fondano sul solo control test) e tra i quali compaiono indici che, almeno da noi, non sono necessariamente sintomo di subordinazione (basti pensare alle regole per quanto riguarda l’aspetto esteriore e la limitazione della possibilità di svolgere lavori per terzi).
 
Si è già parlato, da parte dei commentatori, di indici laschi e del rischio che essi facciano emergere un concetto troppo ampio di subordinazione.
 
Non ho qui il tempo di andare a fondo nel merito. Due sole osservazioni: la presunzione è iuris tantum e può essere vinta dalla prova contraria, che, francamente, non si comprende in che cosa possa consistere.  Che cosa deve (o può) provare chi “confuta” – per usare il linguaggio della proposta di direttiva – la presunzione legale? Si tratta di uno dei punti meno chiari della proposta. Se la prova contraria dovesse ritenersi ammissibile solo per negare la sussistenza degli elementi indicati, essendo essi costitutivi della presunzione, non si tratterebbe di vera prova contraria e di presunzione relativa, ma di presunzione iuris et de iure. Se invece la prova contraria potesse riguardare altri elementi, allora si riaprirebbe la questione qualificatoria.
 
Riferita al nostro ordinamento, l’istituzione di una presunzione legale di esistenza di un rapporto di lavoro (subordinato) non è una novità (basti pensare in passato al lavoro a progetto). Nel nostro caso, tuttavia, trattandosi di una presunzione vincibile dalla prova contraria, non è differente funzionalmente (e tecnicamente) dalla esplicitazione, per i casi di lavoro tramite piattaforma, degli indici di subordinazione: un’esplicitazione controvertibile in sé, nel merito, per i criteri prescelti e che, secondo qualcuno, rischia di riverberarsi in modo poco controllato sulla nozione generale di subordinazione ex art. 2094 c.c.
 
Personalmente non credo che sia così: se mai la proposta venisse approvata, ben si potrebbe (anzi si dovrebbe) ritenere che si tratta di una (tecnica o di una) definizione ad hoc per i lavoratori tramite piattaforma, che non impatta di per sé sull’art. 2094 c.c. Con ciò, ponendosi nel solco di una legiferazione, che a mio avviso si impone sempre più, per singole e specifiche figure contrattuali, senza scomodare la grande madre, cioè l’art. 2094 c.c. In fin dei conti, di definizioni speciali della subordinazione, in relazione alle caratteristiche della prestazione, ve ne sono sempre state nel nostro ordinamento (pensiamo al lavoro a domicilio, al lavoro sportivo, etc.)
 
Meno problematica – e più moderna – è la parte, contenuta nel capo III, sulla gestione algoritmica dei rapporti di lavoro, che include obblighi di informazione dei lavoratori sui sistemi di monitoraggio utilizzati dalla piattaforma e sui sistemi decisionali utilizzati per prendere o sostenere decisioni che incidono significativamente sulle condizioni di lavoro dei lavoratori delle piattaforme digitali (art. 6).
 
È degno di nota che vi si preveda, oltre al monitoraggio umano dell’impatto dei sistemi automatizzati (art. 7), il riesame umano di decisioni significative sulle condizioni dei lavoratori delle piattaforme digitali (art. 8). Gli obblighi di informazione, di monitoraggio e, soprattutto, di riesame umano di decisioni significative si applicano, ai sensi dell’art. 10, anche alle persone che svolgono un lavoro mediante piattaforma digitale e che non hanno un contratto o un rapporto di lavoro, impregiudicato il regolamento UE 2019/1150.
 
Avendo avuto la ventura di essere audita, come esperta, nel corso dell’indagine conoscitiva sulla figura e sulle prospettive di regolazione dei “digital creators”, recentemente conclusa con la pubblicazione del rapporto del 9 marzo 2022, trovo che molti dei problemi di tutela – che attengono in larga parte alla mancanza di trasparenza in occasione di provvedimenti come il ban (cioè l’esclusione dall’utilizzo della piattaforma) e al diritto al contraddittorio – potrebbero trovare così soluzione. Insomma, quanto si è indagato sui digital creators contribuisce a dare concretezza e significato a questa parte della proposta di direttiva; oltre a disvelarne il carattere giustamente onnicomprensivo, dal momento che essa muove dalla prospettiva, indubbiamente nuova e corretta, dei rischi che le piattaforme digitali possono generare, piuttosto che da quella, ristretta, della qualificazione dei rapporti di lavoro sottostanti.
 
Vi è poi la parte, contenuta nel capo IV della proposta, relativa alla “trasparenza in merito al lavoro mediante piattaforme digitali” (che sono datori di lavoro), che si sostanzia essenzialmente in obblighi di fornire informazioni, se richieste dalla pubblica autorità, in ordine al numero dei lavoratori che svolgono regolarmente un lavoro mediante piattaforma e ai termini e alle condizioni applicabili a tali rapporti contrattuali.
 
Essa sconta la difficoltà di raggiungere la realtà delle piattaforme da parte delle autorità nazionali che hanno competenze in materia di lavoro e di protezione sociale (e anche da parte delle rappresentanze dei lavoratori).
 
Infine, vorrei ricordare il capo V, sui “mezzi di ricorso e applicazione”, che attribuisce ai lavoratori, o alle loro rappresentanze, una serie di prerogative, anche di natura processuale, per ottenere il soddisfacimento dei diritti previsti dalla (proposta di) direttiva.
 
Su esso normalmente non ci si sofferma. Tuttavia, accanto a previsioni apparentemente pleonastiche (pensiamo al divieto di licenziamento per il fatto che si siano esercitati diritti previsti dalla direttiva, che rientra nei principi), ve ne sono altre, invece, la cui attuazione può rivelarsi impegnativa per i singoli ordinamenti (si pensi all’art. 16 sull’accesso alle prove; o all’art. 14 sulle procedure per conto o a sostegno di persone che svolgono un lavoro mediante piattaforma digitale).
 
Le disposizioni finali, di cui al capo VI, contengono le clausole classiche di non regresso e di ammissibilità delle disposizioni più favorevoli per i lavoratori (sebbene con un necessario caveat per quanto concerne le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforma digitale e non hanno un rapporto di lavoro subordinato in relazione alle norme di tutela della concorrenza).
 
In conclusione, dei blocchi che compongono idealmente la proposta di direttiva, per molti versi ipertrofica e sicuramente da snellire ed affinare, quelli più condivisibili sono il secondo (concernente la gestione algoritmica) ed il terzo (concernente la trasparenza). Il primo, relativo all’identificazione del lavoratore (subordinato) tramite piattaforma, sebbene essenzialmente volto a dare un quadro unitario (e certo) nell’Unione Europea relativamente alla forma contrattuale, è, nel merito, per i criteri prescelti e la tecnica prevista, in sé opinabile. E potrebbe rischiare di produrre contraccolpi nei diversi sistemi su un tema delicatissimo come la definizione di subordinazione, su cui l’UE non si è mai direttamente avventurata, salve le limitate incursioni da parte della Corte di Giustizia.
 
Mariella Magnani

Professoressa emerita di Diritto del lavoro dell’Università di Pavia
 
*Audizione presso la XI Commissione (Lavoro pubblico e privato) della Camera dei Deputati – XVIII Legislatura – Esame della “Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali (COM(2021) 762 final)”, 21 aprile 2022.

La proposta di direttiva sul lavoro mediante piattaforme digitali*