La classificazione giuridica del lavoro ai tempi della on-demand economy: una lezione americana

Mentre legislatori e sindacati, in tutto il mondo, nonostante alcuni primi tentativi, ancora faticano a capire come intervenire sulla tematica del lavoro on-demand (quello fornito attraverso applicazioni e piattaforme informatiche come Uber, Taskrabbit e Co.) e mentre ancora il dibattito pubblico europeo sembra interessarsi più ai temi della concorrenza piuttosto che alle dinamiche lavoristiche (si pensi alla proposta di legge italiana denominata Sharing Economy Act), alcune importanti novità per i lavoratori della on-demand economy discendono da fonti atipiche. Si tratta dei settlements, ovvero degli accordi con i quali le parti decidono di concludere la controversia senza arrivare a sentenza.

 

Come è noto contro le piattaforme della on-demand economy sono sorte numerose controversie dirette ad ottenere la riclassificazione come lavoro subordinato del rapporto tra i lavoratori e la piattaforma. Anche se alcune aziende che forniscono servizi on-demand hanno preferito adottare un modello che prevede l’assunzione come dipendenti dei propri lavoratori (si pensi, tra gli altri casi, a Managed by Q), molte aziende – e tra queste ci sono sicuramente quelle con il maggior numero di lavoratori –  fondano il proprio business sulla classificazione dei lavoratori come autonomi.

 

Tale classificazione è stata presto oggetto di controversie e rappresenta sicuramente uno dei profili centrali nella discussione lavoristica del fenomeno in tutte le diverse sedi in cui essa sta avvenendo (politica, giudiziale, accademica). Le caratteristiche del modello di business utilizzato da queste piattaforme sono tali che i criteri ed i test utilizzati per stabilire la corretta classificazione dei lavoratori risultano inadeguati, non potendo fornire una risposta univoca e chiara al quesito. Alcune caratteristiche spingono, infatti, verso l’autonomia (es. libertà di scegliere se, quando e dove lavorare), mentre altre (es. sistemi di controllo della prestazione basati su feedback e rating) porterebbero ad una riconduzione al lavoro subordinato. Definire in un senso piuttosto che nell’altro tale questione ha conseguenze fondamentali, dal momento che la maggior parte delle tutele sono riconosciute ai lavoratori qualora assunti come lavoratori subordinati.

 

È importante, di conseguenza, inquadrare il ruolo di questi accordi all’interno del discorso giuslavoristico (per lo più statunitense, essendo qui più sviluppato) sull’economia on-demand. Negli ultimi mesi due delle maggiori piattaforme, ovvero Lyft e Uber (tra loro in competizione nel mercato del ridesharing), sono giunte a concludere degli accordi per risolvere la controversia coi ricorrenti rispetto alla corretta classificazione dei lavoratori, prima che essa potesse essere decisa da un giudice. A questo proposito si potrebbe parlare di “strategia del settlement (per precisione va detto che una dinamica simile aveva già interessato un’altra piattaforma del settore on-demand online in passato: Crowdflower).

 

Innanzitutto occorre sottolineare che le procedure per l’approvazione del concordato tra le parti sono ancora in corso in entrambi i casi: per quanto riguarda Lyft una prima ipotesi di accordo è stata ritenuta inadeguata dal giudice (principalmente per motivi di quantificazione del risarcimento).

 

Ma quali sono le caratteristiche e gli effetti di questi accordi?

 

A livello contenutistico si possono distinguere una parte di tipo strettamente economico e con effetti interni alle parti in causa (liquidazione di un risarcimento nei confronti dei ricorrenti) e una parte che incide sul modello di business e con effetti che si ripercuotono su tutti gli utenti della piattaforma, al di là della partecipazione o meno alla controversia.

 

La parte di maggiore interesse è sicuramente la seconda. Da questo punto di vista si possono leggere i contenuti di maggior effetto a livello di modello economico. Da un lato, non essendo risolta la questione relativa allo status dei lavoratori, permane l’agibilità del modello economico proposto dalle piattaforme, anche se essa potrebbe essere intaccata da nuove controversie che potrebbero sorgere in materia. Dall’altro, si prevedono delle modifiche alle modalità di funzionamento delle piattaforme nell’ottica di un miglioramento delle condizioni dei lavoratori (un nodo fondamentale, trattato da entrambi gli accordi, è quello relativo a modalità e criteri di esclusione o sospensione degli utenti-lavoratori dalle attività della piattaforma; altri punti di interesse riguardano la risoluzione di eventuali controversie tra piattaforma e lavoratori).

 

Al di là dei giudizi relativi a chi risulti vittorioso a fronte degli accordi (cosa ben difficile da stabilire – salvo quanto espresso da Judge Chhabria nel rigettare l’ipotesi proposta nel caso Lyft – dal momento che l’alea della definizione della controversia gravava su entrambe le parti), alcune considerazioni sono opportune.

 

In primo luogo, se è pur vero che l’azienda mantiene l’utilizzabilità del modello di business, questa è sicuramente una conquista provvisoria, dal momento che una nuova controversia potrebbe risollevare la questione e concludersi con una riclassificazione dei lavoratori.

 

In secondo luogo, occorre chiedersi se le modifiche attuate dalla piattaforma, oltre che comportare un miglioramento delle condizioni dei lavoratori, possano potenzialmente avere effetti sulla classificazione degli stessi. È un quesito fondamentale, perché evidenzia come si tratti di modelli organizzativi in continua evoluzione e quindi passibili di diversa collocazione a seconda dello stato di evoluzione cui si riferisca la conclusione della controversia. Non solo, quindi, le diverse piattaforme utilizzano versioni del modello di business diverse con implicazioni importanti rispetto alla configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato tra piattaforma e lavoratore, ma le singole piattaforme si trasformano (anche in ragione delle controversie), con esiti di ulteriore incertezza rispetto alla valutazione del modello.

 

La “strategia del settlement”, allora, potrebbe a livello di effetti ritenersi come una prassi dilatoria che consenta alle piattaforme di continuare ad operare con il proprio modello e al contempo procedere con azioni di lobbying, ma anche con aggiustamenti parziali, al fine di ritagliarsi una vantaggiosa operatività al di fuori delle normative giuslavoristiche tradizionali.

 

Questo porta a maggior ragione a ritenere, che, se si vuole dare risposta alle esigenze dei lavoratori della on-demand economy, la via della riclassificazione giudiziale non è quella adatta e che è, quindi, richiesto uno sforzo al legislatore per rispondere a queste dinamiche, con una disciplina che sappia regolare un fenomeno in evoluzione, conformandolo ai migliori interessi della società, ma senza soffocarlo.

 

Per questo motivo si può ritenere che un’azione legislativa che abbia queste finalità debba muoversi in un orizzonte di senso più ampio di quello della on-demand economy per come oggi individuata, collegandola ad altri fenomeni che caratterizzano il mercato del lavoro di oggi (tra questi, sicuramente la crescita dei cosiddetti alternative work arrangements) in modo tale da approntare risposte che siano utili al mercato del lavoro in generale e sappiano sopravvivere alle repentine trasformazioni che lo interessano.

 

A livello di dettaglio, ovvero di risposta a specifiche peculiarità del modello economico, essa dovrà caratterizzarsi per flessibilità, considerato che aggiustamenti e modifiche potrebbero essere richiesti repentinamente. Allora fondamentale potrà essere l’apporto delle parti sociali e, di conseguenza, necessario un intervento volto ad attivarle in questo senso, rimuovendo gli ostacoli legali che impediscono il loro operare.

 

 

Emanuele Dagnino

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT – Università degli Studi di Bergamo

 

@EmanueleDagnino

 

 

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