Jobs Act: il più costoso dei flop

Più di un anno fa, su Panorama, avevamo avanzato una previsione, di quelle si spera sempre non si avverino mai. L’ipotesi era che il primo anno di Jobs act avrebbe avuto un costo superiore alle previsioni e che i nuovi contratti sarebbero stati l’alibi per Matteo Renzi per costruire una continua campagna mediatica sul mito del lavoro stabile.

 

A distanza di oltre 12 mesi questa dinamica non solo si rivela tristemente attuale, nonché una costante di tutto il 2015, ma rischia di essere un vero e proprio boomerang. Innanzitutto i numeri: qualche giorno fa l’Inps ci ha consegnato i dati definitivi sui contratti stipulati utilizzando gli sgravi fiscali, si tratta di 1,5 milioni. Questo porta a dire che i costi per coprire la decontribuzione potrebbero sfiorare i 20 miliardi di euro, con una assenza di coperture di oltre 4,5 miliardi rispetto alle stime del governo (si veda la stima ADAPT usando i dati forniti da INPS e le stime contenute nella relazione illustrativa della legge di stabilità 2015.

 

Il tutto per soli 186 mila occupati in più nel corso dell’anno passato, a dimostrazione che la quasi totalità delle nuove onerose assunzioni è composta da trasformazioni di contratti esistenti, con una percentuale molto bassa di occupazione aggiuntiva. E senza occupazione aggiuntiva questa operazione di facciata si traduce non solo in una utile propaganda per Renzi ma anche in un ulteriore colpo al già deficitario bilancio Inps: per i prossimi tre anni quasi un milione e mezzo di persone non verseranno i contributi necessari a sostenere il nostro traballante sistema pensionistico.

 

Difficile dunque valutare positivamente questi risultati, pur certamente importanti dal punto di vista qualitativo e che indicano certo un cambio di tendenza con uno spostamento delle imprese verso le assunzioni a tempo
indeterminato. Il primo problema si pone vedendo i dati Inps di gennaio 2016, il primo mese in cui gli incentivi alle assunzioni «stabili» sono ridotti del 60 per cento. Osserviamo una riduzione notevole dei nuovi contratti a tempo indeterminato, che sono addirittura meno rispetto a quelle di gennaio 2014, anno in cui la decontribuzione non era prevista. È certamente presto per tirare conclusioni definitive, ma il timore che senza la droga fiscale il cavallo non corra più è sempre più probabile.

 

Il secondo problema, o meglio rischio, è rispetto a cosa ne sarà di questi nuovi contratti di lavoro che sono privi delle vecchie tutele dell’articolo 18. Su questo aspetto azzardiamo una nuova previsione, auspicando come sempre di sbagliare. Ossia che, essendo in realtà tali contratti molto meno stabili di quanto raccontato dalla retorica governativa in virtù di una più estesa flessibilità in uscita, vedremo tra un paio di anni un effetto boomerang dato dai licenziamenti di molti lavoratori. Lo dice ora anche la Corte dei conti, nella sua valutazione del bilancio Inps, e invero già uno studio Uil mostrava qualche mese fa come l’impresa che assume usufruendo degli sgravi riesce a fare cassa licenziando un lavoratore per il quale, in caso di illegittimità, deve pagare solo alcune mensilità, comunque inferiori al guadagno avuto tramite l’esenzione fiscale.

 

Siamo i primi a dire che in un mercato del lavoro moderno, caratterizzato da cicli economici brevi quanto incerti, il licenziamento è una variabile da tenere sempre in considerazione. Ma questo è possibile solo se esistono efficienti politiche attive del lavoro in grado di aiutare i lavoratori nei periodi di transizione dopo la perdita del proprio impiego. Purtroppo questo è il tassello mancante del Jobs act, come dimostra il fallimento (ormai ammesso da molti) di Garanzia Giovani. Se Renzi avesse messo i miliardi della decontribuzione sui servizi di ricollocazione, forse oggi il quadro sarebbe diverso anche se comprendiamo che politiche serie di formazione e riqualificazione non aiutano a conquistare le pagine dei giornali e quel consenso a cui è funzionale lo «storytelling» governativo.

 

Un calo di assunzioni stabili» nel 2016, il rischio di conclusione anticipata dei rapporti avviati nel 2015 al termine del bonus e l’assenza di politiche attive che aiutino questi nuovi disoccupati. Qualcuno potrebbe dire che si tratta di scenari da «gufi» ma, rimanendo nella metafora ornitologica, ci sembra che non servano aquile per cogliere che stiamo parlando di rischi molto concreti, e in alcuni casi scenari già in atto.

 

Ci auguriamo ovviamente di sbagliare e ci limitiamo per ora ad accompagnare con un sorriso l’ultima boutade di Pier Carlo Padoan. Pare infatti che i cinesi, che da anni stanno fiaccando l’economia italiana anche grazie allo sfruttamento sistematico della manodopera, pur non importando i nostri prodotti di qualità siano però interessati a copiare il Jobs act. Fare previsioni economiche è indubbiamente molto difficile, anche per un ministro esperto come Padoan, che però a difesa della sua autorevolezza e reputazione dovrebbe sapere che in Cina esiste da tempo il contratto a tutele crescenti: un mese di preavviso e una mensilità per ogni anno di servizio, entro un tetto massimo di 12 mesi, per licenziare comodamente un lavoratore.

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

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