Il significato del lavoro: quale rapporto tra persona e cambiamenti nella struttura dei legami lavorativi

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Bollettino ADAPT 20 febbraio 2023, n. 7
 
Occuparsi di lavoro oggi vuol dire imbattersi nell’ormai nota questione del mismatch di competenze che comporta la difficoltà delle imprese nell’assumere lavoratori con abilità e capacità adeguate ai compiti da svolgere, e il malcontento di chi non riesce a trovare una occupazione in linea con il livello di istruzione e competenze che possiede. Un punto di osservazione da cui studiare questo fenomeno è il cambiamento che, nel corso del tempo, ha attraversato il significato culturale del lavoro. Pensiamo al rapporto tra la persona e la sua occupazione entro le trasformazioni sociali e culturali che hanno riguardato l’organizzazione degli spazi e dei tempi del lavoro: oggi stiamo assistendo a una polverizzazione dei rapporti lavorativi entro un paradigma culturale che sembra faticare a integrare la produttività individuale con il benessere della comunità. L’attenzione rimane sull’individuo e sul suo diritto alla realizzazione personale entro un contesto in cui è difficile produrre risorse anziché consumarle. Il rapporto con la gerarchia all’interno delle organizzazioni rischia di esaurirsi entro un conflitto tra il desiderio di autonomia e la necessità di dipendere dalle regole stabilite per il corretto svolgimento dei compiti. Un’alternativa arriva dalla sharing economy dove i rapporti sociali diventano possibili interlocutori con cui condividere un interesse e un bisogno.
 
A partire da queste premesse, l’obiettivo del presente contributo è ricostruire parte delle vicende storico-culturali che hanno segnato il legame tra persona e lavoro; verrà proposta la riflessione presente nell’articolo di Fiorella Bucci e Sonia Giuliano (Bucci, F., & Giuliano, S. (2018). Come sta cambiando il significato del lavoro: dal mito individualista del progresso a nuove forme di integrazione tra appartenenza e creatività. Rivista di Psicologia Clinica, (2), 34-51.), le quali si sono occupate di studiare il significato che gli individui assegnano alla propria occupazione. Le Autrici invitano a esplorare il contesto più ampio in cui si inserisce la questione di cui intendiamo occuparci: le forme del lavoro sono oggi in rapido mutamento e la crescente destrutturazione dei legami lavorativi realizzata in molti settori dell’economica sembra corrispondere, sul piano dei vissuti soggettivi delle persone, a un cambiamento nell’esperienza di attribuzione di senso e di prospettive al lavoro. I significati con cui le persone organizzano il loro rapporto con il posto di lavoro non riguardano tanto il singolo individuo e il rapporto personale con l’occupazione, bensì l’insieme delle esperienze condivise a livello sociale ossia le “culture del lavoro” (Bucci & Giuliano, 2018, p. 36).
 
L’ipotesi delle Autrici è che la crisi finanziaria del 2008 abbia testimoniato l’insostenibilità di alcune culture del lavoro che hanno retto lo sviluppo dei mercati negli anni del neoliberismo. Si trattava di miti culturali basati sull’esaltazione dell’individualismo di cui possiamo ripercorrere le vicende attraverso il liberismo economico, basato a sua volta sul fondamento etico dell’utilitarismo: il benessere della collettività passa attraverso la liberazione delle aspirazioni individuali, dissolvendo vincoli, regole e soprattutto appartenenze; infatti, l’uomo che libera le proprie pulsioni e si fa guidare da esse per soddisfare i suoi bisogni, contribuirà a perpetuare le disuguaglianze e le ingiustizie sociali, ma al tempo stesso promuoverà lo sviluppo del commercio, delle arti e della ricchezza in generale. È qui che troviamo il fondamento della teoria economica classica e del suo homo oeconomicus la cui conseguenza sul piano sociale è il mito del progresso come perseguimento senza fine di maggior benessere individuale, ignorando i limiti insiti nel confronto con la realtà.
 
Il neoliberismo degli anni Ottanta è il prodotto di questo mito dove la esasperata celebrazione dell’individuo ha generato la scomparsa di ogni interesse per la dimensione della comunità. È la stagione della new economy, del talento e delle capacità che sostituiscono – almeno nella narrazione sociale – l’esperienza tra i criteri di valutazione del personale nel processo di inserimento in azienda. Il dibattitto culturale è occupato dalla retorica dell’uomo che si è fatto da solo, liberandosi da ogni appartenenza sociale, e diventa pervasivo il mito della meritocrazia come garanzia di poter scalare le gerarchie. È in questo clima culturale che le organizzazioni produttive iniziano a non essere più investite da una funzione di appartenenza identitaria per i lavoratori, al contrario viene promossa la polverizzazione dei rapporti all’interno di una strategia per la massimizzazione dei risultati (Bucci & Giuliano, 2018).
 
È il caso, ad esempio, delle piattaforme digitali, esito di una tendenza imprenditoriale il cui obiettivo è facilitare l’incontro tra offerta e domanda di un servizio, prestazione o bene all’interno di un cambio di paradigma nel modello produttivo definito crowdwork, letteralmente lavoro-folla: l’organizzazione è costituita da un insieme di lavoratori, ognuno dei quali produce il suo servizio indipendentemente dagli altri dal momento che i tempi e luoghi del lavoro dipendono dalla domanda del cliente e dalle fluttuazioni che segue. Potremmo dire che il lavoro inteso come esperienza organizzata in modo prevedibile nel tempo e nello spazio, si è trasformato in un insieme di prestazioni erogate da una folla di individui che impegnano frammenti del proprio tempo grazie al collegamento delle piattaforme digitali.
 
La sociologia esplora questo fenomeno segnalando un’antinomia tra la maggiore autonomia che il lavoratore ha nel gestire il tempo dedicato al lavoro e la precarietà del lavoro stesso che rende la prestazione sempre più dipendente dalla gerarchia che detta le regole di gestione del servizio. Ricordiamo che in questa tipologia di piattaforme spesso i lavoratori non incontrano i colleghi o i datori di lavoro dal momento che il tutto avviene attraverso operazioni di assegnazione online dell’incarico e anche la valutazione del servizio è effettuata attraverso i feedback diretti del cliente. La dipendenza dalla gerarchia, in questo contesto di polverizzazione dei rapporti lavorativi, sembra rimanere l’unico organizzatore di senso per il lavoratore. Le domande che arrivano alla psicologia delle organizzazioni parlano proprio di questa crisi del lavoro dipendente, caratterizzato da una conflittualità e dalla demotivazione dei lavoratori che a volte assume le caratteristiche della malattia come nel caso del cosiddetto Stress Lavoro Correlato. Quello che viene meno è il desiderio di dare senso al proprio lavoro potendo fare affidamento su rapporti con colleghi o con figure gestionali che non si occupino solo di controllare il corretto svolgimento della prestazione, bensì facilitino la possibilità di riconoscere che il proprio lavoro ha senso anche perché è messo in rapporto con l’opera di qualcun altro e che tutti lavorano per costruire un prodotto a partire dalle domande di un cliente.
 
È utile ricordare che l’economia di piattaforma nasce anche per la creazione di sistemi informali di scambio: si pensi alla sharing economy la cui proposta è trovare risorse nella realtà e metterle in condivisione con altri che possono condividere lo stesso bisogno. La sharing economy ci mostra che un’alternativa è possibile quando il contesto non viene ignorato e all’avidità individuale viene sostituita una rete di rapporti identificati come possibili interlocutori con cui condividere un interesse. Questa sembra essere un’alternativa al mito individualista che abbiamo descritto, dove il valore assegnato al bisogno individuale non ha permesso di vedere nei rapporti sociali l’opportunità di costruire risorse anziché consumarle avidamente.
 
Un’immagine rappresentativa del clima culturale di cui ci stiamo occupando è quella proposta da Ruffolo: “la diseguaglianza negli anni del neoliberismo non si esprime più in quella polverizzazione denunciata da Marx tra un pugno di capitalisti e un proletariato immenso e immiserito, bensì nello sgranamento di una maratona sociale dove gli individui sgomitano per superare gli altri(Bucci & Giuliano, 2018, p. 43); in questa proposta tutti sembrerebbero sognatori di fama, denaro e potere fuori da un tessuto sociale che ricomponga e sia in grado di dare forma ai desideri individuali tenendo insieme un’idea di benessere collettivo. Progresso e benessere individuale non sono costrutti da demonizzare dal momento che rappresentano una spinta vitale nello sviluppo delle società; l’aspetto problematico è dato dall’incontro con i contesti di lavoro in cui il mito del successo individuale quale prova della potenza creatrice del singolo al di fuori di ogni appartenenza sociale, svuota di significato il lavoro stesso che diventa palcoscenico di personalismi e supremazia dell’uno sull’altro. L’alternativa è altrettanto faticosa ossia il lavoro come obbligo e vincolo alla propria autonomia. Come proposto nel presente contributo, l’esaurirsi del significato del lavoro entro un compito a cui adempiere è il prodotto di miti individualisti che hanno animato l’organizzazione neoliberista del lavoro: questa ha spostato l’accento dalla funzione sociale del lavoro al mito dell’occupazione come strumento di realizzazione personale, la quale si è infine tradotta in un avido accumulo di ricchezza e potere (Bucci & Giuliano, 2018).
 
La strada da intraprendere per le discipline che intendono intervenire sul significato attribuito al lavoro potrebbe essere rilanciare negli spazi del dialogo sociale una discussione su quali strumenti è possibile sviluppare affinché l’appartenenza al lavoro possa ricostruirsi come esperienza desiderabile di rapporto con la propria opera, il cui valore si situa nel farla bene, dedicarvi tempo e cura, anche grazie a profili professionali in grado di occuparsi del ruolo che questi processi hanno nel rapporto più ampio tra persona, lavoro e salute.
 
Ilaria Fiore

Scuola di dottorato in Apprendimento e Innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@ilariafiore_

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