Il rischioso bluff del Jobs Act

Non si ferma la danza dei numeri. Un suono martellante come sottofondo: quello della grancassa della propaganda. Un susseguirsi di comunicati e fulminanti tweet che non ammettono repliche. E così è davvero difficile comprendere, per i non addetti ai lavori, il reale stato di salute del nostro mercato del lavoro. Assecondando i desiderata del Governo, anche l’Istat, dopo le tensioni estive col Presidente Alleva giustamente infastidito dal balletto dei numeri, propone ora una fotografia rassicurante. L’occupazione è in crescita, almeno se prendiamo come riferimento l’anno di insediamento al Governo di Matteo Renzi. Tutto bene, dunque. Se non fosse che le preoccupazioni delle famiglie non sono affatto scemate e così i problemi dei tantissimi giovani senza un lavoro e una speranza. Chi ancora fatica a trovare un impiego, e sono davvero tanti, si chiede cosa stia succedendo. E cioè se il problema non sia forse lui, il suo bagaglio di esperienze e competenze o anche la mancanza delle “giuste” conoscenze, in una congiuntura economica che viene dipinta come ampiamente favorevole. Perché l’Italia riparte, ce lo hanno detto e ora tutti ci crediamo.

 

La verità, va detto ai tanti scoraggiati che pensano di essere loro il problema, è che l’occupazione registra una modestissima risalita ed è invece in profondo rosso se si analizza la situazione occupazionale non in funzione delle esigenze di comunicazione del Governi, ma da quando i problemi sono iniziati. Allargato l’orizzonte al 2008, quando siamo entrati nel pieno della “grande crisi”, si nota agevolmente come a salire sia solo la disoccupazione, con punte drammatiche per i giovani, mentre il tasso di occupazione, che è certamente l’indicatore più importante per valutare lo stato di salute di un Paese, è in fase di crollo costante. Puntiamo forse alla maglia rosa, come dice il Premier pensando alla nostra leadership in Europa e nel mondo, ma ancora ci mancano ben 7 milioni di posti di lavoro per avvicinarci alle medie occupazionali dei Paesi più virtuosi.

 

Su 100 persone che vivono in Italia sono solo 37 quelle che hanno un lavoro e ancora meno saranno nei prossimi dieci anni a causa della bassa natalità e dell’invecchiamento della popolazione. Questa è la vera situazione occupazionale in Italia, dove chi lavora deve mantenere (anche in termini di contribuzione al welfare pubblico) se stesso e altre due persone. Ed è qui che si misura il fallimento del Jobs Act e della misura di decontribuzione. Oltre 15 miliardi stimati dal Governo, ma realisticamente molti di più, senza incidere sulla priorità di creazione di nuova occupazione che è poi la principale leva per aumentare la produttività nel nostro Paese. A crescere è solo l’occupazione degli over 55, ma questo più a causa della progressiva attuazione della legge Fornero sulle pensioni che per meriti della propagandata “svoltabuona” che tutti attendiamo e che però, dati alla mano, ancora non c’è. A fine anno potremo certamente contare, come dice Renzi, un milione di nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato che però non sono “posti” aggiuntivi e tanto meno posti “stabili” visto che il Jobs Act cancella per i nuovi assunti l’articolo 18. Uno spreco di risorse pubbliche che non potevamo permetterci. Una “droga”, come hanno candidamente ammesso i consiglieri economici del Premier che, oltre a non contribuire a migliorare la situazione occupazionale complessiva, ha finito per penalizzare, in quanto misura non selettiva, i gruppi più deboli del mercato del lavoro, giovani e donne in primis.

 

Paradossale che riforme fatte nel nome dei giovani finiscano col metterli ai margini non solo oggi, in ragione dei minori incentivi per la loro assunzione, ma soprattutto domani, per pagare il costo salato della inutile misura di decontribuzione. Un milione di “nuovi” contratti, prevalentemente stabilizzazioni senza articolo 18, che non verseranno i contributi alle deficitarie casse dell’INPS per i prossimi tre anni. Una brutta notizia, per le prospettive occupazionali dei nostri ragazzi, solo se si considera che la loro disoccupazione e inattività sono principalmente dovute all’elevato costo del lavoro. Un costo che, in buona parte, è proprio il costo contributivo che sostiene un sistema del welfare pubblico largamente deficitario.

 

Paradossale anche che, dopo aver gettato al vento ingenti risorse per una operazione di finta stabilizzazione del lavoro degli adulti, si proponga ora, per voce del Presidente dell’INPS ma con strategia concordata col Governo, un grossolano e costoso piano di prepensionamenti degli over 55 con l’obiettivo di dare opportunità occupazionali a quei giovani che la decontribuzione ha penalizzato e che il Jobs Act ha marginalizzato demolendo alle fondamenta un sistema dell’apprendistato che a fatica si stava rilanciando con la riforma Berlusconi del 2011.

 

Un cortocircuito figlio di una scarsa conoscenza delle dinamiche demografiche italiane e delle previsioni che molte istituzioni, in primis la Commissione europea diffondono con regolarità. È un esercizio utile leggere con attenzione l’Ageing Report 2015, poiché si scoprono scenari che non possono che determinare le scelte in merito a politiche di welfare e di regolazione del mercato del lavoro. Prendendo come anno di riferimento il 2040 avremo una popolazione di 66.3 milioni, di cui il 28.9 over 65 (rispetto ai 21 di oggi), con un conseguente aumento di costi per le spese sanitarie, previdenziali e assistenziali. Rispetto alla composizione della forza lavoro il 25% sarà costituito dalla fascia 55-64 anni, rispetto al 15% di oggi, esattamente quella classe d’età che oggi vorremmo mandare con largo anticipo in pensione.

 

A chi ricorda il successo di alcuni modelli stranieri, si può in facilmente replicare che ben diversa è la storia italiana della “staffetta intergenerazionale”, più volte annunciata e mai attuata non solo perché tecnicamente male impostata e troppo costosa, ma anche perché basata su una premessa profondamente sbagliata e cioè sulla illusione che i giovani possano trovare lavoro solo a scapito dei lavoratori più anziani.

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

* In corso di pubblicazione anche su Panorama, 25 novembre 2015.

 

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