Il licenziamento nelle piccole imprese dopo la sentenza n. 118/2025: una svolta che apre a conflitti?
| di Antonio Tarzia
Bollettino ADAPT 15 settembre 2025, n. 31
Se qualcuno si lamentava delle troppe riforme sui contratti a termine, dovrà cominciare a fare i conti anche con quelle sui licenziamenti individuali, introdotte dal 2012 in poi non solo dal Legislatore ma anche (surrettiziamente) dalla Corte Costituzionale. Un po’ di cronologia si impone, prima di perdere il filo dei fatti (e degli antefatti) che precedono la sentenza n. 118/2025, che ancora una volta interviene sull’indennità per licenziamento illegittimo, in questo caso riferita alle (sole) piccole imprese, cosiddette “sotto soglia”.
L’art. 8 della legge n. 300/1970 (c.d. Statuto dei Lavoratori) nella sua originaria versione prevedeva la tutela reintegratoria per ogni ipotesi di violazione di legge e di procedura. Non fissava un limite massimo di risarcimento, che tuttavia lievitava in assenza di un termine di decadenza dell’esercizio dell’azione giudiziaria. Si era infatti consolidata nel tempo la prassi di agire in giudizio a ridosso del termine quinquennale di prescrizione, beneficiando in tal modo, in caso di esito positivo della lite, di un elevato numero di mensilità intercorrenti tra la data del licenziamento e quella del ripristino del rapporto di lavoro.
Con questa strategia processuale, inoltre, il lavoratore indirettamente beneficiava del “rischio causa” inducendo il datore di lavoro a transigere la lite giudiziaria, anche nei casi poco dubbi o incerti per la parte datoriale. L’art. 18 non interveniva sulle piccole imprese, restando disciplinate dalla legge n. 604/1966 (e sue modifiche del 1990) che non prevede la reintegra e limita l’indennità risarcitoria tra un minimo di 2,5 e un massimo di 6 mesi di retribuzione, elevabile a 10 o 14 mesi in base all’anzianità di servizio maturata dal lavoratore licenziato nell’impresa.
Il “collegato lavoro” del 2010 (legge n. 183/2010) poneva un argine a questa prassi introducendo il termine di decadenza per l’azione (270 giorni, poi ridotti a 180), decorrenti dalla data di impugnazione del licenziamento.
La legge n. 92/2012 (c.d. “legge Fornero”) introduce la prima limitazione alla tutela reintegratoria, prevista ai soli casi di insussistenza del fatto contestato ovvero ai casi in cui il fatto medesimo è riconducibile a condotte punibili con sanzioni conservative in base al codice disciplinare di riferimento. Negli altri casi di illegittimità del licenziamento la stessa prevede la [sola] tutela indennitaria, fino ad un massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, ridotta alla metà nei casi di vizi della procedura.
Attraverso la modifica dell’art. 7 della legge n. 604/1966 la legge introduce una procedura conciliativa preventiva ed obbligatoria avanti all’ITL per i licenziamenti per GMO di lavoratori addetti a imprese “sopra soglia”, che ha tempi rigidi e cadenzati e lascia alle parti l’onere di indicare le proprie ragioni e definire l’importo della conciliazione o le (eventuali) misure di sostegno, alternative al licenziamento. In caso di accordo la procedura si conclude con la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con reciproci benefici (rispettivamente: NASPI al lavoratore e rinunzia all’impugnazione a favore del datore di lavoro). In caso di mancato accordo il datore di lavoro può procedere al licenziamento, ma il giudice, successivamente adito, deve valutare ai fini della decisione il comportamento delle parti durante il tentativo di conciliazione (leggi: serietà delle motivazioni reciprocamente addotte, congruità dell’offerta e/o delle misure alternative proposte).
La procedura è in via di progressiva estinzione, atteso che si applica ai lavoratori a tempo indeterminato di aziende sopra soglia assunti prima del 7 marzo 2015. Deve infatti tenersi conto dell’attuale abbassamento della durata media di permanenza dei lavoratori nella stessa azienda, certificato dai vari centri studi regionali. Il d.lgs. n. 23/2015 (c.d. decreto del Jobs Act sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti), nella sua attuale versione modificata del c.d. decreto “dignità” ha introdotto ulteriori restrizioni alla tutela reintegratoria, che oggi si applica, oltre ai casi di nullità previsti dalla legge, al [solo] caso in cui sia direttamente provato in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato rispetto al quale risulta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Il decreto, che si applica ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, fissa nuovi limiti di indennità risarcitoria, da un minimo di 4 ad un massimo di 36 mensilità dell’ultima retribuzione, parametrati sulla sola anzianità di servizio in azienda. Per le imprese “sotto soglia” l’art.9 del decreto stabilisce un indennizzo dimezzato che: a) non può superare nel massimo le sei mensilità dell’ultima retribuzione; b) di fatto riduce la maggiore indennità per i lavoratori che raggiungono l’anzianità di servizio (10 o 20 anni) prevista dall’art.8 della legge n. 604/1966.
Il decreto introduce anche una nuova, diversa procedura conciliativa, solo facoltativa, che consente al datore di lavoro, entro il termine di impugnazione del licenziamento (60 giorni), di offrire al lavoratore una somma, variabile da un minimo di 4 ed un massimo di 27 mensilità, non soggetta a contribuzione previdenziale e fiscale e computata in misura di 1 mensilità della retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio prestato in azienda, successivo al limite minimo.
Per le imprese minori, l’offerta si riduce a 1,5 mensilità, incrementabile di un ulteriore 0,5% per ogni anno di anzianità di servizio, fermo restando il limite massimo di 6 mensilità dell’ultima retribuzione di fatto percepita dal lavoratore licenziato. Dette somme, che il datore di lavoro è tenuto a versare al lavoratore con assegno circolare in una delle c.d. “sedi protette”, possono essere maggiorate da un ulteriore importo, a titolo transattivo e per favorire l’accordo conciliativo che, in quanto tale, non gode delle medesime agevolazioni fiscali e retributive.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 194/2018, ha dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 (nella parte non modificata dal “decreto dignità”), ritenendo “irragionevole” il calcolo dell’indennità risarcitoria attraverso il (solo) parametro dell’anzianità di servizio, dovendo il giudice, secondo la Corte, tener conto anche di altri fattori, esplicitati nell’art. 8 della legge n. 604/1966 e nell’art. 18, comma 5, della legge n. 300/1970; in particolare: del numero dei dipendenti dell’azienda, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento tenuto dalle parti nel corso della controversia e delle condizioni economiche delle Parti.
Con successiva sentenza n. 183 del 22 luglio 2022 la stessa Corte, stigmatizzando l’irragionevole disparità di trattamento tra lavoratori di piccole e grandi imprese, ha poi affermato che “c’è ormai una non più procrastinabile esigenza di coerenza intrinseca, che chiama il legislatore a rivedere la disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi, in termini globali per assicurare organicità e sistematicità della regolamentazione».
La Corte Costituzionale è ancora intervenuta sul tema nel 2024:
a) con la sentenza n. 44 /2024, in cui dichiara non incostituzionale l’applicazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti ai lavoratori di imprese sotto soglia che vengono attratte nel nuovo regime del d.lgs. n. 23/2015 in caso di nuove assunzioni che portano l’organico aziendale sopra il tetto dell’art.18 della legge n. 300/1970;
b) con la sentenza n.129/2024, fornendo l’interpretazione autentica dell’art. 3, comma 2 del d.lgs. n. 23/2015 e stabilendo che la tutela reintegratoria va applicata anche in caso di inadempienza del lavoratore per la quale la contrattazione collettiva prevede solo sanzioni conservative.
Con l’ultima decisione in esame (sentenza n. 118/2025) la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art.9, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015 limitatamente alle parole “e non può in ogni caso superare il limite di 6 mensilità”, in quanto il blocco ad un numero di mensilità esiguo vanificherebbe l’esigenza di adeguare l’indennità risarcitoria ad ogni singola vicenda processuale riferita a lavoratori di aziende “sotto soglia”, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza. Nella sua decisione la Corte afferma – in conformità con quanto già sostenuto nella sentenza del 2018 – che non può esservi un unico parametro (nel caso specifico: il numero dei dipendenti dell’impresa) a determinare l’importo del risarcimento, ma occorre prendere in considerazione anche tutti gli altri parametri già richiamati nella predetta sentenza del 2018. Il Giudice dovrà quindi tener conto anche delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento tenuto dalle parti nel corso della controversia e le loro condizioni economiche (fatturato e bilanci).
Le sentenze si rispettano, ma, come si usa dire, si possono commentare nel merito. Si osserva allora che la Corte Costituzionale fonda la sua decisione sul dato “storico” del limite numerico dell’organico aziendale, ritenuto insufficiente ai fini della misura massima dell’indennità risarcitoria per i lavoratori delle imprese “sotto soglia”. Parametro che nei precedenti 55 anni è rimasto vigente senza mai subire la scure della Corte.
Delle due dunque l’una: o la limitazione era irragionevole sin dall’approvazione dello Statuto e in tal caso andava rimossa ben prima- o la Corte avrebbe dovuto chiarire, nella decisione in esame, che l’irragionevolezza della norma non sta tanto nella soglia numerica, quanto nell’insostenibile divario di trattamento economico tra lavoratori di imprese di diverse dimensione, scriteriatamente prodotta negli ultimi 10 anni da una legislazione frammentata e senza una visione organica che soddisfa le contingenti esigenze elettorali senza tener conto delle realtà aziendali.
Divario comprensibile (anche se non accettabile) negli anni ’70, ma del tutto inadeguato nell’attuale, scenario sociale e del mondo del lavoro. Di tal che, l’obbligo del Giudice di interpretare la norma secondo il diritto vivente [che la stessa giurisprudenza della Corte richiama nella risalente sentenza n. 276/1974] si trasforma in un ultroneo intervento legislativo della Corte stessa che si fa supplente “politico” ad un Legislatore sordo ai suoi numerosi richiami, incapace di guidare il necessario cambiamento in una prospettiva che non sia di breve o brevissimo respiro.
È verosimile, in conclusione, che la Corte abbia deciso di “gettare il sasso nello stagno”, pur sapendo (forse confidando) che le onde che inevitabilmente si produrranno sui conti delle piccole imprese e sulla Magistratura del lavoro obbligheranno il Legislatore ad intervenire rapidamente.
In una recente pubblicazione (cfr. Bollettino ADAPT 3 giugno 2025, n. 21) si è posto l’accento su quanto ingiusta e inaccettabile sia la disparità di trattamento tra lavoratori a tempo indeterminato che operano in aziende “sopra o sotto la soglia”, accennando allo scenario attuale del mondo del lavoro, al sostanziale avvicinamento dei conti tra piccole imprese innovative e medio-imprese di servizi e alla ridotta permanenza in azienda dei lavoratori a tempo indeterminato negli ultimi 30 anni. Si potrebbero ovviamente aggiungere ulteriori fattori, non ultima l’incidenza dell’intelligenza artificiale che inevitabilmente spingerà sempre più le aziende a ridurre il numero dei lavoratori, affidandosi a macchine ed a sofisticati software.
A fronte dei quali mutamenti il nostro “sistema paese” continua ad offrire ricette novecentesche, assolutamente inadeguate ad un mondo radicalmente cambiato. In quello stesso articolo si stigmatizza la confusione (e l’allarme nel sistema delle imprese) che già ebbe a suscitare la sentenza del 2018, quando il Giudice del Lavoro si è trovato di punto in bianco costretto a decidere sulle indennità di risarcimento per illegittimo licenziamento senza alcuno steccato di riferimento. Con la sua ultima decisione, la Corte, sconfinando ancora una volta in una prerogativa della politica e delle parti sociali, affida ancora una volta al (solo) Giudice del Lavoro il compito di stabilire, con ampia discrezionalità, quanto sia giusto dare ad un lavoratore e quanto un’impresa possa (e debba) pagare in caso di errore.
Un ultimo passo indietro sembra allora opportuno, per suggerire, anche se non richiesta, una possibile soluzione “tecnica” ad un problema di così grande impatto ed importanza sociale. Già sopra si è fatto cenno alla procedura introdotta dalla legge Fornero che obbliga il datore di lavoro a indicare preventivamente e per iscritto, all’Ispettorato del Lavoro, i motivi per i quali intende procedere al licenziamento per GMO di un lavoratore a tempo indeterminato, e le misure alternative o di sostegno che intende offrire. L’efficacia della procedura sta soprattutto nel fatto che la presenza delle parti al confronto spinge, nella stragrande maggioranza dei casi, a definire il contenzioso già nella prima riunione, che si chiude in modo definitivo e inoppugnabile. Il mancato accordo si verifica solo in casi marginali, essendo il comportamento delle parti oggetto di attenta valutazione da parte del giudice successivamente adito, indipendentemente dall’importo del risarcimento offerto o rifiutato. Il confronto “assistito” obbliga infatti le parti ad un’aperta e franca discussione in cui le stesse hanno modo non solo di illustrare le proprie ragioni, ma anche di far conoscere le rispettive possibilità conciliative. E di intuire, in via preventiva, i possibili punti di incontro ed i rischi di un eventuale, successivo, contenzioso giudiziario.
La diversa procedura introdotta dall’art. 6 e 9 del d.lgs. n. 23/2015, a sua volta, ha il pregio di essere applicabile a tutti i lavoratori a tempo indeterminato in aziende “sotto o sopra soglia” ma ha il difetto di intervenire dopo il licenziamento.
Non v’è chi non intenda che detta offerta, così ravvicinata nel tempo, assuma, per il lavoratore licenziato, il sapore di una colpevole astuzia del datore di lavoro per indurre il lavoratore licenziato ad accettare un limitato compenso, col vantaggio di essere immediatamente percepito evitando la lunghezza ed il rischio del giudizio, anche se avrebbe buone ragioni da sostenere.
Nella realtà dei fatti, tuttavia, è raro che un datore di lavoro proceda al licenziamento in modo avventato e immotivato; e che, a distanza di pochi giorni dal licenziamento, avanzi un’offerta conciliativa sapendo di stimolare nella controparte il dubbio del ricatto per giungere ad una conciliazione “al ribasso”. Esso preferisce sempre attendere il giudizio, confidando di poter sostenere le proprie ragioni, o quantomeno di contenere il costo del contenzioso. Ma questo evidentemente il Legislatore non lo ha voluto prendere in considerazione.
Andrebbe quindi vista con favore l’introduzione di un’unica procedura conciliativa preventiva, destinata a tutti i lavoratori, senza distinzione di data di assunzione, riservata a piccole e grandi imprese ed ogni tipologia di licenziamento, (nullità escluse) armonizzando le due procedure dell’art.7 L604/66 e dell’art.6 del d.lgs. n. 23/2015. Lasciando in tal modo alle stesse parti in conflitto il compito (e l’onere) di porre paletti accettabili e motivate, di esporre le proprie ragioni e confrontare le rispettive offerte in un’ottica di ragionevolezza e con il contributo dell’esperienza di una commissione riunita in “sede protetta”. Il risultato sarebbe certo e garantito.
Nell’attesa, per i prossimi mesi possiamo attenderci una nuova esplosione di contenzioso, con richieste di risarcimento fino a 18 mensilità (metà dell’attuale tetto massimo previsto per le imprese sopra soglia) da parte dei lavoratori di piccole imprese illegittimamente licenziati. A meno che il Legislatore non intervenga prima. E sarebbe il caso.
ADAPT Professional Fellow
Condividi su:
