Il lavoro che cambia e il modello di società che abbiamo costruito

Non spetta all’economista, ma al moralista e al filosofo, decidere quale tipo di società debba essere ritenuta desiderabile (Karl Polanyi, Per un nuovo Occidente).

Siamo andati avanti così rapidamente  in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci (Michael Ende, La storia infinita).

 

 

Il lavoro e le sue cose: breve storia

 

Di fronte alle sfide di un mondo che muta sotto i nostri occhi e pare in capovolgimento totale è proprio vero e anche normale, considerata l’accelerazione con cui i cambiamenti si susseguono, che noi si faccia una fatica tremenda a convertire le nostre idee, le nostre abitudini, le nostre regole, il nostro cuore.

 

Nondimeno, cambiare se stessi e con questa rivoluzione interiore dare il proprio contributo per adeguare le organizzazioni, la società, il paese, ai tempi nuovi è una esigenza non più procrastinabile.

 

Cos’altro fare, d’altronde? Pensiamo forse di poter fermare il progresso tecnologico, pur di sognare un porto tranquillo dove ancorare la nostra scialuppa?

Oppure pensiamo che si possa sbarcare impunemente su Marte portandoci addosso lo stesso sguardo (terrestre) sulle cose assieme a tutti i nostri difetti?

 

La colpa, dicono gli esperti, è tutta del cultural gap[1]. Cioè, se il lavoro ci deve essere dato, se per alcuni il lavoratore è un minus habens[2] bisognoso solo di assistenza, se per talaltri è, invece, solo un costo da minimizzare, se il lavoro continua ad essere organizzato, nelle aziende come negli uffici, secondo i vecchi modelli tayloristi e fordisti e come se famiglia e figli fossero poco più che accessori esistenziali[3] è perché, di fronte al nuovo, noi utilizziamo le categorie mentali che abbiamo strutturato nel passato. Non solo.

A complicare tutto vi è una sorta di vertigine morale, uno squilibrio lacerante tra il progresso tecnico, davvero esponenziale, e quello etico-spirituale, così estremamente trascurato. Il progresso scientifico-tecnologico ci conferisce poteri sino a ieri ritenuti quasi soprannaturali (si pensi, ad esempio, alla manipolazione della vita originata dagli sviluppi della tecnica) senza però che la natura umana migliori di molto rispetto a quella di sempre. E tutto questo proprio adesso che la complessità del nostro tempo esige da noi una maggiore solidità e un uso forte della ragione!

 

Consideriamo brevemente il lavoro e le sue cose. Dove sta andando?

 

Negli anni del boom economico (secondo dopoguerra) i territori da lui frequentati son fatti così: forte presenza dello Stato (aziende e monopoli pubblici), grandi imprese, produzione standardizzata di massa, lavoratori in prevalenza operai, semianalfabeti e addetti a lavori ripetitivi, orientamento alla produzione (l’azienda produce beni, dopodiché li impone alla società).

 

La legislazione lavoristica è tutta incentrata sul rapporto di lavoro dipendente. Il contratto subordinato a tempo pieno e indeterminato è la tipologia contrattuale standard, il modello imperante di regolazione dei rapporti di lavoro, funzionale rispetto alla necessità delle imprese industriali di acquisire in modo duraturo enormi quantità di lavoro massificato e fedele[4] e funzionale rispetto alle istanze di tutela del lavoratore, considerato il contraente debole del rapporto e, per questo, garantito da norme rigide e inderogabili stabilite dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

 

Pattuizioni dirette non sono ammesse. Le leggi e i contratti sindacali disciplinano rigorosamente tutto: l’accesso al lavoro, l’inquadramento professionale, il livello salariale, i tempi, le condizioni, la cessazione del rapporto di lavoro.

 

Fino a quando la produzione di beni di consumo trova sbocchi sul mercato, questo modello fortemente rigido di funzionamento del mercato del lavoro riesce a garantire, non senza contraddizioni e traumi, benessere e sicurezza.

 

Ma a un certo punto le cose cominciano a cambiare e all’instabilità derivante dalla crisi petrolifera degli anni 70 si aggiungono, negli anni 80, 90, 2000, sino ai nostri giorni attraversati da una grave recessione che dal 2007 ha colpito l’economia mondiale, gli effetti dirompenti, sulla quantità, qualità e organizzazione del lavoro, indotti dalle nuove tecnologie, dai cambiamenti demografici, dalla internazionalizzazione dei mercati,  dalla terziarizzazione dell’economia e dai processi di esternalizzazione dei servizi.

 

L’automazione dei processi produttivi, l’abbattimento delle frontiere e l’accresciuta competitività che ne deriva, determinano la crisi della grande impresa (un numero esorbitante di lavoratori viene espulso dai processi produttivi), i posti di lavoro si delocalizzano, nascono strutture produttive più flessibili.

 

All’impresa grassa, subentra l’impresa snella[5].

 

Alla produzione in grandi serie di beni materiali, la produzione, discontinua e variabile, di beni immateriali (servizi, informazioni, elaborazione di conoscenza).

 

All’orientamento alla produzione, l’orientamento al mercato (la produzione si adegua, possibilmente in tempo reale, alle esigenze crescenti dei singoli consumatori).

Al consumo funzionale (prevalenza dei bisogni “forti”), il consumo edonistico (prevalenza dei bisogni “deboli”).

 

A una organizzazione del lavoro di tipo gerarchico, basata sul controllo e sull’esecuzione passiva, una organizzazione di tipo orizzontale, basata sulla motivazione e sul coinvolgimento del lavoratore.

 

A uno Stato centralizzato e burocratizzato, proprietario-gestore diretto di risorse, uno Stato che si pone come organo di coordinamento, decentrato e a sua volta flessibile.[6]

 

Il rapporto di lavoro subordinato appare in declino e non è più l’unica forma di impiego. A esso si accompagna lo sviluppo rapido e crescente del lavoro atipico. La stessa distinzione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo perde molta della sua importanza. La realtà è oggi composta da un continuum di posizioni lavorative che si collocano tra i poli estremi dell’autonomia e della subordinazione[7]. Quest’area di lavoro “ibrido” contava, nel 2013, quasi 3,4 milioni di occupati.[8]

 

A un modello di società basato sul conflitto e la lotta di classe tra capitale e lavoro, imprenditore e sindacato e sulla scissione fra luoghi e tempi di vita, studio e lavoro, fra teoria e pratica, quantità e qualità, etica e affari, universo femminile e universo maschile, mondo degli affetti e mondo della razionalità[9], subentra un nuovo modello di società che suggerisce il confronto, la sperimentazione, la partecipazione dei soggetti e che si muove all’insegna della connessione e della ricomposizione[10] di tutti gli aspetti della vita.

 

Questa società, in cui il tempo e lo spazio si destrutturano per cui diventa possibile, grazie alle tecnologie informatiche, lavorare a distanza e, ovunque ci si trovi, fare qualsiasi cosa mettendosi in rete con altri, è una società basata tutta sul sapere.

 

I servizi, i beni, i processi produttivi incorporano una quantità crescente di conoscenza (know-how). E la conoscenza, appunto, assieme alla capacità di gestire le informazioni assume un ruolo strategico.

 

Il fattore umano ne è la struttura portante. Non più solo costo da minimizzare ma soprattutto risorsa da sviluppare. Non più massificazione, standardizzazione, parcellizzazione, ma idee, valori, intelligenza, creatività, duttilità, responsabilità, autonomia, preparazione culturale.

 

L’intellettualizzazione dell’attività umana, la femminilizzazione, l’estetica, l’emotività, la trasparenza, l’etica, la qualità,[11] appaiono i valori emergenti.

 

Fondamentale è il valore della soggettività. Nella società industriale l’individuo si stemperava nel collettivo, sia esso nel collettivo comunista, in alcune zone del mondo, sia esso nel collettivo del contratto di lavoro.[12] Ciò che ora emerge, contrapposta alla massificazione, è una maggiore considerazione per l’autonomia dell’individuo, la sua dignità, i suoi diritti e interessi.

 

Assai più che semplice titolare di un “rapporto di lavoro”, il prestatore di oggi e, soprattutto, di domani, diventa un collaboratore che opera all’interno di un “ciclo”. Si tratti di un progetto, di una missione, di un incarico, di una fase dell’attività produttiva o della sua vita, sempre più il percorso lavorativo è segnato da cicli in cui si alternano fasi di lavoro dipendente ed autonomo, in ipotesi intervallati da forme intermedie e/o da periodi di formazione e riqualificazione professionale[13].

 

Il lavoro diventa così un percorso da compiere e non più “il posto”, qualcosa cioè cui restare legati tutta la vita. Le tecniche produttive e distributive sono in continua evoluzione; chi può garantire la sicurezza di un lavoro se non la capacità di acquisire nuove competenze per essere sempre professionalmente utili?

 

Questi cambiamenti, davvero formidabili, che attraversano il mondo del lavoro, rendendolo così profondamente articolato e diversificato, comportano indubbiamente dei rischi. Le innovazioni tecnologiche possono non favorire l’occupazione e produrre effetti di cancellazione di posti di lavoro superiori alla creazione di nuovi. Le tecnologie digitali tendono infatti a sostituire velocemente il fattore lavoro facendo così riemergere il concetto di “disoccupazione tecnologica” di cui parlava John Maynard Keynes 85 anni fa. Nei prossimi dieci anni, secondo le previsioni di Carl Frey e Michael Osborne, due ricercatori di Oxford, contenute in Technology at work. The Future of innovation and Employment, il 47% della forza lavoro statunitense rischierà di essere sostituito[14].

 

Se non accompagnate da ammortizzatori sociali forti ed efficaci, da serie politiche di ricollocazione e da una effettiva formazione permanente e continua, la flessibilità e adattabilità crescenti non possono che trasformarsi in una precarizzazione dell’esistente. Proprio ciò che da tanto, troppo tempo oggi si verifica, in quanto incongrue sono le risorse economiche (la Danimarca investe il 2% del PIL in politiche attive, l’Italia spende lo 0,5%, poco più della metà rispetto alla media europea)[15] e così pure le strutture necessarie per far sì che la tutela perduta nel posto di lavoro sia di fatto recuperata nel mercato. Emblematico, al riguardo, il caso dei Centri per l’Impiego, titolari di importantissime funzioni anche con riguardo all’attuazione del programma europeo Garanzia Giovani, che avrebbero dovuto, già da tempo, essere rafforzati. Potenziamento, però, solo cartaceo, avendo lo Stato disinvestito, nei fatti concreti, sulle sue strutture (la spesa per i 556 Centri per l’Impiego nazionali ammonta allo 0,03% del PIL)[16].

 

I grandi cambiamenti che interessano il mondo del lavoro possono essere visti come fonti di opportunità, dunque, con speranza, oppure come ragioni di disagio, dunque, con timore.

Vi è un fatto, però, che essi sono già avvenuti e demonizzarli, per paura o per ideologia, mettendosi sugli occhi delle fette di prosciutto o guardando al presente e al futuro con le lenti del passato non serve proprio a nulla. Anzi, è una vera iattura, perché Chi non vive lo spirito del suo tempo, del suo tempo si becca solo i mali[17].

 

Escluse le risposte in negativo alle sfide poste dai cambiamenti che stanno trasformando il volto della nostra società, si tratta di vedere, in positivo, di quali strumenti la società stessa possa disporre per sostenere le sfide della modernità e governare le tendenze irreversibilmente in atto, rendendole socialmente sostenibili.

 

Ciò che presuppone una riflessione sulla società attuale, sulla sua essenza e caratteristiche fondanti.

Ma prima uno sguardo ai dati.

 

Il modello di società che abbiamo costruito

 

Secondo l’ISTAT in Italia ci sono quattordici milioni e seicentomila cittadini che vivono in una situazione di disagio economico. Dieci milioni sono i poveri. Sei milioni non sono in grado di condurre una vita dignitosa, vivono cioè in condizioni di povertà assoluta. Oltre tre milioni di famiglie non arrivano a 800 euro al mese[18].

 

Elevatissimo il debito pubblico (132,5% del PIL). A febbraio 2015 esso ammontava, secondo  Bankitalia, a 2.169 miliardi di euro[19].

 

Dal Rapporto 2014 della Guardia di Finanza emerge un Paese corrotto e  sprecone: 8.ooo gli evasori totali; danno allo Stato di oltre 4 miliardi di euro;  irregolare un appalto su tre; 2,6 miliardi di euro il costo degli sprechi nella pubblica amministrazione.

 

Imprese, artigiani e famiglie sono strozzati dal fisco. Nell’intero 2014 il rapporto tra gettito fiscale e PIL, cioè la pressione fiscale, è risultato pari al 43,5%. Nel quarto trimestre 2014 la pressione fiscale è salita al 50,3%[20]. In questo momento storico lo Stato sopravvive nutrendosi dei propri cittadini e delle proprie imprese, cioè della società che lo esprime[21].

 

La distanza tra Nord e Sud d’Italia, in termini di differenziali di reddito e di occupazione, si allarga sempre di più. La Banca d’Italia rileva come nel Mezzogiorno crescano sia i tagli alla spesa pubblica che la pressione fiscale dovuta a una crescita di tasse regionali e locali[22].

 

Vi sono piccoli segnali di ripresa economica dovuta soprattutto a fattori esterni come l’euro debole, le misure straordinarie della BCE, il calo del prezzo del petrolio. Condizioni che così favorevoli non si vedevano da decenni. Secondo l’OCSE le previsioni di crescita del PIL sono per l’Italia dello 0,6% nel 2015 e dell’1,3% nel 2016. Nell’area euro, invece, sono dell’1,4% nel 2015 e del 2% nel 2016. Noi cresciamo meno degli altri e ciò ci mette in una posizione che resta rischiosa.

 

Al 1 gennaio 2014 in Italia ci sono 154,1 anziani ogni 100 giovani[23].

 

In base all’ultimo censimento ISTAT, dal 2001 ad oggi la presenza degli stranieri in Italia si è triplicata ma il loro potenziale di integrazione, secondo i rapporti del CNEL, è basso[24].

 

Le quotidiane emergenze degli sbarchi,[25] le immani tragedie senza fine del Mediterraneo[26], gli antichi e recenti scontri a Castel Volturno e a Rosarno fra immigrati e popolazione locale sono espressione di un disastro umanitario senza eguali, di malessere profondo, di illegalità diffusa, di lavoro nero, di un tessuto sociale sempre più disgregato e disumano.

 

Il mercato del lavoro è segnato da una amplissima area di esclusione sociale: le persone in età da lavoro (15-64 anni) che hanno una occupazione e concorrono allo sviluppo economico e sociale del paese sono davvero poche. Il tasso di occupazione regolare è, secondo i dati ISTAT, bassissimo (tra i più bassi d’Europa), pari al 55,7% nel 2014 (in Capitanata è al 37,2%). Il lavoro sommerso (irregolare e nero) registra, invece, il più alto tasso d’Europa e riguarda 5 milioni di posizioni lavorative con 3,5 milioni di lavoratori in nero, 2 milioni solo al Sud[27].

 

Il tasso di disoccupazione è al 12,7% nel 2014 (in provincia di Foggia al 22,8%). I disoccupati sono più di 3 milioni ma ciò che è rilevante è, soprattutto, la durata della disoccupazione ossia la difficoltà di ricollocarsi per chi perde il lavoro, condizione che genera il fenomeno tutto italiano del disoccupato di lunga durata.

 

Il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 42,7% (in Capitanata il 63,7%). Alla fine del 2014 i giovani che non studiano e non lavorano, i NEET, ammontano a 2 milioni e 415 mila. Si tratta del 26% degli under 30, più di 1 su 4.

 

La partecipazione delle donne alla forza lavoro, del 55%, è tra le più basse dell’OCSE e del 7% inferiore alla media. Il tasso di occupazione femminile (46,7%) ci colloca al penultimo posto nell’Unione europea[28].

 

Questi dati, come quello sulla disoccupazione giovanile, sono una vera bomba sociale. Sul sito di Libera, l’associazione contro le mafie fondata da Don Luigi Ciotti, è riportato un episodio al riguardo illuminante: nel giugno 1997 il boss Pietro Aglieri ai magistrati che lo interrogavano disse: Quando voi venite nella scuola a parlare di legalità, di giustizia, di rispetto delle regole, i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono e magari tornano a casa a riferire ai genitori quelle belle parole che hanno sentito. Ma quando questi ragazzi cercano un lavoro, una casa, a chi trovano? A voi o a noi? Dottore trovano a noi. E solo a noi.

 

Dai dati di una indagine promossa dall’Istituto Toniolo sulla condizione giovanile in Italia[29] emerge un quadro ulteriormente peggiorato negli ultimi anni e a dir poco allarmante e davvero sconsolante: i giovani stanno progressivamente scivolando verso la marginalità sociale ed esistenziale.

 

Le nuove generazioni stanno pagando un prezzo altissimo, in termini di accresciuto senso di inutilità e di esclusione, a causa della prolungata congiuntura economica negativa, dello sbilanciamento demografico verso un sempre maggiore peso degli anziani, della permanente difficoltà nell’inserimento lavorativo, dell’enorme incertezza rispetto ai percorsi professionali e alla possibilità di formare una famiglia. L’85% dei 5.000 intervistati (tra i 18-30 anni) ritiene l’Italia un luogo in cui le opportunità di lavoro legate alle proprie competenze sono scarse o limitate.

 

La disoccupazione giovanile è grido di dolore: così si è espresso il Papa il 18 aprile 2015 in occasione della prima visita di stato del Presidente della Repubblica e così Sergio Mattarella: il dramma della disoccupazione e delle nuove povertà rischia di inghiottire il futuro di intere generazioni.

 

L’indagine rileva una vera e propria frattura tra il mondo istituzionale e i giovani. Alla domanda “Da 1 a 10 qual è il tuo grado di fiducia nei confronti delle seguenti istituzioni?” i partiti politici ottengono un voto medio pari a 2,6; le istituzioni politiche locali e nazionali un voto medio inferiore a 3,7; l’Unione europea 3,9; i sindacati 3,9; la Chiesa Cattolica 4,2; la scuola/università 4,7; le Forze dell’ordine 4,9.

 

Quando l’Italia uscì devastata dalla seconda guerra mondiale e dal regime fascista, il giurista Piero Calamandrei, che fu tra gli artefici della Costituzione repubblicana, comprese come ogni speranza di rinascita del Paese non potesse che fare affidamento sul ripristino del principio di legalità come metodo di governo.

 

Oggi, dopo 70 anni di democrazia e con un sistema economico e sociale al collasso, il recupero della legalità appare ancora più urgente.

 

Nel nostro bellissimo e disgraziato Paese la convivenza civile è quotidianamente minacciata non solo dalle diverse forme di mafia o criminalità organizzata ma, soprattutto, da un sistema di corruzione, finanziamenti illeciti e malcostume che, estendendosi dalla politica all’amministrazione fino ai vari organi di controllo, sembra pervadere ogni aspetto della società civile.

 

Non passa giorno senza che giornali  e tv raccontino di scandali e storture (dagli appalti miliardari dell’Expo di Milano allo scandalo veneziano per le tangenti del Mose o allo scandalo sugli appalti pilotati dal Ministero delle infrastrutture dell’attuale governo).

 

La corruzione dei politici o di chi riveste un ruolo pubblico ha ricadute particolarmente gravi sul senso di legalità. Una politica corrotta spinge i cittadini a considerare le leggi come un ostacolo da aggirare e da eludere o da strumentalizzare. Una pubblica amministrazione inefficiente e corrotta li induce a non riconoscere più nelle leggi la tutela dei propri diritti, ma a riporre fiducia in altri mezzi come le raccomandazioni e il clientelismo.

 

Nelle coscienze civiche più avvertite ciò genera scoraggiamento, l’impressione che le cose non cambieranno mai e che il proprio personale impegno in realtà non serva a nulla. È il pericolo da cui ci metteva in guardia lo scrittore Corrado Alvaro quando affermava che la disperazione peggiore di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.

 

Cosa fare per contrastare la corruzione?

 

A parere degli esperti, come il procuratore aggiunto a Venezia Carlo Nordio[30] che coordina l’inchiesta sul Mose, non servono nuove leggi o sanzioni più dure, né autorità di controllo o nuovi supercommissari. Occorrerebbe, invece, snellire la burocrazia, semplificare le procedure, individuare meglio le competenze, eliminare le norme inutili e bizantine sostituendole con regole comprensibili, trasparenti e, proprio perché tali, rese effettive ossia concretamente applicate.

 

Più numerose sono le leggi, meno esse vengono prese sul serio e più avanza la corruzione che a sua volta fa produrre nuove leggi. Basterebbe ricordare le celebri “grida” contro i “bravi”, di manzoniana memoria, oppure ciò che scriveva Tacito già 2 mila anni fa nel III libro degli Annales: Corruptissima res publica, plurimae leges.

 

La crisi come gap culturale ed etico

 

Se questa è la situazione attuale dell’Italia quali le cause che l’hanno determinata e quali i possibili rimedi?

 

La risposta richiede di allargare lo sguardo oltre i dati materiali per riconoscere che la crisi economica e la crisi della legalità democratica sono segno di una emergenza antropologica e sociale che non si riduce a un problema di leggi più o meno numerose  ma ha radici in uno smarrimento che è innanzitutto culturale ed etico.

 

A riprova di ciò vi è il fatto che, ad esempio, nel corso degli ultimi anni sono state diverse le riforme del mercato del lavoro che si sono succedute eppure i problemi dell’occupazione sono rimasti irrisolti perché ciò che manca davvero è la capacità di comprendere la vera natura del lavoro e, ancor di più, la capacità di costruire e rafforzare un consenso e un sentire comune che alle leggi dia respiro e peso di cultura e forza di costume.

 

Ma da dove nasce questa incapacità di costruire una cultura ed un’etica condivisa che sono le fondamenta senza le quali nulla può essere davvero costruito?

 

Innanzitutto bisogna considerare che nella nostra storia non era mai accaduto che si verificasse una scissione così profonda fra le due fondamentali dimensioni che costituiscono l’idea stessa di progresso e cioè lo sviluppo tecnico-economico e quello spirituale-morale.

 

La frase dello scrittore tedesco Michael Ende, posta come incipit di queste riflessioni, dice in maniera suggestiva il dramma del nostro tempo caratterizzato da un vorticoso progresso tecnologico e dalla scomparsa dell’anima, ridotta a psiche, intendendo con ciò l’estraneamento e la condizione assediata dell’uomo conseguenti alla mancanza di un orizzonte stabile di riferimento, culturale ed etico, entro cui i valori della modernità, ossia la nozione di individuo e il diritto che ognuno ha di scegliersi il proprio modo di vita e di ricercare la propria autenticità, possano fondarsi ed esprimersi.

 

La radice profonda della domanda di orientamento esistenziale, sempre più incalzante, è da ricercare nella crisi dei fondamenti e nella difficoltà a ricreare un ordine di valori che consentano all’individuo di sperimentare la propria identità come durata e, perciò, in grado di ispirare e sostenere le sue scelte e di permearne la vita e che consentano altresì alla società di non disgregarsi, impedendo l’erosione dei suoi meccanismi e gangli vitali.

 

Nel Rapporto annuale sulla situazione sociale del Paese, pubblicato a dicembre 2014, il Censis parla di una atonia intellettuale ed etica che rende la nostra società indistinta e sfuggente …., una società sghemba addirittura nei suoi pensieri …, in cui tutto vaga senza radicamenti[31].

 

Una società liquida, secondo la definizione di Zygmunt Bauman[32], in cui gli interessi e i comportamenti individuali e collettivi sono segnati dalla solitudine e si aggregano in mondi che vivono di se stessi senza dialogo e, dunque, senza alcuna efficacia esterna e collettiva.

La realtà italiana viene definita come una società delle sette giare ove il termine “giara” sta ad indicare un contenitore a ricca potenza interna ma con grandi difficoltà a stabilire significativi rapporti esterni.

 

La prima giara è quella dei poteri sovranazionali che sempre più ci condizionano (si pensi ai comportamenti del mercato finanziario mondiale che la collettività non domina e non capisce e ai vincoli delle autorità comunitarie che, per i modi in cui sono praticati, portano a una crescente cessione di sovranità delle realtà nazionali).

 

La seconda giara è quella della politica nazionale che oltre a presentare un basso margine di azione in ambito sovranazionale (per la perdita di sovranità) non è dotata di un immediato potere in ambito nazionale a causa delle difficoltà a gestire i rapporti con le altre istituzioni, con le inefficienze dell’amministrazione pubblica e con i comportamenti collettivi, per cui resta spesso confinata al giuoco della sola politica, resta, cioè, a sobbollire, senza efficacia collettiva.

 

La terza giara è quella del disordinato funzionamento delle istituzioni che, non riuscendo più a dare forma alcuna alla società, per effetto della “liquidità” ossia della crisi delle giunture sistemiche della vita collettiva, vivono in una dinamica tutta loro ed esprimono una estraneità dalla realtà quotidiana. Quello del funzionamento dei ruoli e dei poteri istituzionali è un mondo tutto a giuoco interno, senza alcun serio servizio alla dimensione superiore (la politica) e senza adeguato servizio, al limite anche di comando, verso la dinamica della società. La giara sobbolle in piena inefficacia collettiva.

 

La quarta giara è formata da una minoranza vitale, costituita da medio-piccoli imprenditori ritenuti capaci di trasmettere energia e orientare gli altri segmenti della società i quali, però, sentendosi oltretutto ben poco assistiti dal sistema pubblico, si sono progressivamente estraniati dal destino del Paese, preferendo vivere ancorati alle proprie dinamiche aziendali o individuali. Vitalità, dunque, ma senza efficacia collettiva.

 

La quinta giara è quella della vita, squilibrata e difficile, della gente del quotidiano. Nella società liquida e, dunque, senza ordine sistemico, i singoli soggetti si sentono abbandonati a se stessi, in una obbligata solitudine. Nel Rapporto del Censis gli italiani sono rappresentati come impauriti, vulnerabili e alla fine cinici.

 

Quello della gente del quotidiano è un mondo caratterizzato dalla sospensione delle aspettative (la precarietà crescente, ad esempio, viene vista non come un passo verso la proletarizzazione ma come una fase che comunque regge) e tale sospensione se, da un lato, impedisce una piena coscienza del declino complessivo del sistema, dall’altro può incubare crescenti disuguaglianze economiche con imprevedibili tensioni sociali.

 

Per il momento e fino a quando tale incubazione non avrà effetto, la scena principale è occupata dalla tematica e dalla voglia dei diritti…(si parla di “diritto al diritto”)… specialmente i nuovi diritti nella sfera individuale.

 

La sesta giara è il mondo, consistente e in crescita, del sommerso che rappresenta una componente oramai strutturale della nostra economia in quanto è la base dei meccanismi che consentono alle famiglie e alle imprese di reggere; è il riferimento adattivo di molti milioni di italiani … Se le povertà e le diseguaglianze sociali non hanno finora prodotto tensioni di alta conflittualità, è pensabile che ciò sia dovuto a un flusso di reddito non istituzionale e in diverso modo sommerso.

 

La settima giara riguarda il grande e pervasivo mondo dei media che il Censis descrive come caratterizzato più dal bisogno dell’evento anziché dall’aderenza alla realtà e ai cambiamenti reali in corso nella società. Non, dunque, mezzi attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con esso, ma piuttosto specchi introflessi in cui il sé digitale si contempla e si esibisce. Grande ed evidente presenza, quella dei media, ma limitata efficacia collettiva.

 

Le sette giare costituiscono il nucleo sostanziale dell’attuale società italiana su cui incidono altre variabili non a esse immediatamente riconducibili ma da esse, comunque, condizionate non fosse altro per l’incapacità di trovare soluzioni efficaci (si pensi ai problemi derivanti dalla situazione geopolitica internazionale: dalle drammatiche vicende dell’Africa e del Medio Oriente con una immigrazione massiccia, squilibrata e incontrollata, alla pesantissima minaccia dell’estremismo islamico con gli orrori dell’Isis, di Al Qaeda, di Boko Aram, di Al Shabab).

 

La liquidità è, dunque, ciò che connota la nostra epoca e poiché in una società liquida tutto è liquefatto, l’ideologia di riferimento di questo “ordine” di cose è il relativismo che si impone con i dogmi del linguaggio politicamente corretto e che è divenuto la vera e propria religione dell’uomo moderno[33].

 

Assumendo che tutto si trasforma, il relativismo afferma che non esistono verità (ad eccezione, evidentemente, di quella per cui tutto è relativo) ma solo punti di vista mutevoli.

Vale tutto, dunque, perché nulla vale.

 

Secondo la concezione liberale moderna dello Stato[34] quest’ultimo non dovrebbe assumere alcuna visione etica, poiché deve tener conto del pluralismo delle nostre società che rende impossibile l’unanimità sul piano delle concezioni del bene. Ciò che bisogna ricercare sono regole di convivenza condivise che rendano possibile, a ogni individuo, di perseguire la propria visione del bene e della vita, purché questa non sia di danno agli altri.

 

In realtà questo discorso presuppone che la convivenza sia un bene da tutelare e, in effetti, non è possibile che lo Stato sia moralmente neutrale.

 

Diversi studiosi, fra cui il filosofo Robert Spaemann[35]. osservano come non si possa sostenere coerentemente questa concezione della politica la quale si scontra contro precisi limiti ed è inconciliabile con le condizioni di mantenimento del genere umano. La libertà soggettiva degli individui può fondarsi ed esprimersi solo se resta all’interno di una cornice che è stabilita dalla natura umana. Solo se esiste una comune e intangibile natura umana sussiste la possibilità che l’agire degli Stati, volto al mantenimento del genere umano, sia compatibile con gli scopi degli individui.

 

Vi sono, insomma, dei principi umani universali che non sono negoziabili: la sacralità della vita, la dignità di ogni persona, la libertà politica, economica, religiosa, la difesa della famiglia, la laicità, il pluralismo, la democrazia, la pari dignità tra uomo e donna. Questi principi derivano da autentiche e riconosciute verità sull’uomo e proprio per questo hanno una vita propria nel senso che sono sottratti alla disponibilità del potere politico e alla volontà dei singoli.

Eppure, quasi quotidianamente si sente affermare in giro come nessuno sia in possesso della verità e che quest’ultima andrebbe piuttosto intesa come ricerca. Ma dire questo significa confondere la verità politica, che nessuno possiede a priori, e la verità antropologica. La ricerca non può avere per oggetto la determinazione della verità sull’uomo, ma solo quella sui modi politici di concretizzarla[36].

 

In questa incapacità di riconoscere una comune e intangibile natura umana con un ordine di principi condivisi un ruolo importante lo gioca la tendenza, tutta moderna, a rinnegare, in nome del pluralismo e del multiculturalismo, il proprio volto, la propria identità, quasi essa fosse una colpa o rappresentasse un impedimento nell’incontro con l’altro.

 

È vero esattamente il contrario. La paura dell’altro nasce dalla propria debolezza. La xenofobia è, infatti, il tratto tipico di risposta di una identità debole.

 

In questa “deregulation” delle identità il primo atto può essere ravvisato nel mancato riconoscimento, negli Statuti della Comunità europea, delle radici giudaico-cristiane dell’Europa, mentre l’ultimo è rappresentato dal tentativo, effettuato con ogni mezzo e propaganda, di demolire le identità sessuali maschile e femminile per giungere alla scelta di genere, considerata come ultima forma di liberazione dell’umanità.

 

Uno dei massimi poeti del Novecento, Thomas S. Eliot, affermava: Un cittadino europeo può non credere che il cristianesimo sia vero e tuttavia quel che dice e fa scaturisce proprio da quella cultura biblica di cui è erede. Senza la Bibbia non ci sarebbe stato neppure un Voltaire o un Nietzsche. Se la Bibbia se ne va, se ne va la nostra stessa cultura[37].

 

Così la scrittrice Anna Maria Ortese in una intervista di Dacia Maraini: Io non vedo chiavi ai segreti del mondo che siano all’altezza della Bibbia, del Vecchio e del Nuovo Testamento. I principi di non uccidere, non rubare, onora il padre e la madre e così via mi sembrano fondamentali nel più modesto discorso per una rinascita del mondo e un mutamento di rotta[38].

 

E così Benedetto Croce: Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta …. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto…. La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità[39].

 

La rivoluzione del cristianesimo è un fatto inaudito e sconvolgente: Dio che per Amore si fa Uomo e divinizza l’Uomo.

 

La dignità di ogni persona è un concetto cristiano. Senza il messaggio cristiano che ha trasformato in persone a immagine di Dio tutti gli individui, essi non avrebbero dignità e tutte le conquiste più grandi sono derivate da lì, dal Dio fatto carne.

 

Pur essendo stato il cristianesimo la linfa vitale che ha dato origine al grande albero della cultura e della civiltà occidentale, l’Europa tecnocratica e secolarizzata gli è profondamente ostile e, nel momento stesso in cui i principi e i valori dell’Occidente sono fatti segno di una sanguinosa guerra terroristica, si rivela totalmente incapace di far fronte alla minaccia dell’estremismo islamico, se non con il dileggio satirico delle religioni e delle cose sacre.

 

Difatti, nonostante sia in atto da tempo, in decine di paesi e nel silenzio delle comunità internazionali, una sistematica e planetaria persecuzione del fondamentalismo islamico contro i cristiani (fra gli ultimi orrori l’eccidio di 147 studenti cristiani in Kenya il giovedì santo di quest’anno), nelle società civili, soprattutto europee, le divisioni più profonde non sono fra diverse culture religiose ma, piuttosto, tra le grandi culture storiche dell’umanità, da una parte e, dall’altra, un pensiero postmoderno nichilistico, secolaristico, radicale, (i cui epigoni sono gli intellettuali e le élites politiche e mediatiche), che vuole costruire la comunità umana senza Dio.

 

Illuminante, al riguardo, l’intervista al Gran Muftì di Bosnia, Mustafà Ceric per il quale l’Europa, o meglio la tradizione illuministica europea, obbliga le persone a vivere come se Dio non esistesse…..L’attuale collasso economico non è una questione di crisi finanziaria: è una crisi morale. Credo che l’Occidente sia colpevole di sette grandi peccati: benessere senza lavoro, educazione senza morale, affari senza etica, piacere senza coscienza, politica senza principi, scienza senza responsabilità, società senza famiglia, e ne aggiungerei un altro: fede senza sacrificio…..L’Occidente deve passare per una rivoluzione spirituale….Dovremmo “illuminare l’Illuminismo”, restituendogli la moralità di cui ora è privo[40].

 

Oltre a perseguire l’emancipazione dell’uomo da Dio, dalle radici della vita, la cultura secolaristica vuole liberare l’uomo anche della ragione, del suo rapporto con la realtà naturale. Basandosi su una concezione della libertà senza limiti e senza contenuti essa sostiene che per essere libera, la coscienza deve obbedire soltanto al desiderio individuale ossia alla volontà di potenza, mascherata da pensiero debole…e separarsi non solo e non tanto dalle tradizioni millenarie ma scindere il suo legame con la ragione, cioè con il pensiero forte che fa della coscienza un luogo di distinzione fra il bene e il male[41].

 

Il fatto è che sotto l’idea di neutralità o di laicità (la laicità si fonda sulla libertà religiosa e non sul rifiuto delle religioni), si dissimula in realtà il sostegno dello Stato a una visione secolaristica del mondo. Ma questa è solo una tra le varie visioni culturali che abitano la nostra società. Lo Stato cioè fa propria una specifica cultura, quella secolaristica, che attraverso la legislazione finisce col diventare cultura dominante producendo, nella vita collettiva e in quella dei singoli individui, quegli effetti devastanti così lucidamente descritti nell’analisi del Censis.

 

La liquidità con la disfatta sistemica e la solitudine-isolamento degli individui e dei gruppi sono il prodotto della desertificazione delle dinamiche umane come conseguenza di una umanità povera perché privata della trascendenza e dei legami con la tradizione.

È interessante considerare come ogni società cerchi di erigere al proprio centro una tenda sacra [42] che offra un sicuro punto di riferimento alla comunità. Nelle società del passato il nucleo di riferimento era rappresentato dalle antiche e centrali arche dell’alleanza che, sia pure diversamente denominate, erano in generale religiose. Nella stagione della modernità esse sono state sostituite da arche laiche. I sostituti laici della religione, dall’idea di ragione alla fede nel progresso, non hanno però generato nuove solidità, ma soltanto aperto la via a una diffusa liquidità. Nelle società secolarizzate non vi è più nessuna tenda sacra ma soltanto uno scrigno lasciato vuoto e, come ci ha spiegato Alexis de Tocqueville nell’opera La democrazia in America, senza più vita dello spirito, senza più vita morale le società democratiche non possono sopravvivere ma sono destinate a dissolversi.

 

Se le cose stanno così occorre allora ridestare, con la massima urgenza, l’antica anima dell’Europa e riproporre, proprio perché capace di fondare autenticamente valori e di costruire un’etica degna di questo nome, il messaggio cristiano nella sua essenzialità e nella sua unicità. Una “religione civile cristiana” che veda insieme laici e cattolici.

 

Per la società è così importante che esistano minoranze convinte: uomini che nell’incontro con Cristo abbiano trovato la perla preziosa, che dà valore a tutta la vita, facendo sì che gli imperativi cristiani non siano più zavorre che immobilizzano l’uomo, ma piuttosto ali che lo portano in alto… Una tale scelta di vita, con l’andare del tempo, fa emergere sempre più la sua razionalità, apre e guarisce la ragione divenuta stanca e pigra…Ma anche uomini che pur non sentendosi in grado di fare il passo della fede cercano appassionatamente la verità, soffrono per la mancanza di verità dell’uomo e, riprendendo i contenuti essenziali della cultura e della fede, li rendono, con il loro impegno, ancora più luminosi di quanto possa fare una fede scontata, accettata più per abitudine…

Senza tali forze sorgive non si costruisce niente[43].

 

Loredana Nardella

Sociologo della Provincia di Foggia

 

[1] D. De Masi, Il futuro del lavoro, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2003, p. 53.

[2] Ossia soggetto debole e sprovveduto.

[3] E. Mattina, Disoccupazione la vincibile armata, Guerini, Milano, 2001, p. 31.

 

[4] M. Biagi, I lavori “atipici” tra deregolazione e disciplina normativa, in L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, (a cura di), Marco Biagi. Un giurista progettuale. Scritti scelti, Giuffrè, Milano, 2003, p. 250.

[5] F. Ferrarotti, Il lavoro fisso è l’araba fenice, “Il Sole 24Ore”, 28 aprile 1996.

 

[6] Ibidem.

[7] M. Biagi, Le proposte legislative in materia di lavoro parasubordinato: tipizzazione di un tertium genus o codificazione di uno Statuto dei Lavori?, in L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, (a cura di), op. cit., p. 213.

[8] Cfr. il capitolo Lavoro, professionalità, rappresentanze del 48° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2014, Franco Angeli.

[9] D. De Masi, op. cit., p. 107.

[10] Idem, p.194.

[11] Idem, p.180.

[12] D. De Masi, Il lavoro nella società post-industriale, in F. Avallone (a cura di), La metamorfosi del lavoro, Franco Angeli, Milano, 1996, p. 33.

[13] M. Biagi, Competitività e risorse umane, in L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, (a cura di), op. cit, p. 151.

[14] Cfr. A. Cefis, La Grande Trasformazione del Lavoro – Come incide l’innovazione tecnologica sul futuro del lavoro? in Bollettino ADAPT, 7 aprile 2015, n. 13.

[15] Ibidem. Cfr. anche I. Maselli, Il mistero delle politiche attive, in Bollettino ADAPT, 25 marzo 2015.

[16] I. Maselli, op. cit.. Cfr. pure L. Olivieri, Garanzia Giovani: il finanziamento ai servizi per il lavoro delle province previsto dalla legge n. 190/2014, in Bollettino ADAPT, 11 marzo 2015.

[17]Così Voltaire citato da D. De Masi, Il futuro del lavoro, op. cit., p. 7.

[18] ISTAT, Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo.

[19] Tg2 RAI 20,30, 14 aprile 2015.

[20] www.dati.istat.it.

[21] Così Gian Maria Fara, presidente di Eurispes, nelle Considerazioni generali del Rapporto Italia 2015, p. 3.

[22] Così il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo intervento in occasione della celebrazione della Festa del Lavoro, Palazzo del Quirinale, 1 maggio 2015.

[23] ISTAT, Noi Italia, op. cit..

[24] Indici di integrazione degli immigrati in Italia, IX Rapporto del CNEL, 18 luglio 2013. Tra tutte le province, la Capitanata è quella che ha il potenziale di integrazione più basso.

[25] Nell’anno 2014 gli sbarchi sono stati centosettanta mila. Da gennaio a metà aprile 2015 sono giunti in Italia oltre 23.000 migranti (Tgcom24, 19 aprile 2015). Un milione di profughi sarebbero  pronti a partire dalla Libia (Tg2 RAI 20,30, 20 aprile 2015).

[26] Nella notte fra sabato e domenica 19 aprile 2015 è affondato nel canale di Sicilia un barcone di migranti: si temono 700 – 950 morti. È la più grande tragedia che sia mai avvenuta negli ultimi anni. Il 20 aprile 2015 altro naufragio in Grecia, davanti alle coste di Rodi. Forse 200 le persone a bordo. A due settimane dal naufragio del 19 aprile altri sbarchi con decine di morti annegati e migliaia di profughi soccorsi e trasferiti in diverse regioni italiane (Tg2 RAI 20,30, 5 maggio 2015).

[27] Eurispes, L’Italia in nero. Rapporto sull’economia sommersa 2012.

[28] www.dati.istat.it. Cfr. anche Angel Gurria, Segretario dell’OCSE, Presentazione dello Studio Economico sull’Italia, Roma, 19 febbraio 2015.

[29]Istituto G. Toniolo, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2014, Il Mulino.

[30] C. Nordio, Contro la corruzione, meno leggi, “Panorama”, 18 giugno 2014, pp. 66-69.

[31] Quando non indicato diversamente il corsivo si riferisce alle Considerazioni generali, pp. 1-10, del 48° Rapporto Censis, op. cit. Cfr. anche il Rapporto Italia 2015 di Eurispes in cui il presidente Gian Maria Fara, a p. 2 delle Considerazioni generali, parla di pericoloso processo di disarticolazione della società.

[32] Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2011.

[33] Così J. Ratzinger, Fede, verità, tolleranza, Cantagalli, Siena, 2003, p. 87.

[34] Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, Comunità, Milano, 1994.

[35] In V. Possenti (a cura di), Intervista a Robert Spaemann, “ Seconda navigazione”, Annuario di filosofia, Guerini, Milano, 2007.

[36] Così F. D’Agostino, Quali valori sono non negoziabili, “Avvenire”, 7 dicembre 2012, p. 33.

[37] G. Ravasi, Mappe e visioni del Grande codice, “Avvenire”, 19 ottobre 2007, p. 31.

[38] In L. Clerici (a cura di), Per Anna Maria Ortese, “Il Giannone”, semestrale di cultura e letteratura diretto da A. Motta, anno IV, numeri 7-8, gennaio-dicembre 2006, p. 52.

[39] B. Croce, Perché non possiamo non dirci cristiani, in Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari, 1945.

[40] M. L. Conte e M. Brignone, L’Europa sotto i lumi di Allah, in Il Sole 24Ore, 30 agosto 2009, p. 24.

[41] G. Ferrara, Siamo laici: rifiutiamo l’eugenetica, “Panorama”, 8 marzo 2007, p. 15.   

[42] M. Novak, Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Studium, Roma 1987, p. 59. Cfr. G. Campanini, Il tempo della fede, Paoline, Milano 2007.

[43] J. Ratzinger, Lettera a Marcello Pera, in M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici, Mondadori, Milano, 2004, pp.109-112.

 

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