I prossimi passi per l’apprendistato: le indicazioni di OCSE e Cedefop

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Bollettino ADAPT 25 gennaio 2021, n. 3

 

La scorsa settimana è stato pubblicato un report curato dall’OCSE e dal CEDEFOP “The next steps for apprenticeships” che tratteggia lo stato dell’arte dell’apprendistato in Europa e le possibili prospettive dei prossimi anni.

 

Punto di partenza dell’analisi è la constatazione che l’apprendistato, nell’ultimo decennio, ha raccolto un sempre maggiore consenso e interesse politico, oltre che l’attenzione di esperti e operatori, soprattutto per via degli ottimi livelli di occupazione giovanile registrati durante la crisi finanziaria del 2007 nei paesi nei quali il sistema di apprendistato è ben strutturato. E tuttavia ancora non sembra matura e radicata, soprattutto nella prassi, una visione comune su cosa l’apprendistato sia o dovrebbe essere. Non di rado l’apprendistato è utilizzato con scopi e funzioni diversi tra i vari Paesi oggetto della indagine e i soli elementi comuni in tutti gli ordinamenti sono l’esecuzione di una prestazione di lavoro e la sussistenza di un vincolo giuridico tra il giovane e il datore di lavoro. Come si legge nell’introduzione al rapporto esistono Paesi in cui l’apprendistato è concepito come un sistema educativo autonomo e altri in cui invece, a favore di una dimensione occupazionale più accentuata, è più semplicemente un metodo formativo alternativo a quello tradizionale («alternative mode of learning delivery»). Allo stesso modo vi sono Paesi in cui la paga dell’apprendista è assimilabile a quella di un lavoratore ordinario e altri in cui l’importo corrisposto al ragazzo è simbolico o comunque inferiore («weekly pocket money»). Non da ultimo, anche l’età degli apprendisti varia molta a seconda della nazione: in alcune sono coinvolti prevalentemente gli adolescenti, in altre i destinatari principali sono più in avanti con gli anni e non di rado con alcuni anni esperienza di lavoro alle spalle.

 

Al di là delle definizioni e delle disomogeneità dell’esperienza europea, i ricercatori di Cedefop e OCSE rimarcano come l’apprendistato si ritrovi oggi ad affrontare, non meno di altri istituti e strumenti, le grandi sfide che stanno attraversando il mondo del lavoro. Innanzitutto i cambiamenti tecnologici dovrebbero aumentare la centralità dell’apprendistato, incrementando anche la “capacità formativa” dei posti di lavoro, sempre più attrezzati e occasione di stimoli professionalizzanti per un giovane lavoratore al punto tale che le istituzioni educative dovrebbero anche rinunciare a rincorre l’industria contemporanea con costosissimi laboratori, difficilmente maneggiabili dallo staff scolastico, che si limitano replicare ciò che accade nelle imprese.

 

La gig economy, nella quale i lavoratori sono ingaggiati tramite piattaforme online, è anch’essa una minaccia («existential threat») per l’apprendistato. Venendo a mancare il ruolo del datore di lavoro “tradizionale” e affermandosi sempre più una organizzazione “piatta”, nella quale le gerarchie vengono meno o cambiano, il futuro dell’apprendistato non può che essere diverso. «Can apprenticeship exist without a “real” employer?», si chiede Erika Smith (docente della Federation university Australia) nel sesto capitolo del rapporto (Getting ready for new apprenticeship arrangements for a new world of work, pp. 59-68). Non è un caso che in molti Paesi vadano diffondendosi corpi intermedi, sia pubblici che privati, che erogano percorsi di apprendistato. Sul punto, il capitolo sette Shared apprenticeship (pp. 69-80), curato da un gruppo di ricercatori belga, ricostruisce alcune esperienze comparate in cui delle organizzazioni intermediarie rendono possibile l’accesso all’apprendistato anche alle piccole e medie aziende che, coordinate in percorsi multilaterali, cogestiscono il medesimo apprendista offrendogli un percorso formativo che si sviluppa presso più imprese.

 

Al netto degli stravolgimenti tecnologici, anche le aspirazioni dei giovani sembrano non trovare nell’apprendistato una meta particolarmente appetibile. L’ultima ricerca OECD’s PISA, che ha coinvolto centinaia di migliaia di quindicenni di tutto il mondo, ha rilevato un trend che va rinvigorendosi negli ultimi anni: i giovani ambiscono sempre più a frequentare percorsi di educazione terziaria e a svolgere lavori manageriali e professionali, rispetto ai quali l’apprendistato appare non funzionale. Il rischio, tutt’altro che marginale, è che l’apprendistato degradi a canale di addestramento dei c.d. lavoratori lowskilled, dal basso valore aggiunto e ridotto patrimonio professionale.

 

Quale futuro dunque per l’apprendistato? Gli scenari che possono delinearsi sono tre: l’apprendistato fake, l’apprendistato come brand e l’apprendistato come label. Secondo Philipp Grollmann (dirigente del BIBB, l’Istituto federale di formazione professionale della Germania) e Jörg Markowitsch (docente della Danube University Krems in Austria), autori del secondo capitolo del rapporto (The future of apprenticeships in Europe: three scenarios, pp. 22-31), l’apprendistato rischia prepotentemente di ridursi (o confermarsi) come mero strumento per accedere a forza lavoro con basse competenze a basso costo (fake apprenticeship) ovvero a mero slogan utilizzato in lungo e in largo, senza che il contenuto della proposta sia identificato chiaramente (apprenticeship as label). Nel migliore degli scenari, infine, l’apprendistato diverrà sempre più un impegno a lungo termine che il datore di lavoro assume in autonomia, con l’obiettivo di costruire percorsi professionali di alto livello.

 

A sostegno di queste previsioni, il report procede anche con un’analisi comparata che approfondisce, tra i tanti, i casi di Svezia (si veda il capitolo tre, J. Olofsson, Apprenticeship training in Sweden, pp. 32-38) e Inghilterra (si veda il capitolo quattordici, J. Hordern, Are apprenticeship standards in England supporting expert vocational practice, pp. 144-151). In particolare, in Svezia l’apprendistato è diventato un percorso istituzionale della scuola secondaria eppure continua ad avere difficoltà nell’attrarre studenti, soprattutto per la mancanza di un adeguato coordinamento a livello di governance tra il mercato del lavoro e il sistema educativo («…depends on specific istitutional contexts linked to labour market and education system arrangements», p. 16). Anche in Inghilterra lo strumento stenta a decollare per via, tra le altre cose, della scarsa propensione agli investimenti in capitale umano all’interno di un mercato del lavoro notoriamente caratterizzato da una forte flessibilità in entrata e in uscita (e pertanto il timore è quello che gli apprendisti possano comportarsi da free riders, portando i propri talenti e competenze presso altri datori di lavoro, una volta completato il periodo formativo).

 

La vera sfida, ben inquadrata da Dieter Euler (docente dell’University St. Gallen in Svizzera) nel quarto capitolo (Shaping the relationship between vocational and academic education, pp. 39-49), è quella di costruire una convergenza tra i percorsi educativi generali e quelli di istruzione e formazione professionale (VET). Nell’educazione generale e generalista d’altronde è sempre più diffuso il richiamo a competenze come il pensiero critico, il problem solving, l’imprenditorialità et similia. Dall’altro lato, nei sistemi con un apprendistato ad alto livello, è ancor più forte la domanda di un nesso maggiore con il mondo accademico, riconoscendosi la necessità di elevare i percorsi formativi e professionali dei lavoratori. È ad esempio il caso della Scozia (S. McKinlay, The development and implementation of a graduate apprenticeship programme, pp. 50-58), dove ha avuto un grande successo il percorso di Graduate apprenticeship in engineering. Ed è del resto anche il caso (non menzionato) dell’Italia dove, seppur con numeri ancora ridotti – ma comunque non inferiori a quelli registrati in Scozia – esistono buone pratiche di apprendistato di alta formazione (di frequente raccontate anche sulle pagine virtuali del Bollettino ADAPT, vedi da ultimo M. Colombo, E. Massagli, Verso la costruzione di un (vissuto, non teorico) sistema di apprendistato duale: la nuova disciplina di Regione Piemonte, Bollettino ADAPT n. 45/2020), alcune delle quali conducono anche al conseguimento di un titolo di dottorato, elevando non di poco il prestigio e la reputazione dello strumento che, come si è visto, è ancora troppo spesso assimilato al garzonato di bottega. Le trasformazioni tecnologiche stanno d’altronde eliminando la storica divisione tra i due ordinari metodi di apprendimento: per entrambi, sia quello teorico che quello pratico, la digitalizzazione consente di acquisire facilmente le competenze nozionistiche e pertanto un’impresa, come segnalato da Mann e Ranieri, «non paga più qualcuno per ciò che sa ma per ciò che è in grado di fare in situazioni mutevoli» (p. 16).

 

Giorgio Impellizieri

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@giorgioimpe

 

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