I Fondi di solidarietà: una sussidiarietà priva di personalità

Sussidiarietà? Sì, ma senza troppa convinzione. Sembra essere questo il messaggio che il Legislatore vuole trasmettere a seguito dell’emanazione del d.lgs. n. 148, avvenuta lo scorso 14 settembre. Il decreto, avente ad oggetto “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” dà applicazione, tra gli altri principi, all’articolo 1, comma 2, lettera a, n. 7) della citata legge delega, che espressamente prevede la revisione dell’ambito di applicazione della cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria e dei fondi di solidarietà di cui all’articolo 3 della legge 28 giugno 2012, n. 92.

 

Con questo provvedimento, quindi, si torna a mettere mano al sistema degli strumenti del sostegno al reddito, con il proposito di rendere maggiormente coerenti e universali le prestazioni erogate. Per raggiungere tale obiettivo, il Legislatore è autorizzato, dalla legge delega n. 183/2014, alla «valorizzazione della bilateralità attraverso il riordino della disciplina vigente in materia, nel rispetto dei principi di sussidiarietà, flessibilità e prossimità anche al fine di definire un sistema di monitoraggio e controllo sui risultati dei servizi di welfare erogati» (art. 1, comma 4, lett. o).

 

Ad una prima analisi dell’intervento legislativo, non pare esserci stata una vera valorizzazione della componente bilaterale, così come sembra che non si sia riusciti, sino in fondo, a definire i limiti e la portata che lo Stato vuole assegnare alla componente sussidiaria, destinata comunque a connotare l’attuale (e futuro) sistema degli ammortizzatori sociali e più in generale del welfare (cfr. la proposta di ADAPT, Lavoro e welfare della persona – Un “Libro Verde” per il dibattito pubblico).

 

Invero, che la sussidiarietà sia un elemento ormai imprescindibile del sistema di welfare state emerge con chiarezza non solo dalla realtà (si pensi al ruolo di aziende, reti d’impresa, terzo settore e Onlus nell’affiancarsi al potere pubblico nell’erogazione di beni e servizi per rispondere a bisogni sociali), ma, anche e soprattutto, dalla scelta compiuta dal Legislatore, quasi vent’anni or sono, di utilizzare proprio il canale bilaterale per risolvere almeno parte dei problemi conseguenti alla modernizzazione dei processi produttivi di specifici settori (quali quello bancario, assicurativo e di altre aziende pubbliche privatizzate).

 

L’esperimento portato avanti con i Fondi di sostegno al reddito di cui all’art. 2, comma 28, legge n. 662/1996 e, più in generale, i passi compiuti, a partire dagli ultimi decenni del Novecento, dalla bilateralità nell’integrazione del reddito in settori cruciali, quali quello dell’artigianato, devono essere sembrati buoni presupposti cui ispirarsi quando, nel 2012, la c.d. legge Fornero sceglieva di dare risposta alle istanze di un ampliamento delle tutele in costanza di rapporto, proprio attraverso lo strumento dei Fondi di solidarietà, declinati nei tre modelli, bilaterale, alternativo e residuale, di cui rispettivamente all’art. 3, comma 4, 14 e 19 della stessa legge.

 

La bilateralità, quindi, veniva e viene oggi scelta quale strumento cui affidare, in funzione sussidiaria, prerogative statuali nel campo della protezione sociale, perché capace di raggiungere un duplice risultato: l’ampliamento del bacino di soggetti destinatari della tutela di sostegno al reddito in costanza di rapporto, ma anche il rispetto del vincolo di pareggio di bilancio, di cui all’art. 81 Cost., aspetto certamente di non poco conto.

 

Ma quale ruolo il Legislatore ha inteso realmente affidare alla bilateralità nel campo del sostegno al reddito dopo il Jobs Act? In parte, la risposta a questa domanda può rinvenirsi nella odierna disciplina riferibile ai fondi con finalità di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro, contenuta nel decreto legislativo n. 148/2015 e, soprattutto, nei limiti e nelle possibilità da quest’ultimo introdotti in riferimento ai diversi modelli di fondo. La disciplina, è bene dirlo, è in gran parte sovrapponibile a quella a suo tempo emanata con la legge n. 92/2012, ma qualche differenza c’è.

 

In particolare, all’art. 26, il decreto si occupa di disciplinare il modello del fondo di solidarietà bilaterale, costituito a partire dall’azione collettiva degli organismi bilaterali e istituito, mediante decreto del MLPS, presso l’INPS. I fondi attuati sulla base di questo modello, infatti, rappresentano una gestione separata dell’ente previdenziale e, conseguentemente, sono privi di personalità giuridica (art. 26 comma 5). L’ambito di applicazione rispetto al settore di attività, alla natura giuridica e alla classe di ampiezza dei datori di lavoro, le prestazioni erogabili (obbligatorie e facoltative), i livelli di contribuzione, invece, sono tutti elementi determinati con decreto ministeriale. Gli oneri di amministrazione sono individuati mediante regolamento dell’INPS.

Dulcis in fundo, è previsto che i settori che non rientrano nell’ambito di applicazione delle norme in materia di cassa integrazione non possano esimersi dal prevedere una tutela del sostegno al reddito per i loro addetti, sia mediante l’istituzione ex novo di questa tipologia di fondi, sia mediante l’adesione a fondi già esistenti, sia attraverso l’obbligo di contribuzione al fondo residuale, di cui si dirà a breve.

 

Il fatto che tali fondi rappresentino una gestione separata INPS comporta, automaticamente, la loro assimilabilità alle altre gestioni previdenziali, e il riconoscimento, in via indiretta, di una natura pubblicistica che porta con sé l’obbligatorietà erga omnes e la capacità di costituire ed intrattenere rapporti giuridici, rispetto sia alla raccolta dei contributi di finanziamento, che nella successiva fase di erogazione dei sussidi, anche se per il tramite dell’ente previdenziale.

 

Di contro, all’art. 28 e all’art. 29 vengono disciplinati, rispettivamente, la transizione dal fondo di solidarietà residuale a quello, sostitutivo, di integrazione salariale. In questo caso, il fondo rappresenta non l’espressione della bilateralità, ma del potere statale. Questa tipologia di fondo, infatti, altro non è che la “norma di chiusura” di un sistema che si propone, comunque, quale finalità ultima, quella di garantire la previsione, per tutti i lavoratori, di uno strumento di tutela in caso di sospensione dell’attività di lavoro.

 

Pertanto, nei settori non coperti dagli ordinari strumenti di cassa integrazione guadagni, laddove l’iniziativa sussidiaria lasciata alla bilateralità non si sia concretizzata, le imprese hanno l’obbligo di aderire e contribuire al fondo residuale, individuato proprio all’art. 29. Anch’esso rappresenta, per espressa previsione normativa, una gestione separata INPS, con tutte le conseguenze appena sopra richiamate.

 

Infine, all’art. 27 del decreto, il Legislatore si occupa dei c.d. fondi di solidarietà alternativi, già previsti dall’art. 3 comma 14 della legge n. 92/2012. Tali fondi possiedono una disciplina peculiare rispetto ai due precedenti e rappresentano probabilmente il più vero esempio di come e quanto la bilateralità e le relazioni industriali possano assolvere alle funzioni loro attribuite dall’ordinamento.

 

Sulla base del dettato normativo, tuttavia, in futuro non potranno più essere costituiti fondi su questo modello, stante il tenore letterale dell’art. 27, comma 1, secondo cui la norma è applicabile esclusivamente ai fondi bilaterali che risultano già adeguati alla disciplina vigente alla data di entrata in vigore del decreto n. 148/2015.

 

Deve rilevarsi, infatti, come questi fondi siano gli unici ad essere costituiti in settori in cui la bilateralità rappresenta un sistema consolidato di gestione delle relazioni industriali, a partire dall’adeguamento di fondi bilaterali preesistenti alle nuove finalità. Essi divengono efficaci senza la necessità di ulteriore decretazione da parte del MLPS, che si limita a determinare, come previsto dalla legge, solo i requisiti di professionalità e onorabilità dei soggetti preposti alla loro gestione, nonché i criteri e i requisiti per gestire la contabilità. Stante la mancanza di espressa previsione al riguardo, gli stessi non rappresentano una gestione separata INPS.

 

Guardando, quindi, alla loro natura giuridica, i dati che emergono sono principalmente due.

In primo luogo, tali fondi nascono a partire dalla contrattazione collettiva e si estrinsecano nell’adeguamento dell’atto costitutivo dell’associazione alle finalità perseguite dalla legge. Pertanto, i fondi basati sul modello alternativo, giuridicamente, sono inquadrabili nella categoria delle associazioni di fatto, ex art. 36, cod. civ., di per sé prive di personalità giuridica.

In secondo luogo, è indubbio che la finalità perseguita da questo tipo di fondo sia del tutto analoga a quella ricercata dagli altri fondi di solidarietà e da ricondursi all’art. 38, comma 2, Cost. Questo dato fa propendere verso il riconoscimento, nei confronti dell’ente, dello svolgimento di una funzione pubblicistica.

 

La questione non è di secondaria importanza. Se i fondi di solidarietà siano dotati o meno di personalità giuridica e, nel caso se essa sia di tipo pubblico o privato, è questione dibattuta, soprattutto per le possibili implicazioni e conseguenze pratiche che ne derivano.

 

In particolare, se ci si basa sul solo dato testuale, i fondi alternativi sono associazioni non riconosciute, prive di personalità giuridica, che, quindi, non godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, cioè, sono prive di una separazione assoluta tra patrimonio dei membri e patrimonio dell’ente. Inoltre, l’obbligo di contribuzione al fondo e quello di erogazione delle prestazioni, con questo presupposto, rientrano nel campo dei rapporti privatistici tra associazione e associati, con limiti di esigibilità ben precisi per e nei confronti dei terzi. Tuttavia, questa natura giuridica permette anche di conservare un’ampia autonomia decisionale e di autodeterminazione, fattori che, da sempre, hanno connotato il fenomeno bilaterale.

 

Di contro, guardando al dato funzionale, ai fondi viene demandata la tutela di diritti riservati, in prima battuta, allo Stato. L’art. 38, comma 2, Cost. non solo connota le funzioni assicurate dai fondi come di tipo pubblicistico, ma le riserva, in via di principio, alla sola competenza statale. Arrivare al riconoscimento di una natura giuridica pubblica per i fondi alternativi, ragionando per analogia a partire da quella che possiedono, per via interposta, le altre tipologie di fondo, significa, prima di tutto, garantire l’obbligatorietà erga omnes delle sue statuizioni e, quindi, tutelare la certezza dei rapporti giuridici che tale ente intrattiene. Tale ricostruzione comporta necessariamente dei vincoli maggiori per la bilateralità, cui corrisponde una perdita di autonomia decisionale e operativa.

 

Così facendo, però, il modello di sostegno al reddito in costanza di rapporto sembra finire per essere falsamente sussidiario. Alla sussidiarietà non vengono demandate scelte concrete in ordine alle modalità con cui attuare la tutela di diritti costituzionalmente garantiti, ma più semplicemente il ruolo di “esattore” rispetto alle risorse finanziarie necessarie per erogare i sussidi, in un momento di scarsità per le casse erariali.

 

Con l’ultimo intervento legislativo pare essere passati dall’introduzione di misure sperimentali, che chiedevano alla bilateralità di attivarsi per garantire, in settori produttivi in cui non erano ancora presenti, le tutele già offerte dall’ordinamento a parte dei lavoratori, ad una misura sistematica e stabile, che permette una sorta di “deresponsabilizzazione” dell’ordinamento pubblico.

 

In particolare, con questo escamotage, l’obiettivo di estendere la tutela in un’ottica universalistica, è formalisticamente raggiunto e lasciato nell’orbita statale, anche se le risorse economiche che ne permettono il finanziamento hanno matrice esclusivamente privata, con netto risparmio delle risorse economiche pubbliche che sarebbero servite per assicurare, in modo uniforme, tali diritti a nuove fasce di lavoratori.

 

Probabilmente, la scelta di ricondurre gli strumenti pensati dalla bilateralità sotto lo “scudo” dell’ordinamento previdenziale ordinario è stata anche dettata dalla storica mancata attuazione dell’art. 39 comma 4 Cost. Tutto ciò, però, piuttosto che una valorizzazione, sembra comportare una svalutazione del ruolo riservato alla bilateralità rispetto alla funzione di sostegno al reddito, alla sua capacità di valutare la “salute” del settore di riferimento e, ancor più, di intervenire con scelte in grado di incidere sul presente, ma soprattutto sullo sviluppo futuro, della realtà produttiva. Forse la sussidiarietà senza personalità, non è ancora sussidiarietà.

 

Daniela Del Duca

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@DelducaD

 

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